Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 9000 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 9000 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 05/04/2025
Avviso di accertamento -Irpef – società a ristretta base – presunzione distribuzione degli utili
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24070/2016 R.G. proposto da: NOME
DI NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. COGNOME
-ricorrente –
Contro
AGENZIA RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dal l’Avvocatura generale dello Stato,
-controricorrente – avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. LAZIO, n. 5076/2015 depositata il 29/09/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 5 marzo 2025 dal consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
L’Agenzia delle Entrate notificava a COGNOME COGNOME avviso di accertamento con il quale, per l’anno di imposta 2003, accertava un maggiore reddito di capitale in ragione della partecipazione, con una quota pari al 49 per cento, alla RAGIONE_SOCIALE società a ristretta base, e della presunzione di distribuzione in suo favore degli utili extra-contabili oggetto di separato avviso di accertamento nei confronti di quest’ultima.
La C.t.p. di Roma, innanzi alla quale il contribuente impugnava l’atto impositivo, rigettava il ricorso. Rilevava che in separato giudizio era stato rigettato il ricorso spiegato dalla società avverso l’atto impositivo societario e che non vi era prova di una destinazione diversa, rispetto alla distribuzione pro quota , dei maggiori utili accertati.
La C.t.r., con la sentenza in epigrafe, rigettava l’appello del contribuente. In rito, evidenziava che era onere dell’appellante riproporre specificamente i motivi di opposizione respinti dalla sentenza di primo grado e che questi non poteva limitarsi ad operare un semplice generico richiamo per relationem . Nel merito, rilevava, in particolare, che, a fronte dell’accertamento nei confronti della società che aveva superato la verifica giurisdizionale, operava nei confronti del contribuente la presunzione di distribuzione dei maggiori utili accertati a fronte della quale quest’ultimo non aveva offerto prova contraria. Aggiungeva che il socio non aveva nemmeno dimostrato di aver preso posizione specifica sulla vicenda assumendo idonee iniziative.
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione il contribuente e l’A genzia delle entrate resiste a mezzo controricorso.
Considerato che:
Il primo motivo è così rubricato «Violazione dell’art. 3 -24-53-97 della Costituzione – violazione di allegazione e notifica».
Il contribuente, dopo aver evidenziato che in primo grado aveva lamentato la mancata allegazione all’avviso di accertamento del processo verbale di constatazione redatto nei confronti della società, assume che anche il giudice di secondo grado ha omesso e non ha correttamente motivato le ragioni in diritto per le quali dette doglianze non fossero meritevoli di accoglimento.
Con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 24 legge 7 gennaio 1929, n. 4 e dell’art. 12, commi 4 e 7, legge 27 luglio 2000, n. 212.
Deduce la nullità dell’avviso di accertamento a causa della mancata redazione del processo verbale di constatazione.
Con il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione de ll’ art. 32, comma 1, n. 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 51, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633.
Evidenzia che in primo grado aveva lamentato la violazione del contraddittorio per non essere mai stato invitato a partecipare alle attività ispettive dell’Ufficio e che, pertanto, gli era stato impedito di reperire la documentazione idonea a provare la mancata acquisizione del maggior reddito presunto in capo alla società.
Con il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’ art. 39, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973.
Assume che non è chiaro quali fossero i ricavi che avrebbero determinato il reddito riconducibile all’attività d’impresa e che l’accertamento analitico induttivo eseguito dall’U fficio avrebbe dovuto tener conto di una percentuale dei costi necessaria produrre i ricavi.
Il quinto motivo è rubricato «illegittimità derivata».
Assume l’illegittimità derivata dell’avviso di accertamento in quanto il sottoscrittore era privo dei poteri di rappresentanza.
Con il sesto motivo denuncia la violazione dell’art 2697 cod. civ.
Evidenzia che già in primo grado aveva denunciato che l’avviso di accertamento richiamava indagini di polizia tributaria svolte nei confronti della società e richiamate per relationem, ma che il relativo provvedimento non era stato allegato , così restando precluso l’esercizio del suo diritto di difesa. Aggiunge che nel 2003 aveva dismesso la qualità di azionista e che l’attività ispettiva era successiva mentre la sua retrocessione all’anno 2003 era avvenuta sulla base delle sole dichiarazioni acquisite dalla società; che, inoltre, non avendo alcuna carica nell’organo amministrativo , non era stato posto nelle condizioni né di conoscere quanto accaduto né di acquisire quei documenti
Con il settimo motivo denuncia «violazione della presunzione».
Assume che l’attribuzione in via presuntiva di un maggior reddito sul presupposto della distribuzione degli utili sociali violava il divieto della doppia presunzione; aggiunge che, in ogni caso, la presunzione di incasso di dividendi era stata superata in quanto aveva puntualmente dimostrato che era totalmente estraneo all’attività della società e che non aveva alcun controllo sulla gestione della stessa la quale aveva un proprio amministratore ed un consiglio di amministrazione di cui non aveva mai fatto parte.
I primi cinque motivi, e il sesto motivo, per la parte in cui il contribuente denuncia vizi formali dell’atto impositivo , sono inammissibili.
8.1. Come riferito nella parte espositiva del processo, la C.t.r., dopo aver affermato in rito (par.7.1. della sentenza) che l’appellante non poteva limitarsi a riproporre per relationem i motivi proposti in primo grado, h a rigettato l’appello nel merito (par. 7.2 e 7.3.) motivando esclusivamente in ragione dell’applicazione alla fattispecie della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili accertati in capo a
società a ristretta base ed escludendo che fosse stata data prova contraria.
8.2. Il ricorrente in primo luogo non ha censurato la prima affermazione con la quale la C.t.r. ha ritenuto inammissibili tutti i motivi «in rito». In secondo luogo, non si è rapportato alla sentenza di secondo grado la quale non ha affrontato, evidentemente ritenendole inammissibili per le ragioni sopra esposte, alcuna delle questioni proposte con le censure e, infine, nemmeno ha ricondotto le singole critiche ad alcuna delle categorie giuridiche di cui all’art. 360, primo comma, cod. proc. civ né le stesse sono sempre univocamente identificabili.
8.3. I motivi del ricorso per cassazione devono investire questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti: in particolare, non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse postulano indagini ed accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità. Pertanto, secondo il costante insegnamento di questa Corte, qualora una determinata questione giuridica -che implichi un accertamento di fatto -non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere, non solo, di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, al fine di assolvere all’onere di specificità del ricorso per cassazione, di fornire i riferimenti idonei ad identificare la fase in cui ha formulato le specifiche doglianze, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa. (cfr. tra le più recenti Cass. 19/04/2022, n. 12481).
Il ricorso per cassazione, infatti, non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (Cass. Sez. U, 29/03/2013, n. 7931).
Nel caso di specie il ricorso, come detto, non rispetta i suddetti requisiti.
Il sesto motivo, nella parte in cui attinge il merito della pronuncia, ed il settimo motivo sono in parte infondati ed in parte inammissibili.
9.1. In primo luogo, quanto alla presunta violazione del divieto di doppia presunzione, questa Corte ha già chiarito che la prova inferenziale che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto noto attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto ignorato, il quale cessa pertanto di essere tale divenendo noto, ciò che risolve l’equivoco logico che si cela nel divieto di doppie presunzioni (Cass. 07/12/2020, n. 27982). Si è chiarito in proposito che il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o «divieto di doppie presunzioni» o «divieto di presunzioni di secondo grado o a catena»), spesso tralaticiamente menzionato in varie sentenze, è inesistente, perché non è riconducibile né agli artt. 2729 e 2697 cod. civ. né a qualsiasi altra norma dell’ordinamento: il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purché gravi, precise e concordanti, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., può legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea -in quanto, a sua volta adeguata -a fondare l’accertamento del fatto ignoto.
9.2. La C.t.r., pertanto, dopo aver dato atto del separato accertamento di utili extra-contabili in capo alla società, ha correttamente applicato il principio di diritto secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali che presenti una ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione (semplice) di attribuzione ai soci partecipanti alla società degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il contribuente di offrire la prova contraria, senza che ciò integri applicazione di una doppia presunzione.
9.3. Quanto alla prova che il contribuente assume di aver fornito in ordine alla propria estraneità all’amministrazione della società, il ricorrente, ancora una volta, non si rapporta alla sentenza impugnata la quale ha rilevato che questi si era limitato a considerazioni non idonee ad escludere la distribuzione degli utili extra-contabili e che, invece, non aveva fornito una prova specifica di mancati incrementi patrimoniali. Ha aggiunto che lo stesso nemmeno aveva provato di aver preso idonee iniziative, anche giudiziarie, nei confronti di coloro che, amministrando la società, si erano procurati detti utili intesi non attribuiti al socio minoritario.
Tale statuizione, nel merito, non risulta oggetto di specifica contestazione; la stessa, inoltre, è conforme alla giurisprudenza di legittimità la quale in un primo tempo, ha individuato il contenuto della prova contraria a carico dei soci nella (sola) dimostrazione che i maggiori ricavi dell’ente siano stati accantonati o reinvestiti ; successivamente, invece, ha riconosciuto la possibilità per il socio di vincere la presunzione di distribuzione degli utili extra bilancio, anche dando la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria, avendo ricoperto un ruolo meramente formale di semplice intestatario delle quote sociali, senza avere concretamente svolto alcuna delle attività di gestione e controllo riservate dalla legge
(e dallo statuto) al socio della società a responsabilità limitata (Cfr. tra le più recenti Cass. 10/10/2024, n. 26473).
9.4. Il ricorrente, piuttosto, sembra mirare alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 04/07/2017, n. 8758). Invece, il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.
Il ricorso deve essere, pertanto rigettato.
Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, oltre quelle prenotate a debito, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 10.000,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis del citato art. 13, se dovuto
Così deciso in Roma, il 5 marzo 2025.