Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 7905 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 7905 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 25/03/2025
IRPEF – Redditi di capitale -Società a ristretta base azionaria -Utili extracontabili -Distribuzione socio -Presunzioni –
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 169/2016 R.G. proposto da COGNOME rappresentato e difeso dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME in forza di procura a margine del ricorso, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata presso la medesima, in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. DELLA CAMPANIA n. 4768/34/2015, depositata in data 20/05/2015, non notificata; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 5 marzo 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con avviso di accertamento n. TF7010404935/2011 relativo all’anno di imposta 2006 , l ‘Agenzia delle Entrate , Direzione provinciale di Caserta, recuperava a tassazione, nei confronti di NOME COGNOME maggiori Irpef, Irap e Iva; ciò sia per redditi di lavoro autonomo, ricostruiti in base ad indagini bancarie, che per redditi di capitale, derivanti dalla presunzione di distribuzione delle somme di cui ad altri due avvisi di accertamento emessi nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, società di cui egli era socio (titolare di una partecipazione azionaria pari al 95% del capitale sociale), e alla quale erano stati contestati maggiori ricavi, avviso divenuto definitivo per mancata impugnazione.
Il contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Caserta (C.T.P.), la quale accoglieva in parte l’impugnazione .
Avverso la sentenza presentavano appello (principale e incidentale) tanto l’Agenzia delle Entrate quanto il contribuente per la parte che li aveva visti rispettivamente soccombenti.
La Commissione tributaria regionale della Campania (C.T.R.) riformava la sentenza di primo grado accogliendo in parte l’appello de ll’Agenzia delle Entrate e rigettava l’appello incidentale del contribuente.
I giudici del gravame, quanto all’appello erariale, preso atto dell’intervenuta sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 6 ottobre 2014 con la quale era stata dichiarata, nelle more del giudizio, la parziale incostituzionalità dell’art. 32, comma 2, n. 2 d.P.R. 29
settembre 1973, n. 600, ritenevano che i prelevamenti non giustificati riscontrati sul conto corrente non potessero concorrere a formare il maggior reddito da lavoro autonomo; quanto agli utili ritenuti distribuiti dalla RAGIONE_SOCIALE, società a ristretta base azionaria, i giudici confermavano l’accertamento e riconoscevano la sussistenza degli stessi, ritenendo non rilevante che dalla contabilità societaria emergesse una perdita, circostanza non sufficiente di per sé e in assenza di prova contraria, a vincere la presunzione di distribuzione ed elidere così il fatto oggettivo riscontrato, consistente in ricavi non contabilizzati dalla società e distribuiti ai soci ; quanto all’appello del contribuente, invece, ritenevano infondato il dedotto vizio di motivazione per relationem dell’accertament o, tenuto conto che dal ricorso emergeva che la società aveva definito l’accertamento in adesione.
Avverso la sentenza della C.T.R. COGNOME NOME propone ricorso affidato a tre motivi.
L ‘Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
La causa è stata trattata nella camera di consiglio del 5 marzo 2025.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione de ll’art. 7, della legge 7 luglio 2000, n. 212, in relazione all’ art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., prospettando il vizio motivazionale dell’atto impositivo per mancata allegazione degli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società, il che avrebbe anche impedito al giudice di valutare la fondatezza della pretesa erariale.
1.1. Il motivo è infondato.
Secondo costante giurisprudenza di questa Corte l’accertamento c.d. per relationem , che fa riferimento ad atti non allegati, è legittimo
purché gli atti siano conosciuti o conoscibili dal contribuente (Cass. n. 18073/2008); la norma citata, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non intende certo riferirsi ad atti di cui il contribuente abbia già integrale e legale conoscenza per effetto di precedente notificazione (Cass. n. 29968/2019; Cass. n. 15327/2014).
Deve respingersi pertanto una interpretazione puramente formalistica dell’art. 7 della legge n. 212/2000, nel senso della necessità di allegare qualunque atto menzionato nella motivazione, anche se già conosciuto dal destinatario.
Nel caso di specie la CTR, con accertamento in fatto, non censurato, ha esattamente escluso che la mancata allegazione degli avvisi emessi nei confronti della società, viziasse l’atto nei confronti del socio, che ne aveva già avuto conoscenza.
Del resto, Cass. n. 21126/2020 ha altresì precisato che in materia di accertamento tributario di un maggior reddito nei confronti di una società di capitali, organizzata nella forma della società a responsabilità limitata ed avente ristretta base partecipativa, e di accertamento conseguenziale nei confronti dei soci, l’obbligo di motivazione degli atti impositivi notificati ai soci è soddisfatto anche mediante rinvio per relationem alla motivazione dell’avviso di accertamento riguardante i maggiori redditi percepiti dalla società, ancorché solo a quest’ultima notificato, giacché il socio, ex art. 2476 cod. civ., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi.
Con il secondo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 38, comma 2, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché de ll’art. 47 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e del l’art. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc.
civ., criticando l’erronea riconduzione, in assenza di produzione degli atti presupposti su cui si fonda la pretesa impositiva, del maggior reddito accertato in capo alla RAGIONE_SOCIALE nell’alveo degli utili extrabilancio e quindi nell’ambito di operatività della presunzione di distribuzione avallata dai giudici di secondo grado. Deduce infatti che l’accertamento nei confronti della società aveva natura valutativa delle rimanenze di magazzino e quindi non era ipotizzabile un flusso di liquidità in capo alla società e poi trasferito ai soci.
2.1. Il motivo è inammissibile.
A dispetto della rubrica, intitolata alla violazione di legge, il motivo si risolve in una censura in fatto sul contenuto dell’avviso di accertamento; il contribuente non censura il principio di diritto della presunzione di distribuzione degli utili extracontabili nelle società a ristretta base partecipativa, quanto piuttosto assume che esso non operi in assenza di un effettivo flusso finanziario, in quanto l’accertamento nasceva dalla rivalutazione delle rimanenze di magazzino.
Deve però rilevarsi che con la sentenza impugnata il giudice di appello ha accertato che la società RAGIONE_SOCIALE, a ristretta base azionaria e di cui NOME COGNOME era socio al 95 per cento, conseguì maggiori ricavi non transitati nelle scritture contabili, elemento in fatto diverso da quello assunto dal ricorrente a fondamento del motivo.
Infine, e comunque, occorre ribadire l’altrettanto consolidato orientamento secondo il quale l’accertata dichiarazione o esposizione in bilancio di costi fittizi, da parte di una società di capitali a ristretta base partecipativa, è di per sé sufficiente a far presumere l’esistenza di un maggior reddito imponibile in misura pari ai costi fittiziamente dichiarati, senza alcuna necessità per l’amministrazione finanziaria di dimostrare che dal maggior reddito siano derivati maggiori utili distribuibili ai soci, e ferma restando la possibilità, per il
contribuente, di fornire la prova contraria (Cass. n. 10669/2022; Cass. n. 33976/2019).
Con il terzo motivo il ricorrente critica la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. , sotto un diverso profilo, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.; denunzia l’illegittimità della sentenza nella parte in cui la C.T.R. ha ravvisato la sussistenza del presupposto su cui la pretesa impositiva si basa, pure in assenza delle prove fornite dalle parti come richiesto dalla norma asseritamente violata.
3.1. Il motivo è inammissibile e comunque infondato.
In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (Cass. Sez. U. n. 20867/2020) o abbia violato il principio della non contestazione, laddove con la censura in esame, di fatto, il ricorrente reitera il primo motivo e introduce una generica contestazione relativa all’accertamento nei confronti della società .
Dal punto di vista sostanziale, peraltro giova precisare che la CTR ha evidenziato che la società aveva aderito all’accertamento e sul punto questa Corte ha ritenuto che l’accertamento del maggior reddito nei confronti di società di capitali a ristretta base partecipativa legittima, anche nell’ipotesi di accertamento con adesione, la presunzione di distribuzione degli utili tra i soci, in quanto la stessa ha origine nella partecipazione e pertanto prescinde dalle modalità di accertamento, ferma restando la possibilità per i soci di fornire prova contraria rispetto alla pretesa dell’Amministrazione finanziaria, dimostrando che i maggiori ricavi dell’ente sono stati accantonati o reinvestiti (Cass. n. 32959/2018).
4. In conclusione, il ricorso è infondato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, liquidandole in euro 10.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito; a i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 05/03/2025.