Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 2366 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 2366 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 31/01/2025
SENTENZA
Sul ricorso n. 7309-2020, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato , che la rappresenta e difende –
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione , in persona del legale rappresentante, c.f. 10221811002 –
Intimata
Avverso la sentenza n. 7713/16/2018 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata l’ 8.11.2018;
udita la relazione della causa svolta nell’ adunanza camerale del 22 ottobre 2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
sentite le conclusioni della Procura Generale, nella persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
sentite le conclusioni rese dalle parti presenti;
Accertamento –
Sopravvenienze – Richiesta di
documenti durante la verifica
– Inottemperanza – Effetti
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza impugnata e dal ricorso si evince che , all’esito di una verifica eseguita nei confronti della RAGIONE_SOCIALE per l’anno d’imposta 2010, l’Agenzia delle entrate notificò un avviso d’accertamento con cui rideterminò l’Ires, l’Iva e l’Irap dovute dalla società. L’atto impositivo, che aveva recuperato anche altri importi qui non più in contestazione, per quanto ancora di interesse era principalmente imperniato sul riscontro di un saldo d’apertura dell’anno 2010 di € 1.236.725,62 . Tale saldo era stato ricondotto dalla contribuente ad operazioni di versamenti infruttiferi eseguiti nell’anno 2009 dai soci a favore della compagine sociale. Secondo la prospettazione erariale invece, trattandosi di somme non altrimenti giustificate in fase di verifica, nonostante la formalizzata richiesta di esibizione di documentazione a ciò idonea, dovevano collocarsi tra le sopravvenienze attive e a tal fine erano state recuperate ad imponibile.
La società impugnò l’avviso d’accertamento dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma. Con sentenza n. 18621/04/2017 il giudice di primo grado accolse parzialmente il ricorso della società. Nello specifico, riconobbe l’assenza di tracciabilità della provenienza della somma complessiva, così che la qualificazione erariale tra le sopravvenienze attive doveva ritenersi corretta. Limitò tuttavia il recupero ad imponibile dei soli importi che risultavano restituiti ai soci nel 2010, ossia € 113.640, 00, riconoscendo solo entro tali limiti quanto distribuito ai soci, derivante dal complessivo fittizio finanziamento.
Ciascuna delle parti, per quanto soccombente, impugnò la decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che con sentenza n. 7713/16/2018 accolse le doglianze della contribuente e rigettò quelle dell’erario.
Il giudice regionale ha ritenuto erronea la prospettazione difensiva dell’ufficio , affermando che non vi era mai stato uno specifico invito alla esibizione di documentazione da parte dei verificatori, così che infondata era l’eccezione erariale di divieto di esibizione di documentazione in sede contenziosa da parte della contribuente. Di contro, doveva ritenersi fondata l’impugnazione della sentenza proposta dalla società avverso la statuizione del giudice di primo grado, che aveva ritenuto corretta la qualificazione
RGN 7309/2020
erariale del saldo inziale annuale come sopravvenienza attiva. A tal fine il collegio d’appello ha apprezzato la ricostruzione offerta dalla difesa della società, secondo la quale i finanziamenti offerti dalla ampliata compagine sociale si erano resi necessari a costituire un flusso di cassa adeguato ad avviare l’acquisto di materie prime per lo svolgimento dell’attività commerciale. Ha pertanto riconosciuto l’intera posta passiva, corrispondente al finanziamento eseguito dai soci, con l’effetto di respingere l’appello dell’ufficio ed accogliere integralmente quello della contribuente.
L’Agenzia delle entrate ha chiesto la cassazione della sentenza sulla base di due motivi. La società, cui risulta ritualmente eseguita la notifica del ricorso, è rimasta intimata.
All’udienza pubblica del 22 ottobre 2024, dopo la discussione, la Procura generale e la parte presente ha concluso, e la causa è stata riservata in decisione.
RAGIONI DELLA DECISIONE
L’Agenzia delle entrate con l’unico motivo ha denunciato la «Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 115 c.p.c., dell’art. 116 c.p.c, per travisamento della prova e conseguente violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32 del D.P.R. n. 600/73 in relazione all’art. 360 comma 1, n. 3) c.p.c.». La Commissione regionale avrebbe erroneamente respinto l’appello principale ed accolto quello incidentale della contribuente sulla base di documentazione -segnatamente di 2 mandati fiduciari di gestione di quote sociali- prodotta dalla società solo nel giudizio in secondo grado; tale documentazione, anzi, secondo la difesa erariale, non avrebbe potuto essere depositata neppure in primo grado, perché, nonostante i verificatori, in sede di verifica, avessero formalizzato una specifica richiesta di esibizione di pezze giustificative a conforto della tracciabilità dei finanziamenti, l’invito non era stato ottemperato dalla contribuente.
Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.
Quanto all’invocato travisamento della prova, questa Corte ha affermato che il travisamento del contenuto oggettivo della prova – che ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio – trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, laddove ricorrano i presupposti richiesti dall’art. 395, n. 4, c.p.c., mentre –
se il fatto probatorio ha costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare e, cioè, se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti – il vizio va fatto valere ai sensi dell’art. 360, n. 4, o n. 5, c.p.c., a seconda che si tratti di fatto processuale o sostanziale (Sez. U, 5 marzo 2024, n. 5792). Quanto alla violazione dell’art. 115 cod. proc. civ., a fondamento del principio dispositivo della prova, per invocare l’errore in cui il giudice si a incorso nella individuazione del materiale oggetto delle sue valutazioni è necessario che questi, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (ex multis, da ultimo, cfr. Cass., 15 ottobre 2024, n. 26739).
Neppure è pertinente il richiamo all’art. 116 cod. proc. civ., atteso che la censura relativa alla violazione e falsa applicazione de ll’ar t. 116 cod. proc. civ. non può proporsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia disatteso delle prove legali, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass., 1 marzo 2022, n. 6774; 17 gennaio 2019, n. 1229).
Si tratta in ogni caso di un motivo infondato, laddove la ricorrente insiste nel denunciare che le statuizioni della commissione regionale, di rigetto del ricorso principale erariale e di accoglimento del ricorso incidentale del contribuente, sarebbero state fondate su documentazione che la società aveva prodotto nel giudizio di secondo grado, laddove tale documentazione non avrebbe potuto essere introdotta nel processo neppure in primo grado, per l’intervenuta preclusione processuale dovuta alla omessa pro duzione di documenti in sede di verifica, durante la quale gli accertatori avevano formalizzato una richiesta di esibizione di documentazione, cui però la società non aveva inteso dare seguito. Preclusione processuale prevista dall’art. 32, comma 4, d.P.R. 29 settembre 1973, vigente ratione temporis .
Deve infatti rammentarsi che la preclusione processuale prescritta dalla norma appena richiamata richiede la prova degli adempimenti formali posti a carico dell’ufficio. Questo, sia che essa derivi da un formale invito dell’ufficio, cui il contribuente non abbia inteso adempiere , non dando corso
alla produzione dei documenti richiesti, sia che essa derivi da un invito formulato anche solo oralmente in occasione del compimento di operazioni di verifica, mediante accesso o ispezioni, purché risultante dal processo verbale redatto dai verificatori, da cui emerga che al contribuente siano stati richiesti specifici documenti e che nei suoi confronti sia stato indirizzato l’avvertimento secondo il quale, in ipotesi di omessa esibizione della documentazione richiesta, questa non potrebbe più essere prodotta in giudizio (art. 32 comma 4 cit.).
Infatti, costituisce giurisprudenza consolidata quella secondo cui la mancata formulazione dell’avvertimento con il quale l’ufficio porta a conoscenza il contribuente delle conseguenze del fatto che, ove non esibita la documentazione richiesta, questa non possa essere utilizzabile in sede contenziosa, impedisce l’insorgenza della preclusione processuale al deposito di documentazione.
Nel caso di specie, a fronte delle considerazioni formulate dal giudice regionale, secondo il quale l’amministrazione finanziaria non aveva mai formulato un invito ad esibire documentazione, la diversa ricostruzione offerta dall’ufficio è carente proprio di tale prova. La difesa erariale cioè, avrebbe dovuto riportare in ricorso, anche mediante estratto dei passaggi del processo verbale, non solo l’elencazione dei documenti, nonché i termini e le modalità con i quali la richiesta di esibizione della documentazione era stata indirizzata alla contribuente, ma anche l’avvertenza che, nell’ipotesi di omesso adempimento all’invito, non sarebbe più stato possibile allegare al processo quella documentazione.
Questo non emerge invece dal ricorso. Dalla lettura del passaggio del processo verbale, riportato nell’atto introduttivo del presente giudizio e afferente la richiesta di documentazione, si evidenzia che l’ufficio ebbe a richiedere documentazione in occasione dell’instaurazione del contraddittorio in sede di verifica, ma risulta altrettanto chiaro che non fu formulata la dovuta avvertenza delle conseguenze processuali per l’ipotesi di mancata osservanza all’invito .
Così la censura, elevata dall’ufficio in ordine alla inutilizzabilità della documentazione sulla quale il giudice regionale ha invece fondato le proprie statuizioni, si svuota del suo contenuto e della sua pertinenza al caso di specie. Il motivo va pertanto rigettato.
Con il secondo motivo la ricorrente si duole della «illegittimità della sentenza oggetto della presente proposta di ricorso in Cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», in elazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
L’ufficio sostiene che la documentazione comunque esibita in giudizio non era comunque sufficiente ad assolvere gli oneri probatori a carico della società contribuente.
Premesso che il giudice regionale ha fondato la sua decisione sulla valorizzazione di mandati fiduciari affidati ai soci della RAGIONE_SOCIALE da parte del COGNOME NOME, così che il ragionamento operato in sentenza è supportato con argomentazioni logiche e documentalmente riscontrabili, il motivo è in ogni caso inammissibile.
A tal fine è sufficiente ribadire che alla sentenza, pubblicata l’8.11.2018, trova applicazione la formulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ., che, introdotta dell’art. 54, primo comma, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito della legge 7 agosto 2012, n. 134, è entrata in vigore dal giorno 11 settembre 2012 e dunque anteriormente alla pubblicazione della sentenza impugnata. Pertanto nel ricorso per cassazione non sono più ammissibili le censure per contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., individuabile nelle ipotesi che si convertono in violazione dell’art. 132, secondo comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza, e al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; 20/11/2015, n. 23828; 12/10/2017, n. 23940). Con la nuova formulazione del n. 5 dunque lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia. Ne deriva che il mancato esame di elementi istruttori non integra di per sé il fatto decisivo, qualora il fatto storico,
rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Si è più nello specifico affermato che la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito il quale non è tenuto a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie sempreché la o le risultanze non considerate partitamente non siano tali da condurre ad una diversa decisione – dovendo solo fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti.
Nel caso in esame con il motivo si pretende in realtà una rivalutazione di elementi di fatto già vagliati dal giudice d’appello, ciò che proprio esula dalla nuova formulazione del vizio di motivazione. Anche il secondo risulta pertanto infondato.
In definitiva il ricorso va rigettato.
Non avendo resistito la società, nulla deve liquidarsi in ordine alle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2024