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Presunzione distribuzione utili: quando è legittima?

La Corte di Cassazione conferma la legittimità della presunzione di distribuzione utili ai soci di una società a ristretta base azionaria. Se l’Agenzia delle Entrate accerta maggiori ricavi non contabilizzati per la società, si presume che tali somme siano state distribuite ai soci come reddito di capitale. Spetta al socio fornire la prova contraria, dimostrando che i fondi sono stati reinvestiti o accantonati. La Corte ha inoltre chiarito che l’avviso di accertamento notificato al socio non è nullo se non allega l’atto presupposto emesso verso la società, qualora il socio ne fosse a conoscenza o potesse conoscerlo.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Presunzione Distribuzione Utili: la Cassazione fa il punto sulle società a ristretta base

Nelle società a ristretta base azionaria, il confine tra il patrimonio della società e quello dei soci può diventare labile agli occhi del fisco. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione torna su un tema cruciale: la presunzione distribuzione utili. Questo principio consente all’amministrazione finanziaria di tassare direttamente i soci per i maggiori ricavi accertati in capo alla società, partendo dal presupposto che tali utili non contabilizzati siano stati a loro distribuiti. Analizziamo la decisione per capire i confini di questa presunzione e gli strumenti di difesa per il contribuente.

I fatti del caso

La vicenda riguarda un contribuente, socio al 95% di una società per azioni, che riceve un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate. La pretesa fiscale si fondava su due pilastri: redditi da lavoro autonomo ricostruiti tramite indagini bancarie e, soprattutto, redditi di capitale derivanti dalla presunzione di distribuzione di utili extracontabili della sua società. L’accertamento a carico della società, che contestava maggiori ricavi, era nel frattempo divenuto definitivo.

Nei primi gradi di giudizio, le commissioni tributarie avevano raggiunto conclusioni opposte, finché la Commissione Tributaria Regionale ha riformato la sentenza di primo grado, dando ragione all’Agenzia delle Entrate sulla questione degli utili distribuiti. Secondo i giudici d’appello, la natura di società a ristretta base azionaria e l’esistenza di ricavi non contabilizzati erano sufficienti a far scattare la presunzione, a nulla valendo la circostanza che la contabilità ufficiale mostrasse una perdita.

L’analisi della Corte di Cassazione

Il contribuente ha impugnato la decisione dinanzi alla Corte di Cassazione, sollevando tre motivi di ricorso, tutti respinti dai giudici di legittimità.

La motivazione “per relationem” e la conoscenza degli atti

Il primo motivo lamentava la nullità dell’avviso di accertamento perché non erano stati allegati gli atti impositivi presupposti, emessi nei confronti della società. La Corte ha ribadito il suo orientamento consolidato: la motivazione per relationem è legittima quando gli atti richiamati sono già conosciuti o facilmente conoscibili dal contribuente. Nel caso di un socio quasi totalitario di una S.r.l. o S.p.A., egli ha per legge il potere di consultare la documentazione sociale e, pertanto, si presume che abbia conoscenza degli accertamenti subiti dalla società.

La legittimità della presunzione distribuzione utili

Il cuore della controversia risiedeva nel secondo motivo, con cui si contestava l’applicazione stessa della presunzione distribuzione utili. Il ricorrente sosteneva che i maggiori ricavi della società derivassero da una mera rivalutazione delle rimanenze di magazzino, senza un reale flusso finanziario che potesse essere distribuito. La Cassazione ha ritenuto il motivo inammissibile, in quanto mirava a una rivalutazione dei fatti. Ha però colto l’occasione per ribadire un principio fondamentale: l’accertamento di maggiori ricavi o di costi fittizi in capo a una società di capitali a ristretta base partecipativa è di per sé sufficiente a far presumere l’esistenza di un maggior reddito imponibile distribuito ai soci. L’onere di dimostrare il contrario, ovvero che tali somme siano state accantonate o reinvestite, grava interamente sul socio.

L’adesione della società all’accertamento

Infine, la Corte ha respinto anche il terzo motivo, relativo a una presunta violazione delle norme sulla prova. I giudici hanno sottolineato che, dal punto di vista sostanziale, la società aveva definito l’accertamento tramite adesione. Secondo la giurisprudenza, anche in caso di accertamento con adesione, la presunzione distribuzione utili rimane pienamente legittima, poiché la sua origine risiede nella partecipazione stessa alla compagine sociale e non nelle modalità con cui viene definito l’accertamento a monte.

Le motivazioni della decisione

La decisione della Corte si fonda su una logica giuridica precisa e consolidata. Nelle società con pochi soci, vi è una stretta connessione tra la gestione societaria e gli interessi personali dei partecipanti. Questa vicinanza giustifica la presunzione che i profitti non dichiarati dalla società non rimangano nelle casse sociali, ma vengano invece prelevati dai soci. La legge, quindi, inverte l’onere della prova: non è il fisco a dover dimostrare l’avvenuta distribuzione, ma è il socio a dover provare che essa non è avvenuta. Tale prova può consistere, ad esempio, nel dimostrare con documentazione contabile che le somme sono state utilizzate per investimenti aziendali o accantonate in apposite riserve di bilancio.

Conclusioni e implicazioni pratiche

L’ordinanza in commento rappresenta un importante monito per i soci di società a ristretta base. La Cassazione conferma un orientamento rigoroso che pone a carico del socio un onere probatorio significativo. Per evitare di vedersi tassare redditi che si sostiene di non aver percepito, è fondamentale che la gestione contabile della società sia trasparente e in grado di tracciare con precisione il destino di ogni risorsa economica. In caso di accertamento di maggiori ricavi per la società, il socio deve essere pronto a dimostrare, documenti alla mano, che tali somme sono rimaste nel patrimonio aziendale e non sono state distratte a suo favore.

Un avviso di accertamento fiscale può fare riferimento ad altri atti non allegati?
Sì, è legittimo secondo il principio della motivazione per relationem, a condizione che gli atti richiamati siano già conosciuti o facilmente conoscibili dal contribuente. Per un socio di una società a ristretta base, si presume la conoscibilità degli atti fiscali relativi alla società stessa.

Cosa si intende per presunzione di distribuzione utili in una società a ristretta base azionaria?
È una presunzione legale secondo cui i maggiori ricavi accertati a una società con pochi soci si considerano automaticamente distribuiti ai soci stessi come reddito personale. Questa presunzione nasce dalla stretta compenetrazione tra la società e i suoi soci in questo tipo di realtà imprenditoriale.

Chi deve provare che gli utili non sono stati distribuiti ai soci?
L’onere della prova spetta al socio contribuente. Egli deve dimostrare che i maggiori ricavi accertati in capo alla società non gli sono stati distribuiti, ma sono stati invece accantonati (ad esempio in una riserva a bilancio) o reinvestiti nell’attività aziendale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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