Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 4702 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 4702 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso nr. 28820-2022 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocato NOME COGNOME giusta procura speciale allegata al ricorso
-controricorrente-
avverso la sentenza n. 3628/2022 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA LOMBARDIA, depositata il 23/09/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 29/1/2025 dal Consigliere Relatore Dott.ssa NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Agenzia delle entrate propone ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione tributaria regionale della Lombardia aveva respinto l’appello erariale avverso la sentenza n.
, in accoglimento del ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE avverso avviso di liquidazione relativo ad imposta di registro per atti giudiziari con riguardo a decreto di omologa fallimentare della società RAGIONE_SOCIALE
La contribuente resiste con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c., violazione degli articoli 21, commi 2 e 3, d.P.R. 26/4/1986 n. 131 e degli artt. 2 e 7, comma 4, d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 per avere la Commissione tributaria regionale omesso di rideterminare l’imposta dovuta sulla base dei principi di diritto dalla stessa affermati.
1.2. La doglianza è infondata.
1.3. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza impugnata, ha annullato l’atto impositivo affermando che, in tema d’imposta di registro, al decreto di omologa del concordato fallimentare, con intervento di terzo assuntore, deve essere applicato il criterio di tassazione correlato all’art. 8, lett. a), della Tariffa, Parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, con commisurazione dell’imposta in misura proporzionale al valore dei beni e dei diritti fallimentari trasferiti e con esclusione, dalla base imponibile, del contestuale accollo dei debiti collegato a detta cessione dei beni fallimentari.
1.4. I giudici d’appello hanno poi affermato, sul rilievo che dalla parte motiva dell’avviso di accertamento «emerge(va)… l’avvenuta liquidazione dell’imposta in parola esclusivamente sull’atto di accollo», che «l’assenza,
nelle conclusioni dell’Ufficio, di apposita domanda tesa alla riliquidazione dell’imposta di registro, in relazione “alla cessione alla predetta società dell’attivo residuo della procedura” preclude al Giudice Tributario di estendere a questo aspetto il tema d’indagine».
1.5. L’avviso di accertamento, trascritto in parte qua nel ricorso, riporta, effettivamente, quanto segue: «Imposta principale di registro per atti giudiziari. Artt. 37, 41 del D.P.R. 131/1986 e 8 della relativa Tariffa parte I. Decreto di omologa del concordato RAGIONE_SOCIALE La proposta concordataria prevede: 1) l’impegno assunto dalla società proponente a soddisfare il fabbisogno concordatario mediante accollo per l’importo di euro 14.808.097,14; 2) la cessione alla predetta società dell’attivo residuo della procedura. Trattandosi di due disposizioni connesse da un vincolo di derivazione necessaria ai sensi e per gli effetti dell’art. 21, co. 2, D.P.R. n. 131/1986, si liquida l’imposta esclusivamente in relazione all’accollo in quanto disposizione che dà luogo all’imposta maggiore … Pertanto è dovuta l’imposta di euro 444.243,00 pari al 3% di 14.808.097,14 (art. 9 Tariffa Parte prima d.p.r. 131/1986)».
1.6. È d’uopo , dunque, evidenziare che il giudizio tributario non si connota come un giudizio di «impugnazione annullamento», bensì come un giudizio di «impugnazione-merito», in quanto non è finalizzato soltanto ad eliminare l’atto impugnato, ma è diretto alla pronuncia di una decisione di merito sul rapporto tributario, sostitutiva dell’accertamento dell’Amministrazione finanziaria, previa quantificazione della pretesa erariale, peraltro entro i limiti posti, da un lato, dalle ragioni di fatto e di diritto esposte nell’atto impositivo impugnato e, dall’altro lato, dagli specifici motivi dedotti nel ricorso introduttivo del contribuente (cfr. Cass. nn. 23714 del 2019, 22400 del 2014, 21759 del 2011).
1.7. L’operazione di rideterminazione della corretta entità del tributo non può, infatti, avvenire sulla base di un inesistente potere di equità sostitutiva, ma, in applicazione della regola generale della pronuncia secondo diritto, deve essere corredata da una motivazione contenente l’esposizione delle circostanze di fatto, desunte dalle risultanze probatorie
in atti, e delle ragioni di diritto poste alla base della rideterminazione dell’imponibile (cfr. Cass. n. 10658 del 2019; Cass. n. 13294 del 2016).
1.8. In altri termini, il Giudice tributario deve procedere a siffatta rideterminazione pur sempre entro i limiti posti dal petitum delle parti, costituenti un limite invalicabile ai poteri cognitivi ed estimativi del Giudice tributario (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 21759 del 2011, 10779 del 2007, 11212 del 2006, 28770 del 2005, 3309 del 2004).
1.9. La connotazione di tale giudizio come «impugnazione» comporta in ogni caso il vincolo del giudice ai motivi di censura dell’atto impugnato fatti valere dalla parte.
1.10. Il riferimento al «merito», che connota tale tipo di impugnazione, non può essere inteso, dunque, nel senso di una sostituzione piena del Giudice tributario all’Amministrazione, con potere di diretta riforma degli atti impugnati, come accade nel processo amministrativo di merito, ma solo come necessaria indagine sul rapporto tributario – evitando, in tal modo, una decisione meramente rescindente limitata, però, al riscontro della consistenza della pretesa erariale, nei limiti delle censure mosse dalla parte all’atto impugnato e della pretesa esposta dall’Ufficio nell’atto impositivo impugnato.
1.11. In tema di contenzioso tributario, questa Corte, con riguardo alle imposte sui redditi ha, peraltro, già affermato che la decisione del Giudice che rettifichi il reddito così come determinato nell’atto di accertamento impugnato, a fronte della richiesta del contribuente di annullamento dell’atto impositivo per motivi non formali, ma sostanziali, non è affetta da vizio di ultrapetizione qualora il giudice si ponga all’interno del perimetro tracciato dall’atto di accertamento, mentre resta preclusa la rideterminazione del reddito con metodo diverso da quello usato dall’Amministrazione finanziaria (cfr. Cass. n. 22400 del 2014).
1.12. Da quanto sin qui esposto si trae, quindi, il principio a carattere generale secondo cui il giudice tributario, nell’emettere una decisione di merito sul rapporto tributario, è sempre tenuto a porsi all’interno del perimetro tracciato dall’atto di accertamento dell’Amministrazione.
1.13. Nella fattispecie, l’avere l’Amministrazione liquidato l’imposta «esclusivamente in relazione all’accollo», impediva pertanto al Giudice tributario di rideterminare la pretesa tributaria, incorrendo, in caso contrario, nel divieto di mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, atteso che la liquidazione con il diverso metodo basato sul valore dei beni e dei diritti fallimentari trasferiti avrebbe modificato l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia, in modo da porre in essere, in definitiva, una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere nei confronti della parte contribuente.
2.1. Con il secondo motivo l’Agenzia denuncia, in rubrica, «violazione dell’art. 96, terzo comma del codice di procedura civile … ai sensi dell’articolo 360, primo comma, n. 4), del codice di procedura civile» per avere la Commissione tributaria regionale condannato l’Ufficio alla condanna aggravata delle spese ex art. 96, terzo comma, c.p.c. cit. senza «effettuare la … necessaria comparazione tra il caso di specie e il possibile abuso del processo».
2.2. La doglianza è infondata.
2.3. La Commissione tributaria regionale ha affermato quanto segue:«… nella specie sussist…(o)…no i presupposti della responsabilità aggravata in capo all’appellante, a norma dell’art. 96, 3° comma c.p.c., per aver essa proposto un ricorso fondato su argomentazioni palesemente inammissibili e per non avere la stessa ricorrente ponderato, con maggiore consapevolezza, l’infondatezza e la evidente pretestuosità delle argomentazioni dedotte a sostegno del ricorso. Per questo motivo, condanna l’appellante al pagamento di € 5.000».
2.4. In punto di diritto occorre, dunque, evidenziare che la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c. deve giungere all’esito di un accertamento che il giudicante è chiamato a compiere caso per caso, anche tenendo conto della fase in cui si trova il giudizio e del comportamento complessivo della parte soccombente, onde verificare se essa abbia esercitato le sue prerogative processuali in modo abusivo, cioè senza tener conto degli interessi confliggenti in gioco, sacrificandoli ingiustificatamente o sproporzionatamente in relazione all’utilità
effettivamente conseguibile; detto abuso del processo non richiede che il Giudice indaghi, nel senso che normalmente si attribuisce a tale espressione, l’eventuale riprovevolezza del comportamento del soggetto agente, ma non lo esonera dalla necessità di ricavare detta riprovevolezza in termini oggettivi dagli atti del processo perché la colpa o il dolo rilevanti sono quelli che si manifestano proprio attraverso il compimento dei suddetti atti processuali o attraverso l’adozione di certe condotte processuali e non sono percepibili separatamente da essi, dovendo escludersi, pertanto, che il giudizio sull’antigiuridicità della condotta processuale possa farsi derivare automaticamente dal rigetto della domanda o dall’inammissibilità o dall’infondatezza dell’impugnazione, atteso che l’esercizio delle prerogative processuali, costituendo esplicazione del diritto costituzionalmente garantito del diritto di azione e di difesa, merita la sanzione di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. quando il suo concreto atteggiarsi, nonostante il rispetto in senso stretto della legge processuale, a seguito di una indefettibile valutazione secondo correttezza, si connoti in concreto in termini di antigiuridicità, dovendo il Giudice, pur potendo attingere elementi di valutazione dall’assunzione di comportamenti processuali sleali, tener conto che il comportamento scorretto non coincide con quello processualmente non leale, essendo la correttezza un parametro di valutazione esclusivamente giuridico ed ex ante imposto all’agente (cfr. Cass. n. 26545 del 2021).
2.5. In particolare, l’approdo di tale diverso approccio è ben compendiato da Cass., Sez. Un., n. 9912/2018, che ha condivisibilmente affermato che «la responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., a differenza di quella di cui ai primi due commi della medesima norma, non richiede la domanda di parte né la prova del danno, ma esige pur sempre, sul piano soggettivo, la mala fede o la colpa grave della parte soccombente, sussistente nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate; peraltro, sia la
mala fede che la colpa grave devono coinvolgere l’esercizio dell’azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l’abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, come nel caso di pretestuosità dell’azione per contrarietà al diritto vivente ed alla giurisprudenza consolidata, ovvero per la manifesta inconsistenza giuridica o la palese e strumentale infondatezza dei motivi di impugnazione».
2.6. Tale principio di diritto è stato correttamente applicato dal giudice di appello, laddove ha affermato la responsabilità aggravata dell’Ufficio , atteso che dalla ricognizione del ricorrente e dalla sentenza impugnata emerge che l’appellante aveva insistito colpevolmente in tesi giuridiche già reputate infondate non solo dal primo Giudice, ma anche dalla giurisprudenza conforme e consolidata di questa Corte sin dal 2018 (cfr. Cass. n. 3286 del 2018 e succ. conformi), ovvero in censure della sentenza di primo grado la cui inconsistenza giuridica avrebbe potuto essere apprezzata dall’appellante in modo da evitare il gravame (cfr. sul punto Cass. n. 34693 del 2022), tenendo peraltro anche conto che, come riportato dalla controricorrente e non contestato dall’Ufficio, l’atto impugnato era stato «emesso in difformità dell’interpello reso alla contribuente in una fattispecie corrispondente e mai revocato» (cfr. pag. 3 ricorso in cassazione).
2.7. Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la sentenza impugnata non risulta, dunque, inficiata da alcun errore di diritto, atteso che la temerarietà della lite può essere in concreto ravvisata dal giudice di merito (con valutazione in fatto insindacabile in sede di legittimità), oltre che nella coscienza dell’infondatezza della domanda (mala fede), anche nella carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta coscienza (colpa grave), come nel caso in esame.
In conclusione, il ricorso va integralmente respinto.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo sulla base del valore della controversia e dell’attività difensiva spiegata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna l’ufficio al pagamento delle spese di lite che liquida in Euro 6.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, se dovuti.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, tenutasi in modalità