Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 10381 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 10381 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/04/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 28738/2015 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
E
sul controricorso incidentale proposto da
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende -ricorrente incidentale-
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende
-controricorrente- avverso la SENTENZA della C.T.R. del Lazio n. 2620/2015 depositata il 08/05/2015.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Procuratore generale, che conclude per l’accoglimento del ricorso principale e per l’accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale
Udito l’Avvocato dello Stato per l’Agenzia delle Entrate che conclude come in atti.
Udito il difensore della RAGIONE_SOCIALE che conclude come in atti
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate impugna -formulando un unico motivo di ricorso- la sentenza della C.T.R. del Lazio, con cui è stato parzialmente accolto l’appello dalla medesima proposto
avverso la sentenza della C.T.P. di Roma, di parziale accoglimento del ricorso formulato dalla C.E.D. 90 s.r.l. per l’annullamento dell’avviso di accertamento con il quale erano accertati, ai fini IRES ed IVA, a mezzo di indagini bancarie, maggiori ricavi non dichiarati e costi indeducibili, per l’anno di imposta 2007.
La C.T.R. premette che l’atto impositivo ha preso le mosse da due processi verbali di constatazione, con i quali era stata accertata l’irregolare tenuta della contabilità per omessa dichiarazione di ricavi per euro 62.291,00 e per indebita deduzione di costi ritenuti non inerenti, pari ad euro 20.219,00. All’esito delle indagini bancarie svolte della G.d.f. sul conto corrente della società e dei soci, nel contraddittorio con le parti, l’Agenzia delle entrate riteneva non giustificati versamenti per euro 1.256.123,75 e prelevamenti per euro 1.056.357,13, accertando maggiori ricavi per euro 2.374.772,00. La C.T.R. dà, altresì, atto che la sentenza di primo grado aveva annullato parzialmente l’avviso di accertamento, ritenendolo fondato esclusivamente in ordine all’omessa dichiarazione dei ricavi per euro 62.291,00. Ciò posto, la C.T.R., in accoglimento parziale dell’appello dell’Ufficio, ritiene: indeducibili i costi di manutenzione straordinaria relativi all’immobile condotto in locazione dalla società; legittime le indagini svolte dalla Guardia di finanza su conti correnti della società e dei soci; legittima la pretesa dell’Ufficio in ordine ai versamenti su conti correnti bancari ed illegittima la medesima pretesa con riferimento ai prelevamenti, sulla base dell’interpretazione della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014 con cui è stato incostituzionale il disposto dell’art. 32, comma 1 n. 2, secondo periodo d.P.R. 600 del 1973, come modificato dall’art. 1, comma 402, lett. a) n. 1) della l. 311 del 2004, limitatamente alle parole ‘o compensi’. La C.T.R. afferma, altresì, che, così
come per i lavoratori autonomi, cui la pronuncia si riferisce, anche per le società di servizi a ristretta base sociale, in cui l’attività è sostanzialmente svolta dal professionista che ne è socio, debba ragionevolmente valere il principio secondo il quale è arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari siano destinati ad un investimento nell’ambito dell’attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito. Su queste basi, la C.T.R. dichiara legittimo l’avviso di accertamento, oltre che in relazione all’omessa dichiarazione dei ricavi per euro 62.291,00, anche in relazione alla ripresa a tassazione di euro 4.279,00 di costi non deducibili ed alla determinazione di maggiori ricavi per euro 1.256.123,75, a titolo di versamenti non giustificati.
La soc. RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso, e formula ricorso incidentale, affidato a cinque motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste al ricorso incidentale con controricorso.
Il Procuratore generale con requisitoria scritta, depositata per l’udienza del 22 febbraio 2023, ha concluso per l’accoglimento del motivo di ricorso principale e del primo motivo di ricorso incidentale.
Con ordinanza interlocutoria in data 22 febbraio 2023 la Corte ha disposto la sospensione del processo sino al 10 luglio 2023, rinviando a nuovo ruolo, per consentire alla società contribuente di avvalersi della definizione agevolata di cui alla l. 197 del 2022.
Con memoria del 27 giugno 2024 l’Agenzia delle Entrate ha formulato istanza per la fissazione dell’udienza di decisione, in assenza di presentazione di domande di definizione agevolata della controversia.
Il Procuratore generale con memoria ex art. 378 c.p.c. ribadisce le conclusioni formulate.
Con memoria in data 9 gennaio 2025 la soc. RAGIONE_SOCIALE ribadisce le conclusioni formulate con il controricorso e con il ricorso incidentale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
L’Agenzia delle entrate formula un unico motivo di ricorso, con il quale deduce, ex art. 360, comma n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 32, comma 2 n. 1 del d.P.R. 600 del 1973. Osserva che la C.T.R., asserendo di interpretare sistematicamente la disposizione, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 228/2015, che ne ha dichiarato l’illegittimità in parte qua, ha finito per disapplicare la norma. Invero il giudice delle leggi, nel dichiarare l’illegittimità dell’art. 32, comma 1 n. 2, secondo periodo, limitatamente alle parole ‘o compensi’ ha inteso escludere l’operatività della presunzione legale di maggiori ricavi relativa ai prelevamenti ingiustificati, unicamente per i lavoratori autonomi, essa restando, invece, ferma per gli imprenditori e le società, ivi comprese le società di servizi, che ben possono acquistare servizi in nero e acquisire in nero ricavi. Osserva che nulla autorizza l’equiparazione fra lavoratori autonomi e società di servizi, né è possibile disapplicare la disposizione, potendo il giudice, al più, rimettere la questione alla Corte costituzionale. Rileva che l’Ufficio con l’avviso di accertamento si è attenuto a canoni di ragionevolezza, come raccomandato con la circolare n. 25/E del 6 agosto 2014, prendendo in considerazione prelievi per lo più superiori ad euro 1000,00, e comunque non inferiori a euro 5000,00.
La soc. C.RAGIONE_SOCIALE formula cinque motivi di ricorso incidentale.
Con il primo fa valere, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 T.U.I.R., ratione temporis vigente. Assume che la sentenza erra laddove nega la deducibilità dei costi sostenuti dalla società per la ristrutturazione dell’immobile dalla stessa condotto in locazione per l’esercizio dell’attività di impresa. Richiama la giurisprudenza di legittimità sul punto ed afferma che nel giudizio è rimasto incontestato che i lavori di ristrutturazione furono eseguiti per adattare l’immobile alle esigenze dell’attività svolta dalla società, ciò comportando la loro strumentalità e la loro inerenza all’attività di impresa.
Con il secondo motivo denuncia, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. 600 del 1973 e dell’art. 51 d.P.R. 633 del 1972, nonché degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c.. Sostiene che la sentenza impugnata abbia confuso, sovrapponendole, la legittimità dell’estensione delle indagini bancarie ai conti correnti dei soci della società oggetto di accertamento, con la riferibilità automatica delle risultanze dei conti correnti ad operazioni della società. Sottolinea che il primo giudice aveva chiaramente distinto i piani, ritenendo legittime le prime e non provata la seconda. Rileva che la giurisprudenza di legittimità ha chiarito come la presunzione di cui all’art. 32, comma 2 d.P.R. 600 del 1973, non possa trovare applicazione con riguardo ai conti bancari intestati esclusivamente a persone diverse, ancorché legate al contribuente da vincoli familiari o commerciali, salvo che l’Ufficio opponga -e poi provi in sede giudizialeche l’intestazione a terzi è fittizia o, comunque, superata in relazione alle circostanze del caso concreto, della sostanziale imputabilità al contribuente medesimo delle posizioni creditorie e debitorie annotata sui conti. Sostiene che, nel caso di specie, siffatta prova sia del tutto mancata in giudizio.
5. Con il terzo motivo lamenta, ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., in relazione all’omesso esame di un fatto decisivo e controverso fra le parti, ed in particolare in ordine alla mancata valutazione da parte della C.T.R. dell’assenza della prova circa la riferibilità delle risultanze dei conti correnti dei soci alla società. Riporta lo stralcio dell’avviso di accertamento relativo al contraddittorio instauratosi con l’amministrazione e rileva che, a seguito delle verifiche bancarie, estese ai conti dei soci, l’Ufficio aveva imputato alla società versamenti non giustificati per euro 1.256.123,75 ed euro 1.056.347,13 per prelevamenti non giustificati, attribuendo, sostanzialmente de plano , ad operazioni in nero della società la quasi totalità dei versamenti non giustificati (euro 1.441.940,30) e dei prelevamenti non giustificati (euro 1.442.892,48) rilevabili dai conti verificati. Sostiene che la C.T.R. abbia omesso di esaminare fatti emergenti dagli atti di causa e segnatamente: che era pacifico fra le parti che i conti intestati ai soci erano utilizzati sia per le movimentazioni personali, sia per le operazioni inerenti alla partita IVA individuale del socio COGNOME, che per le operazioni societarie; che, quindi, non tutte le operazioni non giustificate potevano essere ricondotte alla società, in assenza prove, anche presuntive, che confermassero la loro riferibilità alla società. Osserva che dall’avviso di accertamento si trae che i conti intestati alla società -da cui risultano operazioni non giustificatesono solo tre, mentre ben più numerosi sono i conti riferiti al socio COGNOME. Era, quindi, compito dell’Ufficio scorporare le operazioni societarie compiute sui conti del socio, da quelle afferenti alla sua attività individuale ed all’attività dell’altra socia, sua moglie, mettendo eventualmente in discussione i redditi personali dei soci, senza attribuire, come invece ha fatto, tutte le operazioni ingiustificate alla società, in assenza di
corredo probatorio -non offerto neanche in giudizio- ed in modo del tutto automatico.
Con il quarto motivo si duole, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., della violazione e falsa applicazione degli artt. 32 d.P.R. 600 del 1973, 51 d.P.R. 633 del 1972, nonché dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 24, 53 e 111 Cost, oltre che dell’art. 7, comma 2 d.lgs. 546 del 1992. Censura la sentenza impugnata nella parte in cui considera irrilevante la dimostrata oggettiva impossibilità per la società di produrre la documentazione necessaria ad assolvere l’onere probatorio in ordine alla giustificazione delle operazioni. Ricorda che la società ha dimostrato l’impossibilità di provvedere, a causa dell’inottemperanza delle banche alle richieste di rilascio della documentazione, tanto che la medesima aveva dovuto ricorrere al giudice per ottenere le ingiunzioni, rimaste comunque inevase. Sottolinea che, a fronte di ciò, la C.T.R. si è limitata ad affermare che l’inerzia delle banche non può pregiudicare il più alto interesse pubblico del recupero delle imposte evase e che, in assenza di adempimento da parte degli istituti di credito, la società contribuente avrebbe sempre avuto la possibilità di esperire azioni risarcitorie. Al contrario, avrebbe dovuto considerare che siffatto interesse non può prevalere sugli altri principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 53 della Costituzione. Peraltro, diversamente da quanto sostenuto, il giudice ben avrebbe potuto esercitare i poteri di cui all’art. 7, comma 2 d.lgs. 546 del 1992, ordinando all’amministrazione finanziaria di approfondire le indagini sulla tracciabilità dei versamenti e prelevamenti. L’avere mancato di provvedere in questo senso, peraltro, viola l’art. 111 Cost., non essendo stata garantita la parità fra le parti nel processo.
Con il quinto motivo denuncia, ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, controverso fra le parti, relativamente alla mancata valutazione
dell’appartenenza della maggior parte dei conti correnti oggetto di indagine al socio COGNOME e non alla società, con la conseguenza che le movimentazioni su detti conti erano riferibili proprio alle operazioni del medesimo e della moglie, non potendo, d’altro canto, la sola considerazione del volume di denaro movimentato costituire prova della riferibilità di quelle movimentazioni alla società, posto che su quei conti erano svolte le operazioni relative all’attività professionale dei soci.
Il motivo formulato dalla ricorrente principale è fondato.
Va, preliminarmente, sottolineato che l’assunto cui perviene la sentenza impugnata, secondo il quale la ratio della pronuncia della Corte costituzionale n. 228 del 2014 -fondandosi sul criterio per cui è ragionevole escludere per i lavoratori autonomi la presunzione legale per la quale i prelievi ingiustificati dai conti correnti sono da imputare a maggior reddito- consente di estendere i medesimi effetti alle società di servizi a ristretta base familiare, depotenziando quella presunzione sulla base della prevalenza dell’attività professionale del socio, è frutto di un rilievo officioso.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 228 del 2014, affrontando la questione della legittimità costituzionale della presunzione legale di maggior reddito, di cui all’art. 32, comma 1 n. 2 del d.P.R. 600 del 1973, desumibile oltre che dai versamenti, anche dai prelevamenti ingiustificati dai conti correnti, ne ha escluso la ragionevolezza, alla luce dei parametri costituzionali, limitatamente alla categoria dei lavoratori autonomi. Pur riconoscendo, per certi versi, l’affinità fra imprenditore e lavoratore autonomo, la Corte delle leggi, ha ritenuto ‘ arbitraria’ l’equiparazione fra le due figure, operata dalla norma in questione, sotto il profilo dell’omogeneità di trattamento in ordine al significato del prelevamento dal conto
bancario, come indice di ‘costo a sua volta produttivo di ricavo’. Se siffatto meccanismo è stato ritenuto ‘congruente’ (la sentenza richiama il precedente della Corte cost. n. 225 del 2005) con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, che ‘è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi’, cosicché il prelevamento ingiustificato è sintomatico di un ricavo non contabilizzato, non può parimenti esserlo per l’attività del lavoratore autonomo. L’attività di quest’ultimo, infatti, ‘si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e per la marginalità dell’apparato organizzativo’, nonché per la caratteristica semplificata’ della contabilità di cui generalmente e legittimamente si avvale la categoria, ‘assetto contabile da cui deriva la promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali’.
Interpretando i principi enunciati dalla Corte costituzionale la C.T.R. ritiene che ove l’attività della società di servizi, a ristretta base sociale e familiare, sia sostanzialmente riconducibile a quella del socio professionista, siano integrati i medesimi presupposti che il giudice delle leggi considera per i lavoratori autonomi, ciò autorizzando – sulla base di quella che afferma essere una ricostruzione sistematicail depotenziamento della valenza presuntiva dei prelevamenti bancari anche in siffatte ipotesi.
Ora, il ragionamento della sentenza impugnata non può essere condiviso. Una questione, se non sovrapponibile, certamente analoga a quella in discussione, è stata recentemente decisa da questa Corte che, esaminando la tenuta della presunzione in esame in relazione alla figura dell’imprenditore individuale ha ritenuto che ‘In tema di determinazione del reddito di impresa, è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale relativa alla
presunzione di imputazione a ricavi delle movimentazioni bancarie di cui all’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 all’imprenditore individuale, in quanto essa trova giustificazione nella produzione del reddito di impresa ex art. 55 T.U.I.R. da parte di un soggetto, come definito dall’art. 2195 c.c., esercente impresa commerciale (anche di carattere ausiliario) caratterizzata, a prescindere dalla sussistenza di un’autonoma organizzazione, dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi, rispetto al quale non è manifestamente arbitrario ipotizzare che i versamenti e i prelievi ingiustificati dai conti correnti bancari siano stati destinati all’esercizio di detta attività di impresa e siano detratti i costi, considerati in termini di reddito imponibile’ (Sez. 5 – , Sentenza n. 28580 del 18/10/2021). La Suprema Corte ha, invero, escluso che l’attività d’impresa caratterizzata dalla preminenza dell’apporto del lavoro personale, dall’assunzione personale del rischio di impresa, da una contabilità estremamente semplificata nonché dalla marginalità dell’apparato organizzativo al pari del lavoratore autonomo, sia significativa ai fini dell’esclusione della ragionevolezza della presunzione di cui all’art. 32, comma 1 n. 2 cit., ricordando che ‘ ciò che costituisce la base dell’applicazione della presunzione di cui all’art. 32 cit. nei confronti dell’imprenditore, sia pure individuale, è la qualificazione del reddito prodotto come di impresa ai sensi dell’art. 55 del Testo unico 22/12/1986 n. 917 secondo cui “sono redditi d’impresa quelli che derivano dall’esercizio di imprese commerciali. Per esercizio di imprese commerciali si intende l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell’art. 2195 c.c., e delle attività indicate alle lettere b) e c) del comma 2 dell’art. 32 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in forma d’impresa (…) Pertanto, quello che giustifica l’applicazione della presunzione di ricavi di
cui all’art. 32 cit., in capo all’imprenditore, sia pure individuale, come definito dall’art. 2195 c.c., è la produzione del reddito di impresa, in quanto esercente impresa commerciale (anche di carattere ausiliario), a prescindere dalla sussistenza di una autonoma organizzazione (sulla irrilevanza, ai fini del TUIR, del requisito organizzativo, cfr., da ult., Cass. n. 31643 de; 2019). Da qui la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale come prospettata’.
E’ proprio, dunque, la qualificazione soggettiva di imprenditore commerciale del contribuente che è posta alla base della presunzione legale di imputazione a ricavi delle movimentazioni bancarie, perché quello che la connota non è la complessità dell’organizzazione, ma la ‘necessità di continui investimenti in beni e servizi’, per la realizzazione dello scopo tipico dell’impresa commerciale, che è la realizzazione di ricavi (come ribadito proprio dalla Corte costituzionale con la sentenza n 228 del 2014, cfr. supra ).
Manca, dunque, il presupposto giuridico per escludere l’operatività della presunzione nell’ipotesi di società di servizi che si avvalga preminentemente dell’attività professionale del socio.
Diversamente da quanto ritenuto con il controricorso, poi, la conclusione della C.T.R. non coincide affatto con un accertamento di fatto -insindacabile in sede di legittimitàriguardante le caratteristiche della società, caratterizzata dalla marginalità dell’organizzazione e della preminenza del lavoro proprio del socio (fatti sulla cui prova certamente questa Corte non può estendere il suo vaglio), posto che la decisione si fonda sul presupposto dell’assimilazione giuridica fra la figura del lavoratore autonomo e quella di quel tipo di società.
Il primo motivo di ricorso incidentale è anch’esso fondato.
La doglianza formulata attiene alla legittimità della deduzione -negata dalla C.T.R.- delle spese di manutenzione straordinaria sostenute dalla società contribuente per l’immobile condotto in locazione per l’esercizio dell’attività di impresa, avuto riguardo alla disciplina di cui all’art. 75 T.U.I.R. ratione temporis applicabile.
Sul punto è intervenuta questa Sezione, secondo la quale ‘In tema di imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986, sono deducibili le spese sostenute per la ristrutturazione dell’immobile utilizzato per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale e ad essa strumentale, senza che possa essere considerata ragione ostativa la circostanza che il predetto cespite non sia di proprietà dell’impresa, ma da essa condotto in locazione, e dunque rilevando che i costi per la ristrutturazione siano sostenuti al fine della realizzazione del miglior esercizio dell’attività imprenditoriale e dell’aumento della redditività e risultino dalla documentazione contabile. (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 1788 del 24/01/2017; sul punto anche in precedenza: Sez. 5, Sentenza n. 13327 del 17/06/2011; più di recente: Sez. 5 – , Ordinanza n. 23278 del 27/09/2018, nonché, sullo stesso principio, in tema rispettivamente di detrazioni e rimborsi IVA: Sez. U – , Sentenza n. 11533 del 11/05/2018; Sez. U – , Sentenza n. 13162 del 14/05/2024). L’orientamento richiamato in sentenza (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 6936 del 25/03/2011) può dirsi sostanzialmente superato.
Il secondo motivo di ricorso incidentale non è fondato
La questione sottoposta all’esame riguarda l’asserita sovrapposizione, da parte del giudice di appello, fra legittimità dell’estensione delle indagini ai conti correnti dei soci e riferibilità delle relative movimentazioni bancarie ad operazioni della società, in assenza di specifica prova sul punto. Si assume,
infatti, che la riferibilità delle movimentazioni alla società non possa essere il frutto di un mero automatismo, ma necessiti, della dimostrazione in giudizio della fittizietà dell’intestazione del conto al socio o della sussistenza di elementi indiziari che autorizzino a ritenere che i conti correnti del socio siano stati utilizzati per occultare operazioni fiscalmente rilevanti e che siffatta prova sarebbe mancata in giudizio.
21. Ora, diversamente da quanto sostenuto dalla società contribuente, la C.T.R. non confonde affatto i due piani, perché pur non distinguendo con chiarezza in premessa fra legittima estensione dell’indagine ai conti dei soci e prova della riferibilità delle operazioni ivi annotate alla società – in concreto opera una valutazione di sufficienza degli elementi raccolti ad assolvere l’onere probatorio, posto in capo all’amministrazione, circa la materiale sussistenza di quella riferibilità. E lo fa richiamando un passo dell’accertamento, laddove si precisa che, in sede di contraddittorio, è stato esibito dagli interessati un riepilogo esplicativo, da cui si evince che i conti dei soci vengono ‘utilizzati anche per operazioni legate alle attività d’impresa della società RAGIONE_SOCIALE e della ditta individuale del sig. COGNOME, ciò comportando l’assenza di ‘una netta separazione tra la sfera privata e quella professionale’, tanto è vero che la parte ha dichiarato ‘che i conti personali sono stati utilizzati per il pagamento degli stipendi del personale sia della società RAGIONE_SOCIALE che della ditta individuale del sig. COGNOME, per il pagamento dei fornitori della società e della ditta individuale, per gli acquisti e le ristrutturazioni degli immobili acquistati sia dalla società, che dal professionista e per la restituzione di finanziamenti e mutui privati e societari’. D’altro canto, è proprio la società contribuente, con il quinto motivo di ricorso incidentale, che, riprendendo la circostanza dell’appartenenza della maggior parte dei conti oggetto di indagine al socio COGNOME
COGNOME, chiarisce che ‘su questi conti correnti -fatto indiscussotransitavano somme inerenti la società, ma soprattutto facenti capo alle attività individuali del COGNOME e della consorte, nonché alle loro movimentazioni personali’.
E’, dunque, dalle dichiarazioni della parte in ordine al ricorso ai conti correnti dei soci per la regolazione di affari della società -pagamento degli stipendi, assolvimento di oneri finanziarii di vario genere- che la C.T.R. ricava la riferibilità di quei conti anche alla società. Ed è siffatta non negata ed anzi ammessa riferibilità che fa ‘scattare’ la presunzione di cui all’art. 32, comma 1 nn. 2 e 7 d.P.R. 600 del 1973, il che comporta l’inversione dell’onere probatorio sul contribuente, il quale è tenuto a ‘giustificare i vari movimenti bancari e dimostrare che gli stessi sono estranei al reddito non essendo a lui di fatto riferibili, senza che rilevi, in senso contrario, la regolarità formale della documentazione aziendale’ (Sez. 5 – , Sentenza n. 33596 del 18/12/2019, in motivazione).
E’ proprio, infatti, quando risulti che parte delle movimentazioni sul conto del socio riguardano operazioni societarie che si legittima la presunzione che le operazioni prive di giustificazione sul quel conto siano da riferirsi alla società, posto che il conto del socio, sostanzialmente in uso alla società, si parifica -in quanto anche ad essa pertiene- al conto della società, rispetto al quale la medesima deve sempre spiegare le operazioni mancanti di contabilizzazione, per non incorrere nella presunzione che qualifica come ricavi i versamenti e prelevamenti non giustificati.
Se, come pretende la ricorrente incidentale, l’amministrazione fiscale fosse tenuta a ‘scorporare’ le operazioni prive di giustificazione della società da quelle del socio per imputare a ricavi della società le operazioni ingiustificate sul conto corrente del socio, non si verserebbe più in un’ipotesi di
presunzione legale, ma in quella della prova diretta dell’occultamento dei ricavi della società, non richiesta dall’art. 32 cit. che introduce la suddetta presunzione legale con lo scopo di agevolare l’attività accertativa, consentendo, in ogni caso, al contribuente di fornire la prova contraria (ritenuta mancante dalla C.T.R.).
Il terzo motivo ed il quinto motivo di ricorso incidentale, che possono essere trattati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono infondati.
Ancorché strettamente legati alla doglianza precedente, le censure riguardano il piano fattuale, contestandosi che il giudice di seconda cura abbia, per un verso, omesso l’esame della circostanza -oggetto di contraddittorio- che i conti correnti dei soci erano utilizzati anche dai medesimi, ed in particolare dal socio COGNOME anche per operazioni afferenti alla sua attività di libero professionista, per altro verso, che i conti correnti oggetto di indagine appartenevano per la maggior parte al medesimo socio.
Ora, certamente la sentenza sul punto appare estremamente stringata, posto che si limita a richiamare un orientamento di legittimità secondo il quale l’amministrazione fiscale non è tenuta, una volta dimostrata la pertinenza all’impresa dei rapporti bancari intestati a terzi, a provare che tutte le movimentazioni che risultano da quei conti correnti rispecchino operazioni aziendali, riversandosi l’onere della prova contraria sull’impresa. Ma è parimenti vero che la prova contraria non può consistere nella sola dimostrazione che su quel conto corrente del terzo -tanto più se socio- agiscono sia società, che terzo, perché altrimenti la presunzione avrebbe ingresso solo per il caso di intestazione fittizia del conto.
Allora, avuto riguardo al fatto che la presunzione non può che estendersi al di là del caso in cui su un conto non intestato
all’impresa agisca solo l’impresa, non essendoci in questo caso reale commistione, ma appunto fittizietà dell’intestazione, occorre chiedersi in che cosa debba consistere la prova in capo all’amministrazione fiscale nell’ipotesi di ‘accertato’ utilizzo promiscuo di quel conto.
Non si tratta, si badi, delle ipotesi, pur esaminate da questa Corte, in cui siano oggetto di indagine conti di terzi che pertengono a soggetti con situazioni reddituali compatibili con le risultanze dei conti, su cui, tuttavia, non vi è la prova che la società abbia direttamente operato (per tutte: Sez. 5 – , Ordinanza n. 34747 del 12/12/2023), ma del caso in cui sul conto del terzo, ancorché con situazione reddituale compatibile, sia accertato che abbia operato anche la società. Ed invero, proprio in queste situazioni -ovvero di accertata disponibilità del conto del terzo da parte dell’impresa -si è affermato che ‘diviene operante la presunzione legale stabilita dall’art. 32 comma primo n.2) d.P.R. 29 settembre 1973 n.600 secondo cui “gli importi riscossi” (versamenti), rilevati sui conti intestati o riconducibili di fatto al contribuente, devono essere considerati “compensi” provento dell’attività di lavoro autonomo svolta dall’interessato, con spostamento dell’onere probatorio sul contribuente al quale spetta fornire la prova contraria alla presunzione, dimostrando che si tratta di somme comprese nella determinazione del reddito o che non hanno rilevanza reddituale. In altri termini, in caso di conti bancari di cui sia formalmente titolare il contribuente accertato la presunzione che gli “importi riscossi” siano compensi è immediatamente applicabile; nel caso di conti intestati a terzi, l’Ufficio, al fine di avvalersi della presunzione legale in oggetto, deve fornire la previa prova, anche per presunzioni (purché qualificate), che il conto bancario intestato a terzi sia nelle effettiva disponibilità del contribuente, al quale pertanto sono attribuibili le movimentazioni del conto
fiscalmente rilevanti’ (così Sez. 5, Ordinanza n. 32974 del 15/11/2018, non massimata).
Si torna, dunque, a quanto si è dianzi detto, ovverosia che il ricorso della società ad un conto corrente altrui assimila quel conto ad un conto della società, nel senso che detto conto intestato a terzi pertiene anche alla società, che ne fa uso, agendo su di esso liberamente. Con la conseguenza che delle movimentazioni su quel conto la società deve dare giustificazione.
Ecco che, quindi, del tutto coerente con si dimostra la sentenza che rimette all’assenza della prova contraria offerta dalla società contribuente il rigetto del motivo, opportunamente osservando, peraltro, che l’avviso di accertamento non assoggetta a tassazione l’intero importo delle operazioni non giustificate, ma solo una frazione -pur molto rilevante- di esse, ciò dimostrando di avere l’amministrazione comunque effettuato una selezione.
Il quarto motivo non è fondato.
La ricorrente incidentale lamenta che la C.T.R., violando le norme costituzionali sul giusto processo (art. 111 Cost.) e sul diritto di difesa (art. 24 Cost.), abbia posto a carico della società le conseguenze dell’inerzia delle banche, le quali richieste, anche con ingiunzione giudiziale, di fornire la documentazione attestante il contenuto delle operazioni bancarie non giustificate, non vi avevano provveduto, senza esercitare né la facoltà di ordinare l’esibizione di quella documentazione, né quella di richiedere, ex art. 7, comma 2 d.lgs. 546 del 1992, all’Ufficio un approfondimento delle indagini in ordine alla tracciabilità delle operazioni oggetto di recupero.
La questione è stata oggetto, quanto al primo profilo, di una recente pronuncia di questa Sezione, secondo la quale: ‘La discrezionalità del potere officioso del giudice di ordinare alla
parte o ad un terzo, ai sensi degli artt. 210 e 421 c.p.c., l’esibizione di un documento sufficientemente individuato, non potendo egli sopperire all’inerzia delle parti nel dedurre i mezzi istruttori, rimane subordinata alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118 e 210 c.p.c., nonché all’art. 94 disp. att. c.p.c., ed è ricollegata alla necessità dell’acquisizione del documento ai fini della prova di un fatto, senza che possa ordinarsi d’ufficio l’esibizione di documenti, di una parte o di un terzo, di cui l’interessato è in grado, di propria iniziativa, di acquisire una copia e di produrla in causa. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha rigettato il ricorso con cui il contribuente lamentava la mancata adozione dell’ordine di esibizione della documentazione bancaria e fiscale detenuta dall’Agenzia delle Entrate, benché la relativa acquisizione in sede stragiudiziale, ai fini della successiva produzione in giudizio, gli fosse estremamente agevole, sia mediante richiesta nei confronti delle banche interessate, sia mediante l’esercizio del diritto di accesso agli atti di cui all’art. 24, comma 7, della l. n. 241 del 1990). (Sez. 5, Ordinanza n. 38062 del 02/12/2021).
La sentenza impugnata sembra, per la verità, contraddire siffatto principio, allorquando sostiene che ‘nessun rilievo possono assumere le asserite difficoltà della società contribuente di acquisire dagli istituti di credito più dettagliate informazioni in modo da poter efficacemente dimostrare la non riferibilità all’attività societaria delle singole operazioni risultanti dai conti correnti’.
Invero, è proprio la difficoltà insorta per l’atteggiamento ostativo del soggetto che detiene la documentazione a legittimare l’ordine di esibizione.
Né valgono ad escludere la necessità di provvedervi le considerazioni svolte dalla sentenza in ordine al superiore interesse pubblicistico che sottostà all’obbligazione tributaria,
compensabile, secondo la C.T.R., con un’azione risarcitoria nei confronti degli istituti di credito che rifiutano la collaborazione con il contribuente, non rilasciando le informazioni richieste.
Come correttamente fatto valere dalla ricorrente incidentale, infatti, vi sono principi costituzionale, quali quelli consacrati negli artt. 24 e 53 Cost., che non possono deflettere rispetto al diritto dell’amministrazione fiscale di procedere comunque alla riscossione, senza che sia assicurata al contribuente la possibilità di difendersi in giudizio, dimostrando che la pretesa fatta valere non è dovuta.
E, nondimeno, l’assunto difensivo dimentica la successiva affermazione della sentenza che, pur escludendo che le ‘difficoltà non possono essere dimostrate solo sulla base delle ingiunzioni del Tribunale di Velletri prodotte dalla società’, poi afferma che ‘non sono documentati gli esiti della procedura esecutiva conseguente a tali provvedimenti giurisdizionali’. Ciò basta per escludere l’illegittimità dell’assenza di un provvedimento di esibizione, posto che manca, effettivamente, la prova che la società contribuente non fosse in grado, se non attraverso un ordine ex art. 210 c.p.c. di fornire la prova delle proprie allegazioni.
30. Motivazioni analoghe sorreggono la mancanza di un provvedimento ex art. 7 comma 2 d.lgs. 546 del 1992. Anche a questo proposito, invero, va ricordato che il potere del giudice di richiedere relazioni agli organi tecnici dell’amministrazione o alla Guardia di finanza, è una facoltà per il cui esercizio sono previsti presupposti non dissimili da quelli che autorizzano il ricorso all’ordine di esibizione al terzo, così come chiarito da questa Sezione, che ha precisato come ‘Nel processo tributario, l’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto norma eccezionale attributiva di ampi poteri istruttori officiosi alle Commissioni Tributarie, tra i quali la facoltà di ordinare il deposito di
documenti necessari ai fini della decisione, trova applicazione solo quando l’assolvimento dell’onere della prova a carico del contribuente sia impossibile o sommamente difficile, situazione che è integrata qualora la parte alleghi e dimostri la specifica situazione di fatto che, nel caso concreto, abbia reso impossibile o sommamente difficile l’assolvimento dell’onere della prova, essendo insufficiente la mera affermazione dell’esistenza del presupposto, priva dell’allegazione relativa all’avvenuta sollecitazione del giudice del merito all’esercizio del predetto potere. (Sez. 5 – , Ordinanza n. 27827 del 31/10/2018; Sez. 5, Sentenza n. 4589 del 26/02/2009).
31. In conclusione, vanno accolti il primo motivo del ricorso principale ed il primo motivo del ricorso incidentale, rigettandosi le doglianze ulteriori. La sentenza deve, dunque, essere cassata con rinvio alla Corte di giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, cui va rimessa anche la liquidazione delle spese di lite di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
In accoglimento del primo motivo del ricorso principale e del primo motivo del ricorso incidentale, rigettati gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia a alla Corte di giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, cui rimette anche la liquidazione delle spese di lite di questo giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2025
Il consigliere estensore Il Presidente NOME COGNOME NOME COGNOME