Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32035 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 32035 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 9212/2022 proposto da:
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
–
ricorrente –
contro
A rcieri NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME giusta procura allegata al controricorso.
(PEC: EMAIL
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della BASILICATA n. 214/02/2021, depositata in data 30 settembre 2021, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 3 dicembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha accolto parzialmente l’appello dell’Ufficio (dichiarando legittimo il recupero a tassazione dell’Iva nei limiti indicati in motivazione), proposto avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso di COGNOME avente ad oggetto l’avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 2012, con il quale erano stati recuperati a tassazione gli importi delle fatture contabilizzate, ma non dichiarate e i maggiori compensi accertati mediante il controllo incrociato dei modelli 770 dei sostit uti d’imposta destinatari delle fatture emesse dal contribuente.
I giudici di secondo grado hanno rigettato il primo motivo di appello, integrando la motivazione dei giudici di primo grado (che avevano evidenziato che era stata raggiunta la prova dell’incasso dei compensi in oggetto nel periodo d’imposta 2013 e che, quindi, i compensi non andavano dichiarati nel 2012), affermando che il richiedere da parte dell’Ufficio la prova dell’incasso di cifre pagabili con modalità non tracciabile esponeva il contribuente ad un onere concretamente non assolvibile qualora tali pagamenti erano avvenuti in contanti; inoltre, il rischio della prescrizione ex art. 2956 cod. civ. (indicato dall’Ufficio come elemento di prova sulla ritenuta evasione fiscale), non era conferente poiché la norma in esame precedeva la mera prescrizione presuntiva che ex se non determinava la perdita del credito triennale indicato ma introduceva una mera presunzione di avvenuto pagamento invocabile dal debitore nei termini e nei limiti indicati dall’art. 2956 citato.
La Commissione tributaria regionale ha, poi, accolto il motivo di appello sul recupero relativo al mancato assolvimento dell’IVA sulle fatture riprese a tassazione in quanto emesse in maniera non conforme al dettato dell’art. 7 del decreto legge n. 185 del 2008, rilevando che, dall’esame dei documenti versati in atti dallo stesso contribuente, emergeva che questi non aveva mai emesso fatture complete dei requisiti formali previsti dalla norma citata in base alla quale doveva essere espressamente indicata nel documento fiscale l’esigibilità differita dell’Iva e che questo requisito non costituiva un dato puramente esteriore, ma assolveva alla funzione di bloccare il meccanismo di esigibilità ordinariamente previsto per l’IVA rendendo edotto il cessionario della assenza di imposizione IVA al momento dell’emissione della fattura e della conseguente indetraibilità della stessa; i giudici di secondo grado concludevano, dunque, ritenendo legittimo il recupero IVA sull’imponibile indicato dall’Ufficio in euro 34.767,00, decurtato l’importo di euro 15.049,00 relativo alle fatture delle quali non vi era prova dell’incasso nel periodo di imposta 2012.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
Arcieri COGNOME resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione del canone di sinteticità di cui all’art. 366 cod. proc. civ. ( il ricorso è viziato per via della sua prolissità, posto che viene pedissequamente riproposta per intero tutta la vicenda di merito, sottesa ai primi due gradi di giudizio innanzi al giudice tributario ), dovendosi richiamare la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a. ma espressione di un principio generale del diritto processuale, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di
inammissibilità dell’impugnazione non già per l’irragionevole estensione del ricorso (la quale non è normativamente sanzionata), ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite – queste sì da una sanzione testuale di inammissibilità (Cass., 21 marzo 2019, n. 8009), che, nella specie, non ricorre, tenendo conto del complessivo contenuto del ricorso.
Il primo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 54 del d.P.R. n. 917 del 1986, 12 del decreto legge n. 201 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214 del 2011, nonché dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.. Il Giudice Regionale non aveva fatto buon governo dei principi relativi alla normativa riguardante sia il c.d. principio di cassa dei lavoratori autonomi di cui all’art. 54 del d.P.R. n. 917 del 1986, sia delle modalità di legge circa i pagamenti. Risulta errata l’affermazione del Giudice Regionale secondo cui trattandosi di cifre pagabili in contanti, la prova richiesta dall’ufficio al contribuente era troppo gravosa, dato che l’importo delle singole fatture recuperate a tassazione con l’avviso di accertamento impugnato era superiore ai limiti di legge per l’utilizzo del contante.
2.1 Il primo motivo è fondato.
2.2 In materia d’imposte sui redditi, i redditi da lavoro autonomo vanno dichiarati secondo il principio di cassa e non di competenza ai sensi dell’art. 54, primo comma, del d.P.R. n. 917 del 1986; ne consegue che l’importo delle fatture emesse dal professionista, ove sia comprovato che l’incasso dei compensi professionali è avvenuto in un anno d’imposta successivo a quello di emissione delle fatture, concorre alla determinazione del reddito da lavoro autonomo ai fini IRPEF con
riguardo all’anno di effettiva riscossione e non già con riguardo a quello di emissione (Cass., 19 agosto 2022, n. 24996; Cass., 30 luglio 2014, n. 17306; Cass., 15 aprile 2011, n. 8626).
2.3 Inoltre, s petta al professionista dare la prova che l’incasso dell’importo delle fatture emesse nell’anno d’imposta oggetto di accertamento sia avvenuto in epoca ad esso successiva (Cass., 30 luglio 2014, n. 17306; Cass., 15 aprile 2011, n. 8626).
2.4 Nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale, nella parte in cui afferma che l’Ufficio aveva richiesto la prova di cifre pagabili in modalità non tracciabile, così esponendo il contribuente ad un onere concretamente non assolvibile, si è posta sostanzialmente contro l ‘orientamento di questa Corte sopra richiamato, violando i princìpi che presiedono al riparto dell’onere della prova, avendo addossato sull’Agenzia delle Entrate l’onere di provare che quegli importi (fatturati nel 2012) erano st ati incassati nel periodo d’imposta successiva al 2012, con ciò violando anche il principio di cassa per la determinazione del reddito derivante dall’esercizio di professioni , secondo cui non si considera l’anno in cui matura il diritto o sorgono le obbligazioni, ma l’anno in cui i compensi sono stati percepiti e le spese sostenute. Ciò, peraltro, senza prescindere dal riferimento (erroneo) alla prova dell’incasso di cifre pagabil i in modalità non tracciabile, che riguarda, come già affermato da questa Corte, il diverso piano della disciplina antiriciclaggio (cfr. Cass., 7 agosto 2024, n. 22292). Più specificamente, a fronte degli elementi forniti dall’Ufficio sullo scostamento fra quanto desunto dalla contabilità del professionista e i modelli 770 presentati dai vari sostituti d’imposta, era il contribuente a dovere dare la prova di avere effettivamente incassato i crediti nel 2013 e della dichiarazione di tali somme nell’Unico relativo a tale annualità; il contribuente, invero a fronte di fatture emesse e non incassate per complessivi euro 39.707,39,
aveva dimostrato con la documentazione contabile relativa al periodo d’imposta 2013, esibita in data 13 ottobre 2017, che soltanto una parte delle suddette fatture era stata incassata nel corso dell’anno 2013, mentre per la restante parte (pari ad euro15.049,89 relativa a fatture nemmeno annotate nella contabilità del 2013), il contribuente non aveva fornito alcuna prova; i giudici di secondo grado, dunque, ritenendo che le fatture in questione potessero essere state pagate in contanti (in disparte quanto a ffermato dall’Ufficio nel ricorso sul superamento del limite di 1.000,00 con riguardo a tutte le fatture in contestazione) e affermando che il contribuente non poteva provare l’incasso negli anni successivi di somme non tracciabili, ha violato l’onere della prova, che spettava al contribuente e non all’Ufficio.
3. Il secondo mezzo deduce la violazione e/a falsa applicazione del combinato disposto dei commi 3, 4 e 5, primo periodo, dell’art. 6 del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. Il giudice regionale, che pure aveva correttamente ritenuto che il regime speciale dell’art. 7 del decreto legge n. 185/2008, ratione temporis vigente, non era applicabile alla fattispecie in esame per la mancata indicazione nelle fatture della ragione e della fonte normativa che legittimava l’esigibilità differita dell’imposta, avrebbe dovuto dichiarare applicabile il regime ordinario dell’esigibilità dell’imposta al momento di effettuazione dell’operazione (nella specie l’emissione della fattura), con la conseguenza di ritenere tutta l’IVA di periodo (2012) esigibile nello stesso anno, a prescindere dall’incasso o meno di parte delle fatture emesse (per un imponibile complessivo di euro 15.049,00). La Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto confermare integralmente il recupero dell’IVA contenuto in accertamento, vale a dire per un ammontare di imposta pari ad euro 15.196,00 su di un
volume d’affari complessivo di euro 72.362,00, risultante dalla somma di euro 37.595,00, quali operazioni ad esigibilità ordinaria regolarmente dichiarate dal contribuente ed esposte nel rigo VE22, con la somma di euro 34.767,00, quali operazioni dichiarate erroneamente ad esigibilità differita nel rigo VE36 e riqualificate come operazioni ad esigibilità ordinaria e ricondotte, come le prime, al rigo VE22 del quadro VE della dichiarazione IVA relativa al periodo d’imposta 2012.
Il terzo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, del decreto legislativo n. 546 del 1992, nonché dell’art. 132, comma 2, n. 4, cod. proc. civ. e dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. Nullità della sentenza per manifesta ed irriducibile contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.. L’affermazione del Giudice Regionale, secondo cui la mancata indicazione sulle fatture del regime Iva ad esigibilità differita di cui all’art. 7 del decreto legge n. 185 del 2008 rendeva esigibile l’Iva in maniera ordinaria e, quindi, già all’atto dell’emissione delle fatture, era del tutto inconciliabile con la rilevanza data dal giudice alla circostanza che per alcune fatture non vi era la prova del loro incasso nel 2012.
4.1 I motivi, che devono essere trattati unitariamente perché connessi, sono fondati.
4.2 Il decreto legge n. 185 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 2 del 2009, n. 2, ha esteso con l’art. 7, inizialmente transitoriamente per i periodi di imposta 2009 -2011 e poi a regime con la legge n. 2 del 2009, la possibilità per i contribuenti di avvalersi, per le cessioni intermedie della catena produttiva/distributiva (con esclusione del cessionario consumatore finale), del menzionato regime dell’IVA differita, già previsto dall’art. 6, quinto comma, secondo periodo, del d.P.R. n. 633 del 1972. Si
tratta di una misura eccezionale, da interpretare restrittivamente al pari delle altre deroghe consentite dalla Direttiva 112/2006/CE (CGUE, 16 maggio 2013, TNT Express Worldwide, C-169/12, punto 24) che non istituisce propriamente un regime di esigibilità differita (di cassa) per il contribuente per tutte le operazioni attive, consentendogli di optare per questa soluzione discrezionalmente in relazione a quelle specifiche cessioni (di beni o servizi) intermedie per le quali il contribuente intenda fare applicazione di tale disciplina. Come contrappeso a questa facoltà attribuita al contribuente (a sua discrezione) – in relazione a singole operazioni sottostanti («per le operazioni di cui al presente comma») – il legislatore ha richiesto che per le operazion i per cui vi sia stata l’opzione per l’IVA differita per cassa « la fattura reca l’annotazione che si tratta di operazione con imposta ad esigibilità differita, con l’indicazione della relativa norma », pena l’applicazione del regime ordinario. La suddetta disposizione è stata abrogata (con decorrenza dal 1° dicembre 2012) dall’entrata in vigore dell’art. 32 -bis della legge n. 132 del 2012 di conversione del decreto legge n. 83 del 2012, che costituisce attuazione del l’art . 167bis della Direttiva 112/2006/CE, introdotto dalla Direttiva 2010/45/UE, che ha previsto per gli Stati membri, a sostegno delle piccole e medie imprese, l’introduzione per le cessioni intermedie di un «regime opzionale» (art. 167bis , par. 1 e 2) di differimento dell’esigibilità dell’IVA e della corrispondente detrazione, ove il soggetto passivo abbia un fatturato annuo non superiore a euro 2.000.000,00. Si tratta di un regime facoltativo di contabilità di cassa ai fini IVA, diretto a semplificare il pagamento dell’imposta per le piccole imprese (CGUE, C -169/12, cit., punto 34), nonché ad aiutare dichiaratamente le piccole e medie imprese che hanno difficoltà a pagare anticipatamente l’imposta rispetto al
momento dell’incasso della prestazione (CGUE, C -9/20, cit., punto 56).
4.3 Questa Corte, dopo avere evidenziato che tra l’art. 7 del decreto legge n. 185 del 2008 e l’art. 32 bis del decreto legge n. 83del 2012 non sussiste continuità normativa, ha precisato che l’art. 7 del decreto legge n. 185 del 2008 è riconducibile alle deroghe accordate ai singoli Stati membri dall’art. 66 della Direttiva n. 112/2006/CE ed è norma adottata sulla base di eventi eccezionali, la quale (trattandosi di una deroga al regime IVA ordinario) va in ogni caso interpretata in senso restrittivo, al p ari delle altre deroghe all’art. 66 della Direttiva n. 112/2006/CE e consente al contribuente (in relazione al periodo di imposta per cui è causa) di avvalersi del regime di IVA per cassa solo per determinate operazioni e ha statuito il seguente principio di diritto: « L’art. 7 d.l. n. 185/2008 consente ai contribuenti che effettuino cessioni di beni o prestazioni di servizi nei confronti di cessionari o committenti che agiscano nell’esercizio di impresa, arte o professione, di avvalersi del regime di IVA differita di cui all’art. 6, quinto comma, d.P.R. n. 633/1972, a condizione che le relative fatture rechino espressamente l’annotazione che si tratta di operazioni con imposta a esigibilità differita e che rechino l’indicazione della relativa norma » (Cass., 14 febbraio 2024, n. 4112).
4.4 Ancora la Corte di Cassazione ha stabilito che « In tema di Iva, devono distinguersi, in base alla disciplina unionale, due diversi momenti: a) quello del fatto generatore dell’imposta e cioè dell’evento che origina l’obbligazione tributaria e l’imponibilità ai fini Iva, che rileva ai fini della individuazione del periodo di competenza ex articolo 109 del d.p.r. n. 917 del 1986; b) quello del pagamento e della esigibilità dell’imposta, e cioè dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione dall’Erario e si
concretizza all’atto del pagamento del corrispettivo; l’art. 6, terzo comma del d.P.R. n. 633 del 1972, laddove prevede che le prestazioni di servizi si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo, attiene esclusivamente al momento della esigibilità dell’imposta. Le fasi del fatto generatore dell’imposta e dell’esigibilità, quest’ultima quale attualità della pretesa tributaria da parte del Fisco, ‘di regola’ coincidono, ma se c’è scissione temporale, i due momenti devono essere tenuti ben distinti (Cass., 21 ottobre 2021, n. 29485) e che « In tema di Iva, in base alla disciplina unionale, il momento del fatto generatore dell’imposta, cioè dell’evento che origina l’obbligazione tributaria e l’imponibilità ai fini Iva, il quale rileva ai fini della individuazione del periodo di competenza ex articolo 109 del d.p.r. n. 917 del 1986, deve essere distinto dal momento del pagamento e della esigibilità dell’imposta, e cioè dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione dall’Erario, e che si concretizza all’atto del pagamento del corrispettivo. Tali momenti, pur di regola coincidenti, ove temporalmente scissi devono essere tenuti distinti, sicché nell’ipotesi in cui il committente abbia esercitato il recesso dal contratto di appalto ex art. 1671 c.c., con conseguente scioglimento anche del contratto derivato di subappalto, è onere del contribuente, in caso di pagamenti non contabilizzati (in nero), fornire, non la “prova contraria del fatto negativo”, ossia dimostrare la mancata ricezione del pagamento, ma la “prova positiva contraria”, consistente nei vani tentativi di riscuotere il proprio credito o nella allegazione delle ragioni della rinuncia » (Cass., 21 ottobre 2021, n. 29485) e che « In tema di IVA, il fatto generatore dell’obbligazione tributaria, che comporta l’obbligo di fatturazione, in caso di prestazione di servizi è costituito dalla materiale esecuzione della prestazione, laddove il pagamento del corrispettivo identifica esclusivamente il momento di
esigibilità dell’imposta, ossia quello di riscossione, nonché, in relazione a quanto previsto dall’art. 21, comma 4, del d.P.R. n. 633 del 1972, il termine per l’adempimento dell’obbligo di emettere fattura » (Cass., 1 aprile 2021, n. 9064; cfr. anche Cass., Sez. U., 21 aprile 2016, n. 8059) e che « In materia di iva, l’amministrazione finanziaria che, a fronte di indicazioni contabili che prevedano l’annotazione di prestazioni di servizi dapprima in un conto “fatture da emettere” e poi in un conto relativo a crediti da riscuotere, contesti l’omessa fatturazione delle operazioni, ha l’onere di provare, anche sulla base di elementi presuntivi, che il pagamento, pure per equivalente, è stato in realtà compiuto, oppure che il contribuente intende sottrarsi all’adempimento dell’obbligo di fatturazione e di assolvimento dell’imposta, anche in considerazione del tempo trascorso dall’esecuzione dell’operazione, attesi l’interesse del prestatore a ricevere il pagamento rapido del prezzo e la correlazione del diritto di detrazione all’esigibilità dell’imposta » (Cass., 1 aprile 2021, n. 9064).
4.5 Ciò posto, in relazione alle circostanze di fatto emerse in giudizio, con riferimento all’Iva, il rilievo contestato concerneva operazioni imponibili pari ad euro 72.362,44 e relativa Iva esigibile nell’anno 2012, pari ad euro 15.196,11, connesse al totale delle fatture emesse; in particolare, a fronte di un volume d’affari totale pari ad euro 72.362,44 ed Iva relativa pari ad euro 15.196,11, il contribuente indicava al rigo VE22 l’importo di € 37.595,00, quali normali operazioni imponibili che davano luogo ad IVA esigibile nell’anno pari ad euro 7.895,00, mentre indicava al rigo VE36 della dichiarazione l’importo residuo di euro 34.767,00 quali operazioni ad esigibilità differita. La Commissione tributaria regionale, dunque, dopo avere ritenuto (correttamente) che il regime speciale dell’art. 7 del decreto legge n. 185/2008, ratione temporis vigente, non
era applicabile alla fattispecie in esame per la mancata indicazione nelle fatture della ragione e della fonte normativa che legittimava l’esigibilità differita dell’imposta, non ne ha tratto le dovute conseguenze in termini di applicazione del regime ordinario dell’esigibilità dell’imposta , calcolando l’Iva sull’intero importo delle operazioni imponibili pari ad euro 72.362,44 e relativa Iva esigibile nell’anno 2012, pari a complessivi euro 15.196,11 (e non già ad euro 7.895,00).
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso va accolto; la sentenza impugnata va cassata e la causa deve essere rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 3 dicembre 2024.