Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 16696 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 16696 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 23/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 20341/2020, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale è domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione
-intimata – avverso la sentenza n. 9/2020 della Commissione tributaria regionale della Liguria, depositata il 10 gennaio 2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 maggio 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Il 5 aprile 2011 l’Agenzia delle entrate notificò ad RAGIONE_SOCIALE in liquidazione un avviso di accertamento a rettifica del reddito, in relazione a ritenute alla fonte non operate e non versate pari ad € 108.563,00.
L’avviso traeva origine da precedente atto impositivo notificato alla società il 10 marzo 2011, relativo ad Ires per l’anno d’imposta 2008, scaturente dal rilievo di una plusvalenza di € 1.930.000,00 -corrispondente alla differenza fra il valore della partecipazione nella società RAGIONE_SOCIALE pari ad € 2.000.000,00, e il corrispettivo di cessione, pari ad € 70.000,00 sulla quale non si applicava il beneficio della participation exemption per carenza del requisito richiesto dall’art. 87, comma 1, lett. d ), del TUIR, poiché la società partecipante non svolgeva attività commerciale.
Da tale circostanza discendeva l’obbligo della società di operare la ritenuta del 12,50% a titolo d’imposta sugli utili corrisposti alle persone fisiche in relazione a partecipazioni non qualificate, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 600/1973.
L’atto impositivo fu impugnato dalla società innanzi alla Commissione tributaria provinciale della Spezia, che ne riconobbe parzialmente le ragioni, ritenendo legittima la pretesa erariale, in quanto fondata sulla sussistenza di un’ipotesi di abuso del diritto, ma non ravvisando, al contempo, elementi sufficienti per formulare tale ipotesi.
La pronunzia di primo grado fu oggetto di appello principale dell’Amministrazione e di appello incidentale della società, entrambi disattesi dalla C.T.R. della Liguria.
I giudici regionali richiamarono, al riguardo, la decisione da loro stessi in pari data nel contenzioso concernente l’atto impositivo presupposto, concernente la maggiore Ires per la stessa annualità.
La sentenza d’appello è stata impugnata dall’Agenzia delle entrate con ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
La società contribuente è rimasta intimata.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso, l’Amministrazione denunzia nullità della sentenza per violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992.
Assume, al riguardo, che la sentenza impugnata sarebbe sorretta da motivazione contraddittoria.
I giudici regionali, infatti, per un verso avrebbero dichiarato di condividere nel merito la sentenza di primo grado sottoposta alla loro cognizione (laddove hanno affermato che « la sentenza di primo grado è stata correttamente motivata e le considerazioni espresse sono da condividersi ») e, per altro verso, avrebbero escluso di potersi pronunziare sul merito della vicenda, connettendo effetto di giudicato sostanziale alla sentenza da loro stessi resa sull’atto presupposto (laddove hanno affermato che « tale decisione comporta la conferma anche della sentenza impugnata con il presente giudizio »).
Con il secondo motivo è dedotta nullità della sentenza per violazione degli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ., nonché dell’art. 101 Cost.
La censura, dichiaratamente formulata « per il caso in cui la Corte non ritenesse sussistente un contrasto fra le affermazioni della CTR ma reputasse che la CTR si sia astenuta dal rendere una pronunzia di merito », denunzia un errore in cui sarebbero incorsi i giudici d’appello
nel ritenere sussistente un giudicato sull’infondatezza della pretesa erariale.
Con il terzo motivo, infine, l’Amministrazione denunzia violazione o falsa applicazione dell’art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 600/1973.
Secondo l’Agenzia delle entrate, i giudici regionali avrebbero errato nel ritenere insussistente la contestata ipotesi di abuso, posta a monte del l’ obbligo di ritenuta; al contrario, la ricostruzione dell’operazione posta in essere dalla società evidenziava la sussistenza di una plusvalenza « non realizzata, in quanto trasferita ai soci e pertanto idonea a concorrere alla formazione del reddito ».
I primi due motivi, meritevoli di scrutinio congiunto per la loro connessione, non sono fondati.
La sentenza impugnata ha infatti condiviso, nel merito, il contenuto della decisione n. 8/2020, contestualmente resa dagli stessi giudici, che ha ritenuto infondata la pretesa erariale posta a monte dell’accertamento qui in scrutinio.
Il richiamo a tale decisione, evidentemente ben nota alle parti in ragione della contestualità dei giudizi, soddisfa il requisito di sufficiente motivazione della sentenza, perché non si risolve in un’acritica adesione alla pronunzia richiamata (cfr. Cass. n. 21443/2022); né sussiste il denunziato profilo di contraddittorietà, perché l’affermazione secondo cui la prima decisione avrebbe « comportato la conferma della sentenza impugnata nel presente giudizio », lungi dall’attribuire alla stessa efficacia di giudicato, vale a richiamarne le ragioni come idonee a sostenere anche la statuizione sull’atto impositivo derivato.
È invece fondato il terzo motivo, con il quale, nella sostanza, la ricorrente denunzia l’erroneità nel merito della sentenza -presupposto.
5.1. L’art. 86, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 917/1986 prevede che le plusvalenze dei beni relativi all’impresa concorrono a formare il reddito «se i beni vengono assegnati ai soci o destinati a finalità estranee all’esercizio dell’impresa ».
Il successivo comma 3 specifica poi che in tale ipotesi «la plusvalenza è costituita dalla differenza tra il valore normale e il costo non ammortizzato dei beni».
5.2. Secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, la previsione in oggetto costituisce una norma di chiusura di carattere antielusivo volta ad impedire lo spostamento di massa imponibile dall’area della imposizione naturale ( che è quella della società che possiede i beni) a soggetti terzi (così, fra le altre, Cass. n. 27540/2021; Cass. n. 15753/2020).
Le plusvalenze patrimoniali, in questo caso, si riferiscono ad una componente del reddito di impresa distinta dai ricavi, e costituita, nella maggior parte delle ipotesi, da immobilizzazioni materiali (strumentali o meno al l’esercizio dell’impresa ), la cui destinazione assume rilevanza fiscale in ragione di esigenze di cautela fiscale, cioè per la necessità di impedire che, mediante tale destinazione, una parte dei beni venga sottratta alla formazione del reddito di impresa e al pagamento delle imposte dovute.
In tal senso, significativamente, la stessa giurisprudenza ha precisato (si veda, ad esempio, la prima delle decisioni più sopra richiamate), che spetta al contribuente dimostrare che la destinazione impressa al bene assolveva a finalità diverse da tale scopo sottrattivo.
5.3. Il quadro fattuale pacifico, riportato dall’Agenzia delle entrate nel ricorso, appare in sé indicativo del perseguimento di tale finalità.
I fatti contestati alla società, infatti, consistevano nel rilievo della cessione da parte sua, con contestuali atti pubblici del 26 giugno 2008, delle quote di partecipazione per l’intero capitale sociale di RAGIONE_SOCIALE, agli stessi soggetti che ne costituivano la compagine sociale ovvero a soggetti legati a costoro da stretto vincolo parentale.
La cessione delle quote si era realizzata per un prezzo complessivo di € 70.000,00, mentre il valore normale attribuibile all’intera partecipazione oggetto di cessione ammontava a 2 milioni di euro per effetto della rivalutazione operata alla fine dell’esercizio 2008; tale importo corrispondeva al valore del patrimonio netto della società partecipata.
In tale quadro di accadimenti, risulta poi che dopo la notifica dell’atto impositivo alla partecipante, avvenuta il 10 marzo 2011, e segnatamente il 27 aprile successivo, l’assemblea dei soci approvò un nuovo bilancio relativo all’anno di imposta oggetto di accertamento, con eliminazione contabile della rivalutazione.
5.4. La sentenza impugnata non ha scrutinato tali circostanze alla luce dei principi ermeneutici ricavabili dalla giurisprudenza di questa Corte.
In particolare, i giudici d’appello hanno apoditticamente ritenuto che la svalutazione contabile successivamente operata fosse giustificata da «previsioni errate di operatività, non realizzatesi neppure a distanza di anni», senza tenere in considerazione il quadro complessivo dei fatti alla luce della finalità antielusiva della disposizione applicata.
Di conseguenza, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice a quo , affinché provveda al riesame della vicenda alla luce degli indicati principi, liquidando, altresì, le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso in relazione al terzo motivo, respinti i restanti; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Liguria.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte