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Perdite fiscali: no a nuove domande in appello

Una società di software, dopo aver lasciato un gruppo di consolidato fiscale con la sua controllante, si è vista negare la deduzione di significative perdite fiscali dall’Agenzia delle Entrate. La Corte di Cassazione ha confermato le decisioni dei tribunali di merito, respingendo il ricorso della società. La Corte ha ritenuto che la richiesta di utilizzare tali perdite, formulata per la prima volta in appello, costituisse una domanda nuova e quindi inammissibile. Inoltre, le contestazioni sulla prova dei costi alla base delle perdite sono state giudicate come una richiesta di riesame del merito, al di fuori della competenza della Suprema Corte.

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Pubblicato il 12 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Perdite fiscali: la Cassazione ribadisce il divieto di domande nuove in appello

Con una recente ordinanza, la Corte di Cassazione ha affrontato un caso complesso relativo alla gestione delle perdite fiscali a seguito dell’interruzione del regime del consolidato nazionale. La decisione sottolinea un principio processuale fondamentale: il divieto di presentare domande nuove nel giudizio di appello, cristallizzando la linea difensiva del contribuente al primo grado di giudizio.

I Fatti di Causa

Una società operante nel settore software aveva aderito per un triennio al regime del consolidato fiscale insieme alla sua società controllante. Al termine di questo periodo, il regime si è interrotto e le perdite fiscali accumulate e trasferite alla controllante negli anni precedenti sono state retrocesse alla società figlia.

Successivamente, a seguito di un’ispezione fiscale relativa all’anno 2007, l’Agenzia delle Entrate ha disconosciuto la deducibilità di perdite per circa 400.000 euro, contestando la mancanza di prova sulla loro consistenza, inerenza e riferibilità. La società ha impugnato l’atto di accertamento, ottenendo solo un parziale accoglimento in primo grado. La decisione è stata poi integralmente confermata in appello, spingendo la società a ricorrere in Cassazione.

L’Analisi delle censure e delle perdite fiscali

Il ricorso della contribuente si basava su cinque motivi principali. In sintesi, la società lamentava:
1. Una motivazione della sentenza d’appello meramente apparente (per relationem), poiché si sarebbe limitata a richiamare la decisione di primo grado.
2. L’erroneo rigetto della sua richiesta, formulata in via subordinata, di poter utilizzare le proprie perdite fiscali relative all’anno di imposta accertato.
3. La violazione delle norme sul consolidato fiscale in merito alla restituzione delle perdite.
4. L’errata valutazione delle prove fornite a sostegno della deducibilità dei costi.
5. La violazione delle regole sull’onere della prova in materia di competenza e inerenza dei costi.

Il punto cruciale della controversia verteva sulla possibilità per la società di modificare in appello la propria strategia difensiva, chiedendo di utilizzare le proprie perdite per abbattere il maggior reddito accertato, anziché limitarsi a contestare la legittimità della ripresa fiscale.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, fornendo importanti chiarimenti su ciascuno dei motivi sollevati.

In primo luogo, la Corte ha escluso il vizio di motivazione per relationem, osservando che i giudici d’appello non si erano limitati a un rinvio passivo, ma avevano sviluppato argomentazioni autonome e distinte, valutando criticamente la carenza probatoria da parte della contribuente.

Il cuore della decisione riguarda però il secondo e il quarto motivo. La Suprema Corte ha confermato la correttezza della sentenza di appello nel dichiarare inammissibile la richiesta di utilizzare le perdite fiscali residue. Tale richiesta, non essendo stata avanzata nel ricorso introduttivo di primo grado, configurava una domanda nuova, vietata in appello. La richiesta di un “accertamento in rettifica delle perdite” è sostanzialmente diversa dalla contestazione di un maggior reddito, rappresentando una inammissibile mutatio libelli. Il contribuente è vincolato dalle scelte imprenditoriali e processuali compiute inizialmente.

Infine, per quanto riguarda i motivi relativi alla prova dell’inerenza e competenza dei costi, la Corte li ha dichiarati inammissibili. Tali censure, infatti, miravano a ottenere una nuova valutazione del merito e delle prove, un’attività preclusa al giudice di legittimità. La Cassazione non può sostituire il proprio giudizio a quello dei tribunali di merito sull’apprezzamento dei fatti, ma solo verificare la corretta applicazione della legge.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame ribadisce con fermezza due principi cardine del contenzioso tributario. Il primo è il rigido rispetto delle preclusioni processuali: la linea difensiva deve essere definita chiaramente sin dal primo atto del giudizio e non può essere alterata nei gradi successivi. Il secondo principio è la centralità dell’onere probatorio a carico del contribuente, che deve essere in grado di documentare in modo inequivocabile la legittimità delle proprie deduzioni fin dalle prime fasi del contraddittorio con il Fisco. La sentenza serve da monito sulla necessità di una pianificazione attenta non solo delle strategie fiscali, come l’adesione al consolidato, ma anche delle strategie processuali in caso di contenzioso.

È possibile chiedere in appello di utilizzare le proprie perdite fiscali in modo diverso da quanto fatto in primo grado?
No, la Corte di Cassazione ha stabilito che una tale richiesta costituisce una “domanda nuova”, inammissibile in appello. La strategia difensiva deve essere delineata nel ricorso iniziale e non può essere modificata sostanzialmente nei gradi successivi.

La motivazione di una sentenza d’appello che si richiama a quella di primo grado è sempre valida?
Non necessariamente. È valida solo se il giudice d’appello non si limita a un mero rinvio, ma esamina i motivi di gravame, valuta criticamente la decisione di primo grado e sviluppa argomentazioni autonome e distinte a sostegno della propria decisione.

Cosa succede se un contribuente non riesce a provare l’inerenza e la competenza dei costi portati in deduzione?
L’onere della prova spetta al contribuente. Se non fornisce prove sufficienti a dimostrare che i costi sono inerenti all’attività d’impresa e di competenza dell’anno fiscale corretto, l’amministrazione finanziaria può legittimamente disconoscere la deduzione di tali costi e delle relative perdite fiscali.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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