Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 10364 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 10364 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 36043/2018 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, in persona del liquidatore, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO NOME COGNOME INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della C.T.R. del Lazio n. 3915/2018 depositata il 11/06/2018.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Procuratore generale, che conclude per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore di parte ricorrente, che conclude per l’accoglimento del ricorso;
Udito l’Avvocato dello Stato che conclude per il rigetto del ricorso
FATTI DI CAUSA
La soc. RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, impugna la sentenza della C.T.R. del Lazio che ha respinto l’appello della medesima società avverso la sentenza della C.T.P. di Roma di rigetto del ricorso avverso l’avviso di accertamento, con il quale per l’anno di imposta 2006, erano accertate maggior IRES, IRAP ed IVA ed irrogate le sanzioni tributarie.
La C.T.R. premette che con l’atto impositivo, riguardante la rettifica della dichiarazione reddituale della società relativa all’anno di imposta 2006, è stata accertata una maggior IRES per euro 807.419,00, una maggior IRAP per euro 129.398,00, una maggior IVA per euro 262.509,00 ed irrogata una sanzione amministrativa unica pari ad euro 1.211.128,50. Indi, dà atto che l’accertamento aveva preso le mosse da due processi verbali di constatazione, rispettivamente del 17 luglio 2008 e del 25 giugno 2009. Con il primo, era stata accertata l’irregolare tenuta della contabilità per omessa dichiarazione di ricavi per euro 4.482,00 con un debito IVA per euro 898,00 e per indebita deduzione di costi ritenuti non inerenti, pari ad euro 14.792,00, con IVA indebitamente detratta per euro 8.470,00.
Con il secondo verbale di constatazione, all’esito delle indagini bancarie svolte della G.d.f. sul conto corrente della società e dei soci, nel contraddittorio con le parti, l’Agenzia delle entrate riteneva non giustificati versamenti per euro 1.590.154,51 e prelevamenti per euro 1.438.163,86. La C.T.R. dà, altresì atto, che, con il ricorso introduttivo, la società contribuente aveva contestato: la nullità dell’avviso di accertamento per mancata allegazione dell’autorizzazione alle indagini bancarie, nonché la sua carente motivazione; l’illegittimità dell’avviso di accertamento per indebita pretesa dell’Ufficio di inversione dell’onere della prova in ordine ai conti correnti non intestati alla società ricorrente; l’arbitrarietà delle conclusioni raggiunte dall’Ufficio in relazione sia al conto corrente della società, che a quelli intestati ai soci; l’illegittimità dell’accertamento nella parte in cui non deduceva dai maggiori ricavi una ragionevole quota di costi. Ciò posto C.T.R ha ritenuto: infondata l’eccezione di nullità dell’avviso per mancata allegazione degli atti istruttori prodromici, sottolineando che gli stessi erano stati notificati alla parte, la quale in proposito aveva presentato una memoria, allegando, peraltro i P.V.C. al ricorso introduttivo del giudizio, relativo all’anno di imposta 2005; legittime le indagini svolte dalla Guardia di finanza su conti correnti della società e dei soci; legittime le pretese dell’Ufficio in ordine sia ai versamenti su conti correnti che ai prelevamenti, rigettando la pretesa della parte contribuente di estendere alla società a ristretta base sociale in cui l’attività è sostanzialmente svolta dal professionista che ne è socio, gli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014 con cui è stato incostituzionale il disposto dell’art. 32, comma 1 n. 2, secondo periodo d.P.R. 600 del 1973, come modificato dall’art. 1, comma 402, lett. a) n. 1) della l. 311 del 2004, in quanto pronunciata con esclusivo riferimento ai lavoratori autonomi; indeducibili i costi di
manutenzione straordinaria relativi all’immobile condotto in locazione dalla società.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Il Procuratore generale con requisitoria scritta, conclude per il rigetto del ricorso.
Con comparsa di costituzione di nuovo difensore del 17 gennaio 2025, l’avv.to NOME COGNOME chiede rinvio dell’udienza di discussione per consentire al medesimo di meglio approntare la difesa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La soc. C.RAGIONE_SOCIALE. formula sei motivi di ricorso.
Con il primo fa valere, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 42, commi 2 e 3 del d.P.R. 600 del 1973, e 56, comma 5 d.P.R. 633 del 1972, nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, con riguardo alla dedotta nullità dell’avviso di accertamento, per mancata allegazione del P.V.C. del 25 giugno 2009 e per violazione dei termini previsti per l’accertamento. Osserva che, diversamente da quanto affermato dalla C.T.R., il predetto P.V.C. non è stato neppure menzionato nell’avviso di accertamento impugnato, essendo stato depositato in giudizio dall’ente impositore, solo in un secondo momento. Da ciò deriva la nullità dell’avviso di accertamento impugnato, il quale, inoltre, risulta censurabile per lo stesso vizio, anche per l’assenza di motivazione in relazione alle ulteriori indagine compiute dalla Guardia di Finanza. Inoltre, il tempo trascorso fra il primo accertamento di cui al P.V.C. del 17 agosto 2008 ed il secondo accertamento di cui a P.V.C. del 25 giugno 2009 appalesa la violazione dei termini previsti dalla legge per l’accertamento, in
assenza della comunicazione della proroga ed in mancanza di riferimenti all’autorizzazione per espletamento delle ulteriori indagini.
Con il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 T.U.I.R., ratione temporis vigente, quanto ai criteri di determinazione del reddito d’impresa, per non avere la sentenza impugnata sufficientemente argomentato in ordine alla deducibilità dei costi sostenuti per la ristrutturazione dell’immobile condotto in locazione dalla società per l’esercizio dell’impresa e dei costi delle prestazioni dei servizi. Rammenta che i costi sono stati regolarmente contabilizzati e che nel giudizio è rimasto incontestato che i lavori di ristrutturazione furono eseguiti per adattare l’immobile alle esigenze dell’attività svolta dalla società, ciò comportando la loro strumentalità e la loro inerenza all’attività di impresa, con conseguente applicazione del disposto di cui all’art. 75 T.U.I.R. all’epoca vigente.
Con il terzo motivo denuncia, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. 600 del 1973 e dell’art. 51 d.P.R. 633 del 1972, nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c.. Sostiene che la sentenza erra nella parte in cui applica le presunzioni legali in ordine ai prelevamenti bancari, pur dando atto che la C.RAGIONE_SOCIALE è una società a ristretta base sociale, costituita da due soli soci, NOME COGNOME e NOME COGNOME non provvedendo ad estendere gli effetti della sentenza della Corte costituzionale n 228 del 2014 anche a siffatto tipo di società, caratterizzata da un apparato organizzativo marginale e dalla prevalenza dell’attività professionale del socio COGNOME, ancorché la pronuncia relativa ai lavoratori autonomo contenga principi che impongono l’applicazione della medesima disciplina. Sostiene che la
sentenza impugnata ha confuso, sovrapponendole, la legittimità dell’estensione delle indagini bancarie ai conti correnti dei soci della società oggetto di accertamento, con la riferibilità automatica delle risultanze dei conti correnti ad operazioni della società. Rileva che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito come la presunzione di cui all’art. 51, comma 2 nn. 2 e 7 d.P.R. 633 del 1972, non possa trovare applicazione con riguardo ai conti bancari intestati esclusivamente a persone diverse, ancorché legate al contribuente da vincoli familiari o commerciali, salvo che l’Ufficio opponga -e poi provi in sede giudizialeche l’intestazione a terzi è fittizia o, comunque, superata, in relazione alle circostanze del caso concreto, della sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle posizioni creditorie e debitorie annotata sui conti. Rileva, altresì, che analoghe considerazioni debbono svolgersi con riguardo alla presunzione di cui all’art. 32, comma 1 n. 2 d.P.R. 600 del 1973. La C.T.R., invece, si è limitata ad applicare un automatismo, in alcun modo desumibile dalla legge, mentre l’Ufficio non ha offerto la prova, neppure presuntiva, della riferibilità alla società delle operazioni svolte sui conti correnti dei soci.
Con il quarto motivo lamenta, ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., in relazione all’omesso di un fatto deciso e controverso fra le parti, ed in particolare in ordine alla mancata valutazione da parte della C.T.R. dell’assenza della prova circa la riferibilità delle risultanze dei conti correnti dei soci alla società. Richiama la motivazione dell’avviso di accertamento relativo al contraddittorio instauratosi con l’amministrazione e rileva che, a seguito delle verifiche bancarie, estese ai conti dei soci, l’Ufficio aveva imputato alla società versamenti non giustificati per euro 1.590.154,51 3d euro 1.438.163,86 per prelevamenti non giustificati, attribuendo dette somme, sostanzialmente de plano , ad operazioni in nero della società, senza che fosse effettuata
alcuna ulteriore ricerca che conducesse a presumere la riferibilità di tutte le operazioni alla società. Sostiene che la C.T.R. abbia omesso di esaminare fatti emergenti dagli atti di causa e segnatamente: che era pacifico fra le parti che i conti intestati ai soci erano utilizzati sia per le movimentazioni personali, sia per le operazioni inerenti alla partita IVA individuale del socio COGNOME, che per le operazioni societarie; che, quindi, non tutte le operazioni non giustificate potevano essere ricondotte alla società, in assenza prove, anche presuntive, che confermassero la loro riferibilità alla società. Era, al contrario, compito dell’Ufficio scorporare le operazioni societarie compiute sui conti del socio, da quelle afferenti alla sua attività individuale ed all’attività dell’altra socia, sua moglie, mettendo eventualmente in discussione i redditi personali dei soci, senza attribuire, come invece ha fatto, tutte le operazioni ingiustificate alla società, in assenza di corredo probatorio -non offerto neanche in giudizio- ed in modo del tutto automatico.
Con il quinto motivo si duole, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., della violazione e falsa applicazione degli artt. 32 d.P.R. 600 del 1973, 51 d.P.R. 633 del 1972, nonché dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 24, 53 e 111 Cost, oltre che dell’art. 7, comma 2 d.lgs. 546 del 1992. Censura la sentenza impugnata nella parte in cui sostanzialmente considera irrilevante la dimostrata oggettiva impossibilità per la società di produrre la documentazione necessaria ad assolvere l’onere probatorio in ordine alla giustificazione delle operazioni. Ricorda che la società non ha avuto la possibilità di provvedere a fornire la prova contraria pretesa dalla C.T.R., a causa dell’inottemperanza delle banche alle richieste di rilascio della documentazione, tanto da aver dovuto ricorrere al giudice per ottenere le ingiunzioni, rimaste comunque inevase. Sottolinea di avere prodotto in giudizio perizia contabile. Sottolinea che, seppure l’interesse
pubblico del recupero delle imposte evase sia interesse costituzionalmente tutelato, nondimeno esso non può prevalere sul diritto di difesa del contribuente. Peraltro, a fronte dell’impossibilità della società contribuente di ottenere la documentazione dagli istituti di credito il giudice ben avrebbe potuto esercitare i poteri di cui all’art. 7, comma 2 d.lgs. 546 del 1992, ordinando all’amministrazione finanziaria di approfondire le indagini sulla tracciabilità dei versamenti e prelevamenti. L’avere mancato di provvedere in questo senso, peraltro, viola l’art. 111 Cost., non essendo stata garantita la parità fra le parti nel processo.
Con il sesto motivo denuncia, ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, controverso fra le parti, relativamente alla mancata valutazione dell’appartenenza della maggior parte dei conti correnti oggetto di indagine al socio COGNOME e non alla società, con la conseguenza che le movimentazioni su detti conti erano riferibili proprio alle operazioni del medesimo e della moglie cointestataria, non potendo, d’altro canto, la sola considerazione del volume di denaro movimentato costituire prova della riferibilità di quelle movimentazioni alla società, posto che su quei conti erano svolte le operazioni relative all’attività professionale dei soci.
Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
La doglianza, infatti, non si confronta adeguatamente con la motivazione della sentenza, ove legge che: ‘la mancata allegazione degli atti istruttori prodromici all’accertamento non inficia la validità di quest’ultimo ove ne sia riprodotto il contenuto essenziale, tenuto anche conto che i processi verbali, di cui la parte lamenta l’allegazione, sono stati a quest’ultima regolarmente notificati, tant’è che successivamente alla predetta notifica, presentava memorie difensive. I predetti verbali
venivano altresì allegati dalla società medesima al ricorso presentato alla C.T.P. avverso l’avviso di accertamento notificato relativamente all’anno 2005. Anche in relazione alla conoscenza delle prescritte autorizzazioni alle indagini finanziarie i giudici hanno correttamente statuito che le stesse erano state notificate al soggetto interessato al momento dell’inizio della verifica (cfr. foglio n. 2 del p.v.c. del 25.06.2009)’.
La decisione, dunque, dà conto della conoscenza, da parte della società contribuente, del contenuto di entrambi i P.V.C., in quanto notificati alla medesima, così come della conoscenza delle autorizzazioni alle indagini bancarie, sicché le censure con cui ci si limita a negare che il processo verbale del 25 giugno 2009 non sia stato riportato nell’avviso di accertamento o che manchi la motivazione in relazione alle ulteriori indagini svolte, non colgono che la C.T.R. ha ritenuto come la previa notificazione dei P.V.C. su cui l’accertamento si fonda tenga luogo della loro allegazione al relativo avviso. Invero, secondo questa Corte ‘In tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributaria, l’art. 7, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’Amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non trova applicazione per gli atti di cui il contribuente abbia già avuto integrale e legale conoscenza per effetto di precedente comunicazione. (Nella specie, l’avviso di accertamento era stato motivato con riferimento ad un processo verbale di constatazione, precedentemente consegnato in copia previa sottoscrizione). (Sez. 5, Sentenza n. 407 del 14/01/2015). Un diversa interpretazione puramente formalistica, infatti, si porrebbe in contrasto con il criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura che, nell’interesse generale, faccia salva la funzione di garanzia loro propria, limitando al massimo le cause d’invalidità o
d’inammissibilità chiaramente irragionevoli (Sez. 5, Sentenza n. 18073 del 02/07/2008).
Quanto al secondo profilo dedotto con il primo motivo, che, pur non compiutamente svolto, sembra, tuttavia, riguardare l’assenza di un provvedimento di proroga delle indagini, va rilevato che esso non appare essere stato sottoposto al giudice di merito, né in questa sede si fa valere l’omessa pronuncia sul punto, sicché se ne deve dichiarare l’inammissibilità.
Il secondo motivo è anch’esso inammissibile
Nell’affrontare la questione della deducibilità dei costi la C.T.R. non fa espresso riferimento ai costi di ristrutturazione affrontati dalla società contribuente, rilevando, invece, che la pretesa di deduzione dei costi deve essere corredata dalla prova del loro sostenimento. A fronte di siffatta statuizione la società ricorrente formula un motivo di violazione di legge, in relazione al testo dell’art. 75 T.U.I.R. all’epoca vigente, sostenendo, tuttavia, che la decisione ‘non statuisce ed argomenta sulla deducibilità dei costi sostenuti per la ristrutturazione’.
Ora, è pur vero che secondo questa Sezione ‘In tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986, sono deducibili le spese sostenute per la ristrutturazione dell’immobile utilizzato per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale e ad essa strumentale, senza che possa essere considerata ragione ostativa la circostanza che il predetto cespite non sia di proprietà dell’impresa, ma da essa condotto in locazione, e dunque rilevando che i costi per la ristrutturazione siano sostenuti al fine della realizzazione del miglior esercizio dell’attività imprenditoriale e dell’aumento della redditività e risultino dalla documentazione contabile’ (Sez. 6 -5, Ordinanza n. 1788 del 24/01/2017; sul punto anche in precedenza: Sez. 5, Sentenza n. 13327 del 17/06/2011; più di recente: Sez. 5 – , Ordinanza n. 23278 del 27/09/2018, nonché,
sullo stesso principio, in tema rispettivamente di detrazioni e rimborsi IVA: Sez. U – , Sentenza n. 11533 del 11/05/2018; Sez. U – , Sentenza n. 13162 del 14/05/2024)
Ma è anche vero che la società contribuente non dimostra, non riproducendo i motivi di appello, né allegando l’atto al ricorso per cassazione, di avere sottoposto la questione in questi termini alla C.T.R., tanto più che neppure la sentenza di prima cura -riportata integralmente in ricorso- affronta la questione, limitandosi ad affermare che ‘la C.E.D. 90 s.r.l. (…) ha dedotto rimborsi e spese privi della condizione di deducibilità e non inerenti all’attività di impresa esercitata’.
D’altro canto, fra i motivi di impugnazione dell’avviso di accertamento -per come riportati- non si scorge un chiaro riferimento alla deducibilità dei costi di ristrutturazione dell’immobile condotto in locazione, ma solo all’illegittimità dell’atto in quanto non tiene conto ‘di una ragionevole quota di costi’.
In ogni caso, conclusivamente, deve rilevarsi -come correttamente osservato dal Procuratore Generale in sede di requisitoria scritta- che la ricorrente omette di contrastare la sentenza argomentando sulle prove offerte circa l’effettivo sostenimento dei costi, accontentandosi di una difesa in diritto, che presuppone, tuttavia, la dimostrazione di un fatto su cui invece il ricorso trascura.
Il terzo motivo di ricorso non è fondato.
La questione sottoposta all’esame riguarda l’asserita sovrapposizione, da parte del giudice di appello, fra legittimità dell’estensione delle indagini ai conti correnti dei soci e riferibilità delle relative movimentazioni bancarie ad operazioni della società, in assenza di specifica prova sul punto. Si assume, infatti, che la riferibilità delle movimentazioni alla società non possa essere il frutto di un mero automatismo, ma necessiti,
della dimostrazione in giudizio della fittizietà dell’intestazione del conto al socio o della sussistenza di elementi indiziari che autorizzino a ritenere che i conti correnti del socio siano stati utilizzati per occultare operazioni fiscalmente rilevanti e che siffatta prova sarebbe mancata in giudizio.
Ora, diversamente da quanto sostenuto dalla società contribuente, la C.T.R. non confonde affatto i due piani, perché pur non distinguendo con chiarezza in premessa fra legittima estensione dell’indagine ai conti dei soci e prova della riferibilità delle operazioni ivi annotate alla società – in concreto opera una valutazione di sufficienza degli elementi raccolti ad assolvere l’onere probatorio in capo all’amministrazione circa la materiale sussistenza di quella riferibilità. E lo fa facendo riferimento ad un passo dell’accertamento, laddove si precisa che è stato esibito dagli interessati un riepilogo esplicativo, da cui si evince che i conti dei soci vengono ‘utilizzati anche per operazioni legate alle attività d’impresa della società RAGIONE_SOCIALE e della ditta individuale come professionista del sig. COGNOME, ciò comportando l’assenza di una netta separazione tra la sfera privata e quella professionale. D’altro canto, è proprio la società contribuente che riprendendo con il sesto motivo di ricorso la circostanza dell’appartenenza della maggior parte dei conti oggetto di indagine al socio COGNOME, chiarisce che ‘su questi conti correnti -fatto indiscusso- transitavano somme inerenti la società, ma soprattutto facenti capo alle attività individuali del COGNOME e della consorte, nonché alle loro movimentazioni personali’.
E’ , dunque, dalle dichiarazioni della parte in ordine al ricorso ai conti correnti dei soci per la regolazione di affari della società -pagamento degli stipendi, assolvimento di oneri finanziarii di vario genere- che la C.T.R. ricava la riferibilità di quei conti anche alla società. Ed è siffatta non negata ed anzi
ammessa riferibilità che fa ‘scattare’ la presunzione di cui all’art. 32, comma 1 nn. 2 e 7 d.P.R. 600 del 1973, che, quale conseguenza, comporta l’inversione dell’onere probatorio sul contribuente, il quale è tenuto a ‘giustificare i vari movimenti bancari e dimostrare che gli stessi sono estranei al reddito non essendo a lui di fatto riferibili, senza che rilevi, in senso contrario, la regolarità formale della documentazione aziendale’ (Sez. 5, Sentenza n. 33596 del 18/12/2019, in motivazione).
E’ proprio, infatti, quando risulti che parte delle movimentazioni sul conto del socio riguardano operazioni societarie che si legittima la presunzione che le operazioni prive di giustificazione sul quel conto siano da riferirsi alla società, posto che il conto del socio, sostanzialmente in uso alla società, si parifica -in quanto anche ad essa pertiene- al conto della società, rispetto al quale la medesima deve sempre spiegare le operazioni mancanti di contabilizzazione, per non incorrere nella presunzione che qualifica come ricavi i versamenti e prelevamenti non giustificati.
Se, come pretende la ricorrente, l’amministrazione fiscale fosse tenuta a ‘scorporare’ le operazioni prive di giustificazione della società da quelle del socio per imputare a ricavi della società le operazioni ingiustificate sul conto corrente del socio, non si verserebbe più in un’ipotesi di presunzione legale, ma in quella della prova diretta dell’occultamento dei ricavi della società, non richiesta dall’art. 32 cit. che introduce la suddetta presunzione legale con lo scopo di agevolare l’attività accertativa, consentendo, in ogni caso, al contribuente di fornire la prova contraria (ritenuta mancante dalla C.T.R.).
Il quarto motivo ed il sesto motivo di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati.
Ancorché strettamente legati alla doglianza precedente, le censure riguardano il piano fattuale, contestandosi che il giudice di seconda cura abbia, per un verso, omesso l’esame della circostanza -oggetto di contraddittorio- che i conti correnti dei soci erano utilizzati anche dai medesimi, ed in particolare dal socio COGNOME anche per operazioni afferenti alla sua attività di libero professionista, per altro verso, che i conti correnti oggetto di indagine appartenevano per la maggior parte al medesimo socio.
Ora, certamente la sentenza sul punto appare estremamente stringata, posto che si limita a richiamare un orientamento di legittimità secondo il quale l’amministrazione fiscale non è tenuta, una volta dimostrata la pertinenza all’impresa dei rapporti bancari intestati a terzi, a provare che tutte le movimentazioni che risultano da quei conti correnti rispecchino operazioni aziendali, riversandosi l’onere della prova contraria sull’impresa. Ma è parimenti vero che la prova contraria non può consistere nella sola dimostrazione che su quel conto corrente del terzo -tanto più se socio- agiscono sia società, che terzo, perché altrimenti la presunzione avrebbe ingresso solo per il caso di intestazione fittizia del conto.
Allora, avuto riguardo al fatto che la presunzione non può che estendersi al di là del caso in cui su un conto non intestato all’impresa agisca solo l’impresa, non essendoci in questo caso reale commistione, ma appunto fittizietà dell’intestazione, occorre chiedersi in che cosa debba consistere la prova in capo all’amministrazione fiscale nell’ipotesi di ‘accertato’ utilizzo promiscuo di quel conto.
Non si tratta, si badi, delle ipotesi, pur esaminate da questa Corte, in cui siano oggetto di indagine conti di terzi che pertengono a soggetti con situazioni reddituali compatibili con le risultanze dei conti, su cui, tuttavia, non vi è la prova che la
società abbia direttamente operato (per tutte: Sez. 5 – , Ordinanza n. 34747 del 12/12/2023), ma del caso in cui sul conto del terzo, ancorché con situazione reddituale compatibile, sia accertato che abbia operato anche la società. Ed invero, proprio in queste situazioni -ovvero di accertata disponibilità del conto del terzo da parte dell’impresa -si è affermato che ‘diviene operante la presunzione legale stabilita dall’art.32 comma primo n.2) d.P.R. 29 settembre 1973 n.600 secondo cui “gli importi riscossi” (versamenti), rilevati sui conti intestati o riconducibili di fatto al contribuente, devono essere considerati “compensi” provento dell’attività di lavoro autonomo svolta dall’interessato, con spostamento dell’onere probatorio sul contribuente al quale spetta fornire la prova contraria alla presunzione, dimostrando che si tratta di somme comprese nella determinazione del reddito o che non hanno rilevanza reddituale. In altri termini, in caso di conti bancari di cui sia formalmente titolare il contribuente accertato la presunzione che gli “importi riscossi” siano compensi è immediatamente applicabile; nel caso di conti intestati a terzi, l’Ufficio, al fine di avvalersi della presunzione legale in oggetto, deve fornire la previa prova, anche per presunzioni (purché qualificate), che il conto bancario intestato a terzi sia nelle effettiva disponibilità del contribuente, al quale pertanto sono attribuibili le movimentazioni del conto fiscalmente rilevanti’ (così Sez. 5, Ordinanza n. 32974 del 15/11/2018, non massimata).
Si torna, dunque, a quanto si è dianzi detto, ovverosia che il ricorso della società ad un conto corrente altrui assimila quel conto ad un conto della società, nel senso che detto conto intestato a terzi pertiene anche alla società, che ne fa uso, agendo su di esso liberamente. Con la conseguenza che delle movimentazioni su quel conto la società deve dare giustificazione.
Ecco che, quindi, del tutto coerente con si dimostra la sentenza che rimette all’assenza della prova contraria offerta dalla società contribuente il rigetto del motivo, opportunamente osservando, peraltro, che l’avviso di accertamento non assoggetta a tassazione l’intero importo delle operazioni non giustificate, ma solo una frazione -pur molto rilevante- di esse, ciò dimostrando di avere l’amministrazione comunque effettuato una selezione.
Il quinto motivo non è fondato.
La ricorrente lamenta che la C.T.R., violando le norme costituzionali sul giusto processo (art. 111 Cost.) e sul diritto di difesa (art. 24 Cost.), abbia posto a carico della società le conseguenze dell’inerzia delle banche, le quali richieste, anche con ingiunzione giudiziale, di fornire la documentazione attestante il contenuto delle operazioni bancarie non giustificate, non vi avevano provveduto, senza esercitare né la facoltà di ordinare l’esibizione di quella documentazione, né quella di richiedere, ex art. 7, comma 2 d.lgs. 546 del 1992, all’Ufficio un approfondimento delle indagini in ordine alla tracciabilità delle operazioni oggetto di recupero.
La questione è stata oggetto, quanto al primo profilo, di una recente pronuncia di questa Sezione, secondo la quale: ‘La discrezionalità del potere officioso del giudice di ordinare alla parte o ad un terzo, ai sensi degli artt. 210 e 421 c.p.c., l’esibizione di un documento sufficientemente individuato, non potendo egli sopperire all’inerzia delle parti nel dedurre i mezzi istruttori, rimane subordinata alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118 e 210 c.p.c., nonché all’art. 94 disp. att. c.p.c., ed è ricollegata alla necessità dell’acquisizione del documento ai fini della prova di un fatto, senza che possa ordinarsi d’ufficio l’esibizione di documenti, di una parte o di un terzo, di cui l’interessato è in grado, di propria iniziativa, di
acquisire una copia e di produrla in causa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha rigettato il ricorso con cui il contribuente lamentava la mancata adozione dell’ordine di esibizione della documentazione bancaria e fiscale detenuta dall’Agenzia delle Entrate, benché la relativa acquisizione in sede stragiudiziale, ai fini della successiva produzione in giudizio, gli fosse estremamente agevole, sia mediante richiesta nei confronti delle banche interessate, sia mediante l’esercizio del diritto di accesso agli atti di cui all’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990). (Sez. 5, Ordinanza n. 38062 del 02/12/2021).
La sentenza impugnata sembra, per la verità, contraddire siffatto principio, allorquando sostiene che ‘nessun rilievo possono assumere le asserite difficoltà della società contribuente di acquisire dagli istituti di credito più dettagliate informazioni in modo da poter efficacemente dimostrare la non riferibilità all’attività societaria delle singole operazioni risultanti dai conti correnti’.
Invero, è proprio la difficoltà insorta per l’atteggiamento ostativo del soggetto che detiene la documentazione a legittimare l’ordine di esibizione.
Né valgono ad escludere la necessità di provvedervi le considerazioni svolte dalla sentenza in ordine al superiore interesse pubblicistico che sottostà all’obbligazione tributaria, compensabile, secondo la C.T.R., con un’azione risarcitoria nei confronti degli istituti di credito che rifiutano la collaborazione con il contribuente, non rilasciando le informazioni richieste.
Come correttamente fatto valere dalla ricorrente, infatti, vi sono principi costituzionale, quali quelli consacrati negli artt. 24 e 53 Cost., che non possono deflettere rispetto al diritto dell’amministrazione fiscale di procedere comunque alla riscossione, senza che sia assicurata al contribuente la
possibilità di difendersi in giudizio, dimostrando che la pretesa fatta valere non è dovuta.
E, nondimeno, la successiva affermazione della sentenza che, pur escludendo che le ‘difficoltà non possono essere dimostrate solo sulla base delle ingiunzioni del Tribunale di Velletri prodotte dalla società’, poi afferma che ‘non sono documentati gli esiti della procedura esecutiva conseguente a tali provvedimenti giurisdizionali’. Ciò basta per escludere l’illegittimità dell’assenza di un provvedimento di esibizione, posto che manca, effettivamente, la prova che la società contribuente non fosse in grado, se non attraverso un ordine ex art. 210 c.p.c. di fornire la prova delle proprie allegazioni.
24. Motivazioni analoghe sorreggono la mancanza di un provvedimento ex art. 7 comma 2 d.lgs. 546 del 1992. Anche a questo proposito, invero, va ricordato che il potere del giudice di richiedere relazioni agli organi tecnici dell’amministrazione o alla Guardia di finanza, è una facoltà per il cui esercizio sono previsti presupposti non dissimili da quelli che autorizzano il ricorso all’ordine di esibizione al terzo, così come chiarito da questa Sezione, che ha precisato come ‘Nel processo tributario, l’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto norma eccezionale attributiva di ampi poteri istruttori officiosi alle Commissioni Tributarie, tra i quali la facoltà di ordinare il deposito di documenti necessari ai fini della decisione, trova applicazione solo quando l’assolvimento dell’onere della prova a carico del contribuente sia impossibile o sommamente difficile, situazione che è integrata qualora la parte alleghi e dimostri la specifica situazione di fatto che, nel caso concreto, abbia reso impossibile o sommamente difficile l’assolvimento dell’onere della prova, essendo insufficiente la mera affermazione dell’esistenza del presupposto, priva dell’allegazione relativa all’avvenuta sollecitazione del giudice del merito all’esercizio del predetto
potere. (Sez. 5 – , Ordinanza n. 27827 del 31/10/2018; Sez. 5, Sentenza n. 4589 del 26/02/2009).
Al rigetto del ricorso consegue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese di lite di questo giudizio di legittimità, da liquidarsi in euro 10.000,00 oltre spese prenotate a debito.
Sussistono, ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite di questo giudizio di legittimità, da liquidarsi in euro 10.000,00 oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2025