Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32117 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 32117 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22207/2023 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE già RAGIONE_SOCIALE COGNOME NOME e COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA di CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA di SECONDO GRADO del LAZIO n. 2365/2023 depositata il 20/04/2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22/10/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio ( hinc: CGT), con sentenza n. 2365/2023, depositata in data 20/04/2023, ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate contro la sentenza n. 104/2020 con la quale la Commissione Tributaria Provinciale di Viterbo aveva accolto i ricorsi sub R.G. n. 7/2019, 8/2019, 9/2019 e 11/2019, ritenendo che l’inventario al 31/12/201 4 contenesse l’elencazione degli articoli di magazzino esistenti, indicati per quantità e valore e che la voce « plusvalore di valorizzazione» (indicata per un importo pari a Euro 1.700.000), per quanto anomala, non consentisse di ritenere presenti ulteriori merci, con la conseguenza che non poteva trovare applicazione la presunzione di avvenuta cessione ex d.P.R. 10/11/1997, n. 441.
La CGT -rilevato che l’importo di Euro 1.700.000 indicato nell’inventario al 31/12/2014 generò un utile fiscale sul quale furono corrisposte le imposte, per essere, poi, ripreso a tassazione come
sopravvenienza passiva indeducibile con dichiarazione integrativa prodotta nel 2015 -ha rilevato che: « è di tutta evidenza che, in realtà, non avendo la parte fornito indicazioni concrete plausibili in riferimento ai beni a cui si riferisce tale plusvalore, la somma di E 1.700.000,00 non corrisponde ad alcuna consistenza fisica di beni, proprio come ha affermato.»
2.1 . Ha poi rilevato che l’art. 4 d.P.R. n. 441 del 1997 individua due diverse modalità che possono dar luogo a presunzioni di acquisto o di cessione: la prima (indicata nel primo comma) fa riferimento alla rilevazione fisica dei beni al momento dell’inizio degli accessi, ispezioni e verifiche presso i locali aziendali, mentre la seconda (secondo comma) fa riferimento alle « eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui alla lettera d) dell’art. 14, 1° comma, d.P.R. n. 600 del 1973 o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate», come ricordato anche da Cass. n. 6185 del 2017).
2.2. La CGT ha rilevato che la differenza scaturisce dall’inventario redatto in data 31/12/2014, con l’indicazione di un plusvalore di Euro 1.700.000 non meglio identificato, comparso in aggiunta ad altri beni dettagliatamente indicati per Euro 143.276,63, determinando l’ammontare complessivo delle rimanenze in Euro 1.843.278,02. L’anno seguente, a fronte di rimanenze iniziali pari al valore appena indicato, le rimanenze finali risultarono pari a Euro 172.742,73, senza che tale sparizione di merce fosse riconducibile a vendita, anche a stock dei beni in esame o ad altre eventuali cause di alienazione o distruzione dei medesmi. Ad avviso della CTR la differenza inventariale, scolpita nelle scritture contabili e nella sua rappresentazione non dimostra altro che una riduzione ingiustificata
di merce che configura una delle ipotesi tipiche per l’applicazione dell’art. 1 d.P.R. n. 441 del 1997.
Avverso la pronuncia della CGT hanno proposto ricorso in cassazione, con sei motivi, RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, COGNOME NOME.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso è stata contestata la contraddittorietà della motivazione e la violazione degli artt. 132 cod. proc. civ. e 36 d.lgs. 31/12/1992, n. 546 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
1.1. I ricorrenti rilevano che nel 2014 è stato contabilizzato un plusvalore di Euro 1.700.000, esposto per esigenze di bilancio ed eliminato l’anno successivo. Il plusvalore valutativo di Euro 1.700.000 non è, tuttavia, corrisposto ad alcuna ulteriore con sistenza fisica di beni, come affermato anche dall’Agenzia delle Entrate, sia nelle controdeduzioni al ricorso introduttivo, che nell’atto d’appello. Tale affermazione risulta condivisa anche dai giudici di seconde cure, che tuttavia cadono in contraddizione quando « si soffermano, quanto a presunzioni di cessione ed acquisto di beni, sul ‘riferimento alla rilevazione fisica dei beni al momento dell’inizio di accessi, ispezioni o verifiche..’ ovvero su ‘eventuali differenze quantitative’ di cui al D.P.R. n. 441/1997 ».
Con il secondo motivo è stata contestata la violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 441 del 1997 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
2.1. I ricorrenti, richiamando il contenuto dell’art. 1 d.P.R. n. 441 del 1997, rilevano che nel caso in esame non vi è alcun bene acquistato, importato o prodotto che non si sia trovato al momento dell’accesso. Anzi, si è in presenza di una situazione di fatto e contabile esattamente opposta. Tutta la merce contabilizzata sul registro di magazzino e inventariata è risultata perfettamente compatibile con quella rinvenuta al momento della verifica, così che i verificatori hanno constatato, come esposto nel fatto e svolgimento del processo, la regolarità di tali scritturazioni. Ciò è confermato dall’Agenzia delle Entrate e dalla CGT , che hanno aggirato il contenuto dell’art. 1 d.P.R. n. 441 del 1997 per concentrarsi sull’art. 4 d.P.R. n. 441 del 1997. Tuttavia, neppure la seconda norma risulta applicabile al caso in esame, dal momento che deve essere letta in coordinazione con la prima disposizione richiamata, dove sono individuati i presupposti di operatività della presunzione di cessione. L’art. 4, comma 1, d.P.R. n. 441 del 1997 stabilisce, infatti, che « gli effetti delle presunzioni di cessione e di acquisto, conseguenti alla rilevazione fisica dei beni, operano al momento dell’inizio degli accessi, ispezioni e verifiche. » Nella specie, come risulta dal PVC (e poi dall’atto impositivo) , a ll’inizio dell’accesso non è intervenuto alcun rilievo conseguente alla rilevazione fisica dei beni. I verificatori hanno preso atto della correttezza delle scritture contabili, non solo in via generale, ma anche per ciò che concerne i movimenti annotati sul registro di magazzino, perfettamente sovrapponibili con le quantità di beni figuranti sull’inventario.
Consapevoli dell’inapplicabilità dell’art. 4, comma 1, d.P.R. n. 441 del 1997 i giudici di appello hanno, quindi, ritenuto di poter far discendere una presunzione di cessione dal contenuto del successivo comma 2, in base al quale: « le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di
magazzino… o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo di imposta oggetto del controllo. »
2.2. I ricorrenti rilevano che, riscontrate esattamente le consistenze fisiche di magazzino, il plusvalore di Euro 1.700.000 costituisce un importo privo di valenza quantitativa « ma che di tutta evidenza manifesta solo una strategia di bilancio di tipo esclusivamente valutativo seguita dall’imprenditore. » Questo valore è stato annullato nell’anno successivo (2015) e ha concorso due volte alla formazione del reddito imponibile (ovvero, nel caso in esame ad una minore perdita fiscalmente riportabile), una volta per l’anno 2014, quale componente positivo di reddito risultante dal conto economico e una volta per l’anno 2015 , quando la società ha presentato una dichiarazione integrativa dove ha esposto l’importo del plusvalore tra le variazioni in aumento nel modello di dichiarazione dei redditi. Non ci sono, quindi, « eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino… e le consistenze dell e rimanenze registrate » di cui al l’art. 4, comma 2, d.P.R. n. 441 del 1997. Al contrario, ad avviso dei ricorrenti, dalle risultanze delle scritture di magazzino e dell’inventario, si è constatata e verificata una corretta consistenza quantitativa delle merci in rimanenza. I ricorrenti affermano quindi (pag. 21 del ricorso): « La Corte di Giustizia Tributaria di Secondo Grado, nel seguire senza adeguato approfondimento l’atto difensivo della Agenzia, erra dunque nel ritenere (pag. 6 della sentenza qui impugn ata) che ‘la differenza inventariale nel caso che ci occupa si è originata già nell’inventario redatto al 31/12/2014 mediante la indicazione di un ‘plusvalore’ di euro 1.700.000 non meglio identificato, comparso in aggiunta ad altri beni dettagliatamente
indicati…’. Non vi è presenza di alcuna ‘differenza inventariale’ di tipo quantitativo laddove l’inventario riporta (e deve riportare) la consistenza fisica (quantità e numero) dei beni in rimanenza. Il ‘plusvalore’ contabilizzato non ha alcuna attinenza c on tale consistenza fisica. »
Con il terzo motivo di ricorso è stata contestata la violazione dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 7, comma 5 -bis, d.lgs. 31/12/1992, n. 546 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
3.1. Ad avviso dei ricorrenti non viene in rilievo tanto la valutazione delle prove, quanto l’inesistenza di queste ultime. Difatti, le scritture di magazzino e l’inventario riportano, rispettivamente, le movimentazioni delle merci e la consistenza quantitativa delle merci in rimanenza. Non esiste né nel PVC, né nell’avviso di accertamento, né tra gli allegati, né agli atti del processo alcun riferimento, alcun elemento da cui possa desumersi (e che quindi offra la prova) da chi possa essere stata acquistata la merce presuntivamente ceduta, come sia stata trasportata. Al contrario, la parte ha offerto ai verificatori il registro di magazzino e il libro inventari che riportano una corretta movimentazione delle merci e una corretta inventariazione della consistenza fisica e quantitativa. È stato, inoltre, rilevato che nel libro dell’inventario al 31/12/2014 è stato inserito un «plusvalore valorizzazione magazzino», plusvalore che dunque è meramente e semplicemente valutativo. I ricorrenti rilevano, quindi, a pag. 25 del ricorso, che « si tratta di un mero plusvalore attribuito al suddetto magazzino, specificamente così indicato nell’inventario, con l’effetto di attribuire alla reale quantità delle merci invendute un valore superiore a quello effettivo’ e poi inoltre che ‘da quanto espos to appare evidente (e comunque si ribadisce) che all’importo di 1.700.000 non corrisponde, né ha mai corrisposto , alcuna consistenza fisica di beni che possa dare origine
a differenze quantitative rispetto ai magazzini in carico all’azienda sia al 31.12.2014 sia al 31.12.2015’ (foglio 5 del PVC). »
Con il quarto motivo di ricorso è stata contestata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 7, comma 5 bis , del d.lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
4.1. I ricorrenti evidenziano come, in relazione ai parametri normativi evocati a fondamento del motivo di ricorso, ‘l’errore’ sul materiale probatorio sia risultato decisivo, dal momento che la statuizione impugnata si è basata esclusivamente su tale materiale.
Con il quinto motivo di ricorso è stata censurata la violazione e falsa applicazione degli articoli 39, d.p.r. 29/09/1973, n. 600 del e 54, d.p.r. 26/10/1972, n.633 in relazione all’ art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
5.1. Con tale motivo di ricorso è stata contestata la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54 d.P.R. n. 633 del 1972 per applicare il cd. metodo induttivo, considerato che gli stessi verificatori hanno constatato la correttezza e regolarità delle scritture contabili ed in particolare del registro di magazzino e del libro degli inventari, la dicitura di ‘plusvalore valorizzazione magazzino’ apposta sul libro inventari con correlativo importo, non solo non inficia le scritture contabili in esame, ma anzi è sintoma tica della trasparenza dell’agire contabile della società e consente ogni riscontro giustificativo. Le scritture ausiliarie di magazzino e il libro inventari sono compilati correttamente e riportano esattamente le movimentazioni di magazzino e la consistenza inventariale delle merci. Con riferimento all’IVA i ricorrenti evidenziano che i presupposti accertativi devono essere attentamente valutati alla luce dell’oggetto di tale tributo e dello scopo da esso perseguito che, come già evidenziato nel precedente
motivo di ricorso, è quello di voler incidere esclusivamente, quale tributo indiretto sul consumatore finale, che nella fattispecie è del tutto assente.
Con il sesto motivo è stata contestata la violazione e falsa applicazione dell’art.112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia su una questione sollevata dalle parti in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
6.1. I ricorrenti rilevano che l’ Agenzia delle Entrate, oltre a teorizzare la presunzione di cessione di merci per importo pari al «plusvalore valorizzazione magazzino», in sede di accertamento ha applicato – al fine di quantificare il reddito da assumere a tassazione e la base imponibile IVA su cui calcolare la relativa imposta – una presunta percentuale di ricarico dell’11,1% , seguendo quella applicata dalla società nel successivo anno. In sostanza, la contestazione si incentrava sull’applicazione al periodo 2015 dei dati relativi allo studio di settore prodotto dalla società per il successivo anno 2016.
6.2. Tale questione, cui era stato fatto riferimento nel ricorso introduttivo, è stata reiterata anche in sede d’appello. Tuttavia, la CGT ha omesso di pronunciarsi sul punto.
La controricorrente ha insistito per il rigetto del ricorso.
7.1. Ha rilevato che l’art. 4 d.P.R. n. 4 41 del 1997 disciplina l’operatività della presunzione, che si applica con riguardo all’esercizio in corso al momento dell’accesso, nel caso di rilevazione quantitativa fisica dei beni, a norma del comma 1, mentre in caso di differenze quantitative desumibili dal raffronto tra le scritture contabili -come nel caso in esame -opera invece per tutto il periodo oggetto del controllo.
7.2. Con riferimento all’applicazione dell’art. 1 d.P.R. n. 4 41 del 1997 invocata dalla controparte ha evidenziato che il valore contabile
di euro 1.843.278,02 indicato nel bilancio come consistenza delle rimanenze iniziali al 01/01/2015, corrispondeva ad una quantità fisica effettivamente esistente in azienda solo per euro 143.276,63, mentre il restante valore di euro 1.700.000,00, secondo le argomentazioni della controparte era solo una posta contabile non esistente fisicamente, rilevata solo per sconosciuti fini imprenditoriali.
A supporto della tesi offerta non è stata fornita alcuna prova circa la reale sostanza della rilevazione, con la conseguenza che, non trovando l’ammontare di rimanenze indicate nell’inventario per l’importo di E uro 1.700.000,00 nel luogo di svolgimento dell’attività né in altre eventuali sedi, la rilevazione contabile è stata necessaria al fine di allineare le scritture contabili alla reale consistenza delle rimanenze.
I motivi possono essere esaminati insieme e sono infondati.
8.1. La stessa parte ricorrente non contesta i numeri posti alla base dell’accertamento dell’Agenzia delle Entrate, che vedono in ragione delle parti del PVC richiamate nelle prime pagine del ricorso, l’evidenziazione, nell’anno d’imposta 2015, dell’import o di Euro 1.843.278,02 e un valore delle rimanenze finali di Euro 172.742,73. A seguito della consegna dell’inventario al 31/12/2014, è emersa l’indicazione di un importo di Euro 1.700.000, a titolo di plusvalore, sul valore di Euro 1.843.278,63, mentre la cifra residua di Euro 143.276,63 corrisponderebbe alla somma degli altri beni elencati nel medesimo inventario, analiticamente distinti per singolo articolo e valore unitario.
A cosa si riferisca il plusvalore di Euro 1.700.000 la ricorrente non lo ha spiegato nel ricorso e dalla lettura della sentenza impugnata -non sembra averlo spiegato neppure nei precedenti gradi di giudizio. A pag. 20 del ricorso -illustrando il secondo motivo -i ricorrenti
affermano che: « Si tratta di un importo che (anche letteralmente) è del tutto slegato da qualsivoglia componente quantitativa delle merci in rimanenza, ma che di tutta evidenza manifesta solo una strategia di bilancio di tipo esclusivamente valutativo seguita dall’imprend itore. »
8.2. Tuttavia, la redazione del bilancio non segue le scelte strategiche rimesse alle valutazioni, quali che siano, dell’imprenditore, ma risponde, in primo luogo, alle regole previste negli artt. 2423 ss. cod. civ., che impongono di seguire i principi di verità, chiarezza e correttezza nella rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio (Cass., 15/03/2023 n. 7433). In secondo luogo, la valutazione delle rimanenze non viene fatta ad libitum , ma deve adeguarsi a quanto stabilito nell’art. 2426, n. 9), cod. civ., il quale prevede quali criteri il costo d’acquisto o di produzione o il valore di realizzazione desumibile dall’andamento del mercato, se minore. In altre parole, sono due i criteri di valutazione del magazzino: o si prende il costo di acquisto o di produzione o quello di mercato, se minore. Non è, quindi, dato comprendere quale possa essere il plusvalore corrispondente a (non meglio precisate) esigenze o strategie di bilancio.
8.3. Alle rappresentazioni contenute nelle scritture contabili si ricollegano importanti conseguenze sul piano fiscale, tra le quali emerge quella prevista nell’art. 4, comma 2, d.P.R. n. 4 41 del 1997, il quale prevede che: « Le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui alla lettera d) dell’articolo 14, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze
delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo. »
In sostanza, la norma stabilisce una presunzione di cessione che riguarda il periodo oggetto di controllo (da individuare nell’anno 2015, quando a fronte di un valore iniziare di Euro 1.843.278,02 le rimanenze finali sono state rilevate nell’importo di Euro 143.276,63) e attiene alle divergenze tra le risultanze rilevate nelle scritture ausiliarie di cui all’art. 14, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973. Tale norma fa, in particolare, riferimento alle « scritture ausiliarie di magazzino, tenute in forma sistematica e secondo norme di ordinata contabilità, dirette a seguire le variazioni intervenute tra le consistenze negli inventari annuali. Nelle scritture devono essere registrate le quantità entrate ed uscite delle merci destinate alla vendita; dei semilavorati se distintamente classificati in inventario, esclusi i prodotti in corso di lavorazione; dei prodotti finiti nonché delle materie prime e degli altri beni destinati ad essere in essi fisicamente incorporati; degli imballaggi utilizzati per il confezionamento dei singoli prodotti; delle materie prime tipicamente consumate nella fase produttiva dei servizi, nonché delle materie prime e degli altri beni incorporati durante la lavorazione dei beni del committente.»
La presunzione scolpita nell’art. 4, comma 2, d.P.R. n. 491 del 1997 trova la sua ratio nel principio di vicinanza della prova, ribaltando l’onere spettante sull’amministrazione finanziaria nei confronti di chi, materialmente, redige e predispone le scritture ausiliarie di magazzino i cui dati sono posti a fondamento della presunzione di cessione o di acquisto. Spetta, quindi, al contribuente a fronte della norma appena richiamata, dare riscontro e fornire la prova della non riconducibilità ad operazioni di cessioni di eventuali differenze quantitative registrate tra le scritture ausiliari di magazzino e le consistenze delle rimanenze registrate.
8.4. Questa Corte ritiene che in materia di accertamento delle imposte dirette e dell’IVA, l’art. 4, comma 2, d.P.R. 10/11/199 7, n. 441, nel presumere che le differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le scritture ausiliare di magazzino (o tra la documentazione obbligatoria emessa e ricevuta) e le consistenze delle rimanenze registrate siano da ricondurre a operazioni di cessione o di acquisto avvenute nel periodo oggetto di controllo, stabilisce un’inversione dell’onere della prova, la cui ratio c onsiste nell’imporre al soggetto tenuto alla redazione e tenuta delle scritture previste nell’art. 14, primo comma, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, da cui risultino eventuali divergenze, la prova della loro non riconducibilità ad operazioni imponibili, che non può ritenersi raggiunta attraverso la mera evocazione di strategie di bilancio.
9. Ciò premesso è infondato il primo motivo, dal momento che non emerge alcuna contraddittorietà della motivazione. La CGT rileva, infatti, che « è di tutta evidenza che, in realtà, non avendo la parte fornito indicazioni concrete e plausibili in riferimento ai beni a cui si riferisce tale plusvalore, la somma di € 1.700.000,00 non corrisponde ad alcuna consistenza fisica di beni, proprio come ha affermato.», per poi passare alla disamina dell’art. 4 d.P.R. n. 441 del 1997. Il mancato riscontro della consistenza fisica dei beni corrispondenti all’affermato plusvalore di Euro 1.700.000 viene, tuttavia, ricollegato -come emerge dalla lettura della frase appena riportata della pronuncia impugnata -alla mancanza di indicazioni concrete e plausibili da parte del contribuente stesso, cioè del soggetto a cui carico è posto l’onere della prova ad opera dell’art. 4, comma 2, d.P.R. n. 441 del 1997, correttamente e non falsamente applicato dal giudice di seconde cure nella sentenza impugnata. Difatti, proprio nel periodo immediatamente successivo a quello appena trascritto della sentenza impugnata (evocato dalla stessa
parte ricorrente a fondamento della pretesa contraddittorietà della motivazione) la CTR introduce il tema delle presunzioni di acquisto o di cessione disciplinate nell’art. 4 d.P.R. n. 441 del 1997, tra le quali rientra quella tra le differenze quantitative tra risultanze delle scritture ausiliarie e consistenza delle rimanenze registrate. Non vi è, pertanto, alcuna contraddittorietà nella decisione impugnata che, preso atto, della registrazione contabile dell’importo contabile nella contabilità di Euro 1.700.000 e della mancanza di indicazioni concrete in relazione ai beni per i quali era riferito un plusvalore, non ha potuto fare altro che applicare i principi in materia ripartizione dell’onere della prova scolpiti nell’art. 4 d.P.R. n. 441 del 1997.
10. Sono pertanto infondati anche il secondo motivo (incentrato sulla violazione del d.P.R. n. 441 del 1997) e il terzo e il quarto motivo, incentrati sulla violazione degli artt. 2697 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ. e 7, comma 5-bis, d.lgs. n. 546 del 1992, considerato che la CGT ha fatto corretto uso, sia delle regole che disciplinano la ripartizione dell’onere della prova, sia delle regole processuali che disciplinano la valutazione delle prove da parte del giudice. Non emerge neppure, nel caso di specie, il preteso contrasto tra la disciplina sulle presunzioni in materia di cessioni e di acquisto contenuta nel d.P.R. n. 441 del 1997 e il principio di neutralità dell’IVA evocat o dalla parte ricorrente nel secondo motivo di ricorso e richiamato nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ., tenuto conto che, alla luce di quanto precisato dalla giurisprudenza europea (CGUE, 05/10/2016, C-576/15), il regime delle presunzioni è ancorato, nel caso di specie, a dati risultanti nelle scritture predisposte dallo stesso contribuente, il quale, ha peraltro giustificato le differenze quantitative in base a generiche esigenze di bilancio che non trovano alcun riscontro nella normativa civilistica e fiscale.
11. Il quinto motivo -incentrato sulla violazione dell’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 -è privo del requisito di specificità. La ricorrente afferma, infatti, a pag. 29 del ricorso: « Si è eccepito nel corso del processo la nullità dell’avviso di accertamento per inesistenza dei presupposti di applicabilità di tali disposizioni.
La Corte di Giustizia di Secondo Grado, nel ricordare tale circostanza nelle premesse in fatto della sua sentenza (si legge ivi che ‘a sostegno della domanda deducevano… errata applicazione… dell’art. 39, comma 2, lett. d) del D.P.R. n. 600 del 1973’), ha implicitamente (almeno così dovrebbe ritenersi) assorbito tale questione nell’ambito delle conclusioni da essa raggiunte. »
In realtà, la CGT nelle premesse in fatto in cui richiama l’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 ricostruisce il ricorso proposto dal ricorrente davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Viterbo. Non risulta, tuttavia, né dalla lettura della sentenza della CGT, né dall’illustrazione del sesto motivo di ricorso se e quando l’odierna parte ricorrente abbia reiterato la censura inerente alla violazione dell’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 davanti al giudice di secondo grado, tenuto conto anche di quanto prev isto nell’art. 56 d.l.gs. n. 546 del 1992 (« Le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono specificamente riproposte in appello, s’intendono rinunciate.» ).
12. Il sesto motivo -incentrato sull’omessa pronuncia ex art. 112 cod. proc. civ. è ammissibile, non risultando che la CTR si sia pronunciata sulla questione relativa all’applicazione della percentuale di ricarico pari all’11,1%, ma infondato.
12.1. Nell’illustrazione del motivo di ricorso, a pag. 32, la ricorrente richiama quanto riportato davanti al giudice di seconde cure in merito alla censura già proposta in primo grado: « Oltre all’ovvia censura del divieto di praesuntum de praesumpto, la Corte
di Cassazione, con la sentenza n. 16227 del 09.07.2010, attesa l’autonomia di ciascun periodo d’imposta, ha confermato l’orientamento secondo cui non sussiste, nell’ordinamento tributario, alcuna presunzione di supposizione di costanza di reddito, principio già affermato con le precedenti sentenze nn. 6579 e 27008 del 2008, rigettando il ricorso dell’AdE, ove l’Ufficio, in sede di accertamento induttivo ex art. 39, comma 2, del DPR n. 600/1973, aveva utilizzato, con riferimento ad un periodo d’imposta, dati relativi al periodo d’imposta successivo. Tale principio risulta recentemente confermato nell’ordinanza della Suprema Corte n. 7357 del 17.03.2020. Inoltre, nella suddetta sentenza del 2010 viene affermato il principio che incombe all’A. F. l’onere di provare la fondatezza dei dati relativi a periodi d’imposta differenti che si intendono utilizzare per procedere alle rettifiche di altre annualità. Nel caso di specie l’Ufficio dell’AdE si è limitato ad affermare che il criterio di computo della suddetta percentuale di ricarico appare del tutto condivisibile in quanto fondata sul ricarico minimo previsto dallo studio di settore presentato dalla società per l’anno immediatamente successivo, senza fornire alcun elemento probatorio idoneo a legittimare tale utilizzo, limitandosi a citare la sentenza della Corte di Cassazione n. 3984 del 15.02.2017, la cui pronuncia però ricorda che la giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato che in caso di omessa presentazione del prospetto analitico delle rimanenze iniziali e finali, l’Ufficio può procedere ad accertamento di tipo induttivo, attraverso una determinazione della percentuale di ricarico dei prezzi di vendita rispetto a quelli di acquisto, indicando la sentenza quali devono essere in generale le caratteristiche del campione di merci, la modalità di rilevazione della percentuale di ricarico e il criterio di computo della percentuale di
ricarico del campione, senza affrontare il principio di autonomia di ciascun periodo d’imposta.
Peraltro, la sentenza si riferisce al caso di ‘omessa presentazione del prospetto analitico delle rimanenze iniziali e finali’, che non sussiste affatto nel caso de quo ».
Tale contestazione è, tuttavia, infondata: nonostante l’omessa pronuncia ad opera della CTR è possibile procedere alla sola correzione della motivazione della sentenza impugnata. Difatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte non è affatto esclusa la possibilità di impiegare le percentuali di ricarico (anche) in annualità diverse a quelle cui si riferiscono. È stato infatti precisato che: « In tema di accertamento analitico induttivo ex art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, le percentuali di ricarico, accertate con riferimento ad un determinato anno fiscale, costituiscono validi elementi indiziari, da utilizzare secondo i criteri di razionalità e prudenza per il calcolo della percentuale media sulla base delle fatture prodotte, atteso che lo stesso contribuente le ritiene rappresentative della propria attività commerciale, al fine di ricostruire i dati corrispondenti relativi ad anni precedenti o successivi, e che in base all’esperienza, non si tratta di una variabile occasionale, restando il contribuente il soggetto più vicino al soddisfacimento dell’onere della prova ex art. 2697 c.c. ai fini della dimostrazione di eventuali mutamenti del mercato o della propria attività che possano giustificare in altri periodi di imposta l’applicazione di percentuali diverse. » (Cass., 12/04/2022, n. 11717).
13. Alla luce di quanto sin qui evidenziato il ricorso è infondato e deve essere rigettato, con la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente.
Nessuna interferenza con la decisione assunta può attribuirsi al provvedimento del GIP presso il Tribunale di Viterbo di archiviazione di un procedimento penale relativo ‘alla questione qui in esame’, di cui i ricorrenti si limitano a dare atto nella memoria senza nemmeno allegare il relativo provvedimento. Né vi è necessità di alcun rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea, sollecitato nella citata memoria, giacché la questione trattata e la disposizione che qui viene in rilievo non pone alcun profilo di lesione del principio di neutralità dell’IVA, di cui invece dubitano i ricorrenti.
P.Q.M.
rigetta il ricorso;
condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.700,00 compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo un ificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 22/10/2024.