Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 7899 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 7899 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 25/03/2025
Irpef-Socio società ristretta base -Raddoppio termini -Accertamento parziale –
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11786/2016 R.G. proposto da COGNOME rappresentato e difeso dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME in forza di procura a margine del ricorso, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, domicili ata presso quest’ultima in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. CAMPANIA n. 9857/2015, depositata in data 10/11/2015, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 5 marzo 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con avviso di accertamento n. TF7010900428 emesso ai sensi dell’art. 41 -bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e relativo all’anno di imposta 2007, l’Amministrazione finanziaria accertava nei confronti di NOME COGNOME maggior Irpef per redditi di capitale presuntivamente distribuiti dalla RAGIONE_SOCIALE s.p.a., società a ristretta base di cui egli era socio, destinataria di autonomo avviso di accertamento.
Il contribuente impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Caserta (C.T.P.), che respingeva il ricorso.
Avverso tale decisione, il contribuente incardinava il gravame innanzi alla Commissione tributaria regionale della Campania (C.T.R.), che rigettava l’appello confermando così la decisione di prime cure.
In particolare, la C.T.R. riteneva infondata tanto la doglianza relativa al raddoppio dei termini per l’accertamento , in quanto non occorreva che la denuncia fosse anche allegata all’avviso di accertamento né che nell’avviso fosse espressamente indicato il raddoppio; rigettava la doglianza relativa all’art. 41bis d.P.R. n. 600 del 1973; in riferimento all ‘ applicazione, nel caso di specie, della presunzione di avvenuta distribuzione degli utili in forza della rilevata ristretta base societaria, confutava nel merito le censure mosse contro l’avviso di accertamento emesso nei confronti della società.
Contro tale sentenza propone ricorso per cassazione la parte privata, affidandosi a quattro mezzi di impugnazione.
L ‘Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
La causa è stata trattata nella camera di consiglio del 5 marzo 2025.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 4 3 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dell’art. 57 d.P.R. 2 6 ottobre 1972, n. 633, come modificati dall’art. 37 d.l. 4 luglio 2006 n. 223, in relazione a ll’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.; censura la ritenuta legittimità, da parte dei giudici di appello, de l raddoppio dei termini di decadenza dell’azione accertatrice in conseguenza delle violazioni aventi natura penale, in assenza di specifiche motivazioni circa le conclusioni raggiunte e senza alcun riferimento all’inoltro della denuncia all’autorità competente.
Nella prospettazione della parte privata, infatti, affinché il giudice possa vagliare la non strumentalità della denuncia penale, non è sufficiente che l’atto impositivo contenga il mero riferimento ad una norma penale, dovendosi piuttosto ritenere necessaria la puntuale indicazione delle ragioni che ne sono a fondamento.
1.1. Il motivo è infondato.
L’art. 43, comma 3, d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente ratione temporis , prevede che «in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione».
Come più volte chiarito da questa Corte, anche sulla scorta dei principi enunciati da Corte Cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera in presenza di tale presupposto astratto, la configurabilità del reato che importa l’obbligo di denuncia, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass. n. 17586/2019; Cass. n. 22337/2018; Cass. n. 11171/2016), non rilevando «né l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’articolo 405 c.p.p.,
mediante la formulazione dell’imputazione, né la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario» (Cass. n. 9974/2015; Cass. n. 9322/2017).
Ancora, «in tema di accertamento tributario, il cd. raddoppio dei termini previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, attiene solo alla commisurazione del termine di accertamento ed i termini prolungati sono anch’essi fissati direttamente dalla legge, non integrando quindi ipotesi di “riapertura” o proroga di termini scaduti né di reviviscenza di poteri di accertamento ormai esauriti, in quanto i termini “brevi” e quelli raddoppiati si riferiscono a fattispecie ab origine diverse, che non interferiscono tra loro ed alle quali si connettono diversi, unitari e distinti termini di accertamento» (Cass. n. 23628/2017).
Ciò naturalmente non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre il termine-base fissato dalla legge, dovendo al contrario essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni in esame al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento. Per verificare l’uso pretestuoso del raddoppio dei termini «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità», con la precisazione però che «il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale
e non riguarda l’accertamento del reato» (p. 5.3. della sentenza della Corte costituzionale).
Ne consegue che la censura sollevata dal ricorrente è priva di fondamento, poiché si basa su presupposti errati, ovvero la necessità di una specifica motivazione circa le conclusioni raggiunte dall ‘ Amministrazione e la necessità di un riferimento esplicito all ‘ invio della denuncia, denuncia che peraltro, come evidenziato dal giudice d’appello, è stata prodotta in giudizio a seguito della proposizione dell’eccezione di decadenza .
Tanto premesso, deve quindi concludersi per l ‘ infondatezza del motivo di ricorso.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 41 -bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per avere la C.T.R. errato nel disconoscere l’operatività del divieto di nuovo accertamento pur in presenza della conoscenza dei fatti posti a fondamento della pretesa impositiva oggetto del giudizio. In sostanza il contribuente deduce che, poiché la parte era stata destinataria di un altro avviso di accertamento per il 2007, l’avviso oggetto di causa, formalmente emesso ai sensi dell’ art. 41bis d.P.R. n. 600 del 29 settembre 1973, in realtà sarebbe da considerare accertamento integrativo, con il conseguente operare della preclusione di cui al comma 3 dell’art. 43 , potendo cioè essere emesso solo in presenza di fatti nuovi e sopravvenuti, che nel caso di specie non vi erano.
2.1. La censura è inammissibile e infondata.
Sotto il primo profilo, la CTR, infatti, ha ritenuto valido l’accertamento in questione per due ordini di ragioni; in primo luogo perché non risultava provato che l’accertamento avesse ad oggetto fatti già conosciuti dall’amministrazione, in secondo luogo, perchè anche il primo accertamento era un accertamento effettuato ai sensi
dell’art. 41 -bis d.P.R. n. 600 del 1973, espressamente evidenziando quindi una «ulteriore ragione, autonomamente idonea a sostenere la decisione di rigetto» del motivo di appello.
Tale seconda argomentazione non è censurata dal ricorrente, cosicchè la statuizione sul punto risulta passata in cosa giudicata.
Sotto il secondo profilo, comunque si osserva che questa Corte ha in più occasioni avuto modo di affermare che l’accertamento parziale di cui ai citati artt. 41bis del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54, quinto comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, «è uno strumento diretto a perseguire la finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza di attendibili posizioni debitorie», ma non costituisce «un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole», ciò in ragione della premessa introduttiva della disciplina dettata dagli articoli in questione (applicabili «senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’art. 43», quanto all’art. 41bis , e «dall’art. 57», quanto all’art. 54, quinto comma), la quale è deputata a circoscrivere il termine complessivo entro il quale l’Amministrazione può esercitare la potestà accertativa, tenendo distinto il metodo di accertamento con la tempistica dello stesso (cfr. Cass. n. 21984/2015; Cass. n. 28681/2019; Cass. n. 23685/2018; Cass. n. 8406/2018). La differenza qualitativa di tale tipo di accertamento rispetto a quello ordinario non discende invero dalla particolare semplicità della segnalazione, potendo esso basarsi anche su una verifica generale (vedi Cass. n. 11057/2006; Cass. n. 2833/2008; Cass. n. 2761/2009; Cass. n. 1150/2010), bensì dalla disponibilità, in capo all’Amministrazione, di elementi (non necessariamente provenienti da segnalazione di soggetti ad essa estranei, ben potendo derivare anche da fonti interne) idonei a dare
contezza della sussistenza, a qualsiasi titolo, di attendibili posizioni debitorie, senza richiedere, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di un ufficio valutativo ulteriore rispetto a quello che si risolve nel recepire e fare proprio il contenuto della segnalazione o lo svolgimento di ulteriori attività di approfondimento (appannaggio di accertamenti più complessi), valendosi di una «sorta di automatismo argomentativo» indotto da quelle fonti di conoscenza, per modo che il confezionamento dell’atto risulta possibile sulla base della sola segnalazione senza necessità di ulteriore approfondimento (cfr. Cass. n. 27323/2024; Cass. n. 2633/2016).
Ciò premesso, il ricorrente assume che l’avviso impugnato non fosse qualificabile come parziale, perché preceduto da altro avviso, a sua volta da riqualificare, senza invero che ne siano spiegate le ragioni; in forza di ciò esso avrebbe dovuto rispettare il limite dei nuovi elementi, ma la CTR, con accertamento in fatto, non censurabile come violazione di legge, ha evidenziato che non vi fosse prova dell ‘assunto che l’amministrazione era già a conoscenza dei medesimi fatti.
Con il terzo motivo il contribuente deduce la violazione dell’art. 38, comma 3, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 41 t.u.i.r., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., dolendosi dell’applicazione della presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili in assenza di precisa prova offerta dall’Amministrazione finanziaria in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi in capo alla società, non potendosi ritenere la presunzione applicabile ove le somme siano comunque transitate nella contabilità societaria.
3.1. Il motivo di ricorso è infondato.
In primo luogo, occorre ribadire il consolidato principio più volte espresso da questa Corte secondo il quale l’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 legittima la presunzione di attribuzione pro quota ai soci degli utili extra bilancio prodotti da società di capitali
a ristretta base partecipativa, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (Cass. n. 20851/2005; Cass. n. 1924/2008; Cass. n. 18032/2013; Cass. n. 10679/2022).
In questo senso la Corte ha precisato che la prova presuntiva che sia caratterizzata da una serie lineare di inferenze, ciascuna delle quali sia apprezzata dal giudice secondo criteri di gravità, precisione e concordanza, fa sì che il fatto noto attribuisca un adeguato grado di attendibilità al fatto ignorato, il quale cessa pertanto di essere tale divenendo noto (Cass. n. 27982/2020).
Si è chiarito, pertanto, che non è configurabile nel sistema processuale un divieto di presunzioni di secondo grado, non essendo lo stesso riconducibile agli artt. 2729 e 2697 cod. civ. né ad altre norme; è ben possibile che il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituisca la premessa di un’ulteriore presunzione, ferma restando la necessità di valutare in concreto l’attendibilità del risultato, in termini di gravità, precisione e concordanza idonee a fondare l’accertamento del fatto ignoto (Cass. n. 23860/2020; Cass. n. 37361/2022; Cass. n. 9519/2009).
Essa opera con riferimento allo stesso esercizio in cui gli utili sono stati realizzati (Cass. n. 25468/2015) e anche in assenza di rapporti di parentela, in quanto la ristrettezza della base sociale implica di per sé un elevato grado di compartecipazione dei soci, la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extrabilancio (Cass. n. 24572/2014). In tal caso, la ristrettezza della base sociale è elemento presuntivo idoneo a reggere l’accertamento nei confronti del socio.
Questa Corte ha altresì chiarito che neanche occorre, come invece embrionalmente dedotto dal ricorrente, che l’accertamento emesso nei confronti dei soci risulti fondato anche su ulteriori elementi di riscontro, derivanti per esempio dall’analisi delle loro movimentazioni bancarie o
consistenti nell’intervenuto acquisto di beni di particolare valore, non giustificabili sulla base dei redditi dichiarati (Cass. n. 16913/2020).
Rimane al contribuente quindi l’onere della prova contraria o nella dimostrazione che i maggiori ricavi dell’ente siano stati accantonati o reinvestiti ( ex plurimis , Cass. n. 18032/2013; Cass. n. 24534/2017).
Infine, occorre ribadire l’altrettanto consolidato orientamento secondo il quale l’accertata dichiarazione o esposizione in bilancio di costi fittizi, da parte di una società di capitali a ristretta base partecipativa, è di per sé sufficiente a far presumere l’esistenza di un maggior reddito imponibile in misura pari ai costi fittiziamente dichiarati, senza alcuna necessità per l’amministrazione finanziaria di dimostrare che dal maggior reddito siano derivati maggiori utili distribuibili ai soci, e ferma restando la possibilità, per il contribuente, di fornire la prova contraria (Cass. n. 10669/2022; Cass. n. 33976/2019).
Alla luce di tali considerazioni il motivo è infondato; in presenza di definitivo accertamento di maggiori ricavi nei confronti della società, e ritenuto verificato in fatto che si trattasse di ricavi non contabilizzati, la CTR ha ritenuto operante la presunzione di distribuzione, tenendo conto della ristrettezza della base societaria (nel caso di specie il ricorrente, come pacifico in atti, è socio al 95 per cento della società, mentre l’altro 5 per cento appartiene alla figlia), e ha ritenuto che il contribuente non avesse offerto alcuna prova contraria, con motivazione quindi rispettosa dei predetti principi.
Con il quarto motivo il ricorrente chiede la rideterminazione delle sanzioni irrogabili in forza dell’intervento , nelle more del giudizio, della novella normativa (e, segnatamente, l’art. 15 d. lgs. del 24 settembre 2015, n. 158), in applicazione del principio del favor rei di cui all’art. 3 d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.
4.1. Il motivo è fondato.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in materia di sanzioni amministrative tributarie, la sopravvenuta revisione del sistema sanzionatorio tributario, introdotta dal d.lgs. n. 158 del 2015 e vigente dal 1° gennaio 2016. è applicabile ai procedimenti in corso, in forza del principio del favor rei di cui all’art. 3 d. lgs. 5 dicembre 1997, n. 472, a condizione che il processo sia ancora in corso e che perciò non sia ancora definitiva la parte sanzionatoria del provvedimento impugnato (cfr., tra le altre, Cass. n. 8716/2021; Cass. n. 32740/2024; Cass. n. 25809/2024).
Né può essere esclusa la fondatezza della richiesta alla luce della generica affermazione della difesa erariale secondo la quale l’ Ufficio, in sede di iscrizione a ruolo, procede sempre al ricalcolo delle sanzioni.
In conclusione, il ricorso è fondato unicamente per le ragioni attinte dal quarto motivo, la sentenza dev’essere cassata con rinvio al giudice di merito perché valuti l’applicazione del ricalcolo delle sanzioni alla luce della disciplina favorevole, applicabile anche retroattivamente.
P.Q.M.
accoglie il quarto motivo del ricorso, rigettati gli altri; cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma il 5 marzo 2025