Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 34224 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 34224 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 23/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9969/2016 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, DI COGNOME, COGNOME RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, COGNOME, domiciliati ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la RAGIONE_SOCIALE della CORTE di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della SICILIA-PALERMO n. 4071/2015 depositata il 28/09/2015. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 07/11/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
In punto di fatto, dalla sentenza epigrafata si evince quanto segue:
La RAGIONE_SOCIALE proponeva ricorso alla C.T.P. di Palermo avverso l’atto di contestazione n. CODICE_FISCALE/2011, con il quale erano state irrogate sanzioni per 31.540,00 euro per presunte irregolarità su acquisti da fornitori intracomunitari, chiedendone l’annullamento e, in subordine, dovute solo le sanzioni per irregolare compilazione dei modelli INTRA .
1.1. Il ricorso per cassazione (p. 4) specifica che la Direzione Provinciale di Palermo dell’Agenzia delle entrate contestava:
“la violazione dell’art. 47 del D.L. n. 331/93 per avere annotato nel registro di cui all’art. 25 del D.P.R. n. 633/72 fatture relative ad acquisti intracomunitari emesse da una ditta irlandese RAGIONE_SOCIALE con partita iva inesistente dall’1.6.2006, per un imponibile di € 1.023.220,00 con iva pari a € 204.644,00″;
l’ulteriore illecito consistente nella “presentazione inesatta di n. 2 elenchi intra 2 dei mesi di marzo e aprile 2007 in violazione dell’art. 50 6° comma del D.L. n. 331/93”;
ed infine la violazione consistente nella “presentazione con dati inesatti della dichiarazione annuale IVA relativa all’anno 2007 in violazione dell’art. 8 del D.P.R. n. 322/98”.
Tutte le violazioni sopra elencate deriverebbero dalla circostanza che la società ricorrente ha annotato nei registri IVA e poi ha riproposto anche nei modelli riepilogativi Intrastat e nella dichiarazione annuale i dati desumibili dalle fatture emesse dalla sopra citata società irlandese e, fra
questi, anche il numero di partita IVA indicato in seno a dette fatture, pur trattandosi di un numero che risultava “inesistente “, perché già cessato.
In ragione della presunta violazione sopra indicata sub a), l’Ufficio irrogava la sanzione pecuniaria unica di € 30.250,00, ai sensi dell’art. 6, commi 1, 4 e 5, del D.Lgs. n. 471/1997, “applicando l’art. 12 1° comma del D.Lgs. n. 472/97 trattandosi di diverse violazioni formali della identica disposizione” ed assumendo a tal fine, quale “violazione più grave”, quella riferibile alla “fattura di importo più rilevante” con una imposta “pari ad € 24.200,00” cui veniva applicato l’apposito “aumento del 25%” (€ 24.200,00 x 25% = € 6.050,00; € 24.200,00 + € 6.050,00 = € 30.250,00).
Poi, in relazione alle presunte violazioni sopra indicate sub b) e c), l’Ufficio irrogava le sanzioni pecuniarie di € 1.032,00 e di € 258,00, rispettivamente ai sensi dell’art. 11, comma 4, del D.Lgs. n. 471/1997 e dell’art. 8, comma 1, del medesimo decreto, in misura pari ai minimi edittali stabiliti da dette disposizioni sanzionatorie.
1.2. Riprendendo ora nuovamente dalla narrativa contenuta nella sentenza epigrafata:
Con sentenza n. 439/6/2011 del 14.11.2011, la C.T.P. rilevava che l’avviso di contestazione impugnato nasceva da una verifica dell’Agenzia delle Dogane, che aveva ritenuto irregolarmente registrate alcune fatture di una ditta olandese risultata con “partita IVA inesistente”; che la parte eccepiva: 1) la carenza di motivazione dell’atto perché non veniva contestato l’effettivo acquisto della merce ma che la società fosse priva di partita IVA, riprendendo quanto riportato nel PVC che, non essendo allegato non consentiva alla Commissione di valutare la correttezza della motivazione; 2) l’illegittimità per travisamento dei fatti poiché l’Agenzia aveva fatto proprio il contenuto del PVC senza alcuna analisi critica tanto da non avere considerato errore formale l’avere indicato nell’anno 2007 la partita IVA del 2006 successivamente modificata. Sul punto analizzava in particolare alcune fatture che, pur indicando il nuovo numero di partita IVA erano state incluse fra quelle classificate come partita inesistente. Rilevava inoltre che tutta la merce era stata importata via nave via nave e controllata con tutta la relativa documentazione dall’ufficio doganale di Palermo, il quale non aveva trovato nulla da rilevare, pur avendo, verosimilmente, controllato anche la partita IVA. Si era trattato quindi di una irregolarità formale, che avrebbe dovuto essere
sanzionata al massimo per 516 €. L’Agenzia delle Dogane aveva allegato alle proprie controdeduzioni copia del PVC . Riteneva la sentenza che la materia del contendere derivava dal fatto che la società dalla quale la parte ricorrente aveva acquistato la merce aveva, nel corso degli anni, modificato la propria partita IVA, mentre l’acquirente aveva continuato, per un certo periodo, ad indicare la partita IVA precedente anche nei modelli INTRA relativi agli acquisti effettuati da ditte residenti all’interno della Comunità Europea. Tale erronea indicazione aveva indotto l’Agenzia delle Dogane a ritenere inesistente l’azienda venditrice e ad infliggere, con l’avviso opposto, la sanzione correlata. Riteneva altresì non carente la motivazione dell’atto impugnato, in quanto la mancata allegazione del PVC, per costante giurisprudenza, non configurava, di per sé, assenza di motivazione. Nel merito, riteneva tuttavia che l’inesistenza dell’operazione era smentita dalla circostanza che la merce era stata realmente acquistata e sottoposta a tutti i controlli conseguenti alla importazione, così come evidenziato dalla parte ricorrente e non smentito dalla Agenzia. L’erronea indicazione della partita IVA non poteva pertanto essere considerata come “indicazione di partita IVA inesistente” ed integrava un errore di carattere meramente formale e non sostanziale, e come tale doveva essere sanzionato. In parziale accoglimento del ricorso, applicava quindi alla fattispecie la sanzione di € 516,00 .
Avverso la sentenza ha proposto appello l’Ufficio, deducendo che, contrariamente all’assunto espresso dai Giudici di prime cure, l’Agenzia delle Dogane si era limitata a rilevare un dato di fatto inconfutabile, ovvero che il numero di Partita Iva indicato in alcuni documenti di spesa risultava appartenere ad un soggetto passivo di imposta risultato essere cessato già dal giugno 2006. L’Agenzia delle Entrate, valutato l’atto istruttorio, aveva. contestato le sanzioni relative alle irregolarità riscontrate, senza in alcun modo dubitare della genuinità delle operazioni poste in essere, come pacificamente risultava da tutti gli atti di causa. In sostanza, la circostanza che la merce fosse stata realmente acquistata, ritenuta decisiva , era irrilevante . L’Ufficio aveva già applicato la sanzione di euro 516.00 per ciascuna violazione, prevista dall’art. 11 co. IV D.lgs. 471/1997 (irregolarità relative agli Intra). Tuttavia, l’annotazione di fattura irregolare nei registri Iva determinava anche l’applicazione della sanzione ex art. 6 D.lgs. 471/1997, inspiegabilmente e immotivatamente annullata dal collegio. La legittimità
nell’applicazione della sanzione de qua era stata invece riconosciuta dalla Cassazione nella sentenza n. 5368/2005 .
L’appello era accolto dalla CTR della Sicilia, con la sentenza epigrafata, sulla base della seguente motivazione:
‘accertamento impugnato non presuppone l’aver ritenuto da parte dell’Ufficio finanziario come fittizia l’operazione di importazione, ma semplicemente l’avere accertato la indicazione di una partita IVA inesistente. Ed infatti non sono state riprese a tassazione ai fini IVA le cessioni eseguite a favore dell’operatore comunitario del quale era stata indicata la partita IVA cessata, ma sono state applicate le sanzioni dovute. L’indicazione di una partita IVA inesistente comporta infatti non solo l’applicazione della sanzione di euro 516,00 prevista per le irregolarità formali, ma anche le conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 6 D.Lgs. 471/1997 per il caso di ‘annotazione di fattura irregolare nei registri IVA’.
Nel senso propugnato dall’appellante, si esprime la sentenza del Giudice di legittimità richiamata dall’Ufficio (Cass. n. 5268 del 10.3.2005) che, in tema di applicazione della norma più favorevole, ha riconosciuto applicabile la sanzione ex art. 6 D.Lgs. 471/1997 in luogo di quella prevista dall’art. 41 DPR 633/72, vigente ‘ratione temporis’, in presenza di acquisti di beni senza fattura o “con fattura irregolare”, ipotesi cui va ricondotto il caso in esame ‘.
Propongono ricorso per cassazione i contribuenti, come innanzi, con cinque motivi; resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Considerato che:
Preliminarmente deve dichiararsi inammissibile il ricorso proposto in proprio da COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, siccome non parti nel giudizio d’appello, indicando, invero, la sentenza impugnata, nel frontespizio, quale ‘controparte’ rispetto all’appello proposto dall’Agenzia, la sola ‘RAGIONE_SOCIALE.
Il rilievo d’ufficio dell’inammissibilità giustifica la compensazione delle spese.
Nondimeno detti ricorrenti sono tenuti al pagamento del cd. doppio contributo unificato.
Il ricorso può essere scrutinato in riferimento alla posizione di RAGIONE_SOCIALE
Primo motivo: ‘Nullità della sentenza perché resa ‘ultra petita’ e conseguente violazione dell’art. 112 del codice di procedura civile (art. 360, n. 4, c.p.c.)’.
3.1. a Commissione Tributaria Regionale di Palermo ha richiamato il precedente giurisprudenziale già citato dall’Ufficio in seno all’atto di appello ed in particolare la sentenza n. 5268 resa dalla Corte di Cassazione in data 10.3.2005 . La predetta sentenza n. 5268 del 10.3.2005, in particolare, si riferisce all’applicazione della norma sanzionatoria di cui all’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997 . l Giudice di appello, nel rinviare alla pronuncia della Corte di Cassazione sopra indicata, ha inteso segnalare che la società ricorrente, avendo ricevuto una fattura irregolare dal proprio fornitore irlandese, per l’irregolarità formale di cui si è detto, avrebbe dovuto procedere alla regolarizzazione e non alla semplice annotazione della stessa nei registri IVA. Non avendo regolarizzato, si renderebbe applicabile la norma sanzionatoria di cui all’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997. È ben evidente, tuttavia, che la suddetta norma sanzionatoria di cui all’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997, in ragione della quale la Commissione Tributaria Regionale di Palermo ha inteso confermare la pretesa espressa con l’atto di contestazione che ha dato origine alla presente controversia, non è quella applicata dall’Agenzia delle Entrate .
3.2. Il motivo è infondato.
Come emerge dal tenore letterale della sentenza impugnata, la citazione, da parte della CTR, di Cass. n. 5268 del 2005 è volta unicamente ad avvalorare – ‘nel senso propugnato dall’appellante’ – la tesi del concorso di previsioni sanzionatorie, pur in difetto di ripresa ai fini dell’IVA: i.e., nel senso che ‘l ‘indicazione di una partita IVA inesistente comporta non solo l’applicazione della sanzione di euro 516,00 prevista per le irregolarità formali, ma anche le conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 6 D.Lgs. 471/1997 per il caso di ‘annotazione di fattura irregolare nei registri IVA”.
In nessun modo, né esplicitamente né implicitamente, ha la CTR confermato ‘la pretesa espressa con l’atto di contestazione’ (come invece sostenuto nel motivo) ai sensi di una disposizione -quella dell’art. 6, comma 8, D.Lgs. n. 471 del 1997 mai evocata e men che meno valutata.
Ora, pacifico essendo -per riconoscerlo finanche la contribuente -che nell’atto di contestazione ‘l’Ufficio irrogava la sanzione pecuniaria unica di € 30.250,00, ai sensi dell’art. 6, commi 1, 4 e 5, del D.Lgs. n. 471/1997’ (p. 5 ric.), la CTR afferma -come visto ancora poc’anzi che ‘l’indicazione di una partita IVA inesistente comporta le conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 6 D.Lgs. 471/1997’.
Ciò dimostra alla lettera l’infondatezza del motivo.
Secondo motivo: ‘ Nullità della sentenza e del relativo procedimento per l’inammissibilità (non rilevata) dell’atto di appello in ragione della violazione dell’art. 57 del D.Lgs. n. 546/1992 (art. 360, n. 4, c.p.c.)’.
4.1. ‘In via subordinata rispetto al motivo sopra esposto, si rileva che la sentenza che si impugna è altresì nulla atteso che in essa la Commissione Tributaria Regionale non ha rilevato
l’inammissibilità dell’atto di appello proposto dall’Agenzia delle Entrate per violazione dell’art. 57 del D.Lgs. n. 546/1992. Nell’atto di appello, infatti , la Direzione Provinciale di Palermo dell’Agenzia delle Entrate, ha formulato la domanda di riforma della sentenza di primo grado richiamando esplicitamente il precedente giurisprudenziale poi fatto proprio dal Giudice di secondo grado’. ‘Qualora l’adesione a detta pronuncia della Suprema Corte ed alle argomentazioni in essa sviluppate palesino la formulazione di una domanda di conferma dell’atto di contestazione in virtù dell’applicazione dell’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997, sarebbe evidente, per le ragioni già esposte con rifermento al primo motivo di impugnazione del presente ricorso, sub 1), alle quali per economia si rinvia, che si tratta di motivi nuovi, atteso che il provvedimento di irrogazione della sanzione è fondato sull’applicazione di altra norma sanzionatoria ed in particolare di quella che figura al primo comma del medesimo art. 6 del D.Lgs. n. 471/1997’.
4.2. Il motivo – di per sé inammissibile per non congruamente riprodurre, in violazione dei principi di precisione ed autosufficienza, l’atto di appello e, prima ancora, le controdeduzioni in primo grado dell’Agenzia, in guisa da consentire un critico apprezzamento del primo in relazione alle altre – è – altresì e comunque – finanche manifestamente infondato.
4.2.1. Valgono le considerazioni già espresse a proposito del primo motivo, cui valga aggiungere quanto segue.
Alla stessa stregua dei brevissimi e frammentati stralci dell’atto di appello agenziale riportati nella parte introduttiva del ricorso (p. 8) e più particolarmente nel motivo (p. 13), la citazione, da parte dell’Agenzia, di Cass. n. 5268 del 2015 è puramente e semplicemente votata ad affermare ‘ la legittimità nell’applicazione della sanzione ‘de qua”: legittimità che ‘è stata riconosciuta dalla
Cassazione nella sentenza n. 5368/2005 in cui il Supremo Collegio ha riconosciuto applicabile la sanzione ex art. 6 D.Lgs. 471/97 in presenza di acquisti di beni in assenza di fattura o con fattura irregolare, come nel caso che ci occupa’.
In ciò emerge il vizio che affligge il motivo: ‘l’adesione’ dell’Ufficio alla ‘pronuncia della Suprema Corte’ non ‘pales’ affatto ‘la formulazione di una domanda di conferma dell’atto di contestazione in virtù dell’applicazione dell’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997’. Il richiamo al comma 8 dell’art. 6 D.Lgs. n. 471 del 1997 è frutto di un’elaborazione della contribuente, che non trova corrispondenza né linguistica né concettuale, così nella sentenza impugnata (primo motivo), come, pure, nell’atto di appello agenziale (secondo motivo che ne occupa).
Terzo motivo: ‘Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e precisamente dell’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997 (art. 360, n. 3, c.p.c.)’.
5.1. ‘In via ulteriormente subordinata e per mero scrupolo difensivo, la sentenza che si impugna va altresì censurata per violazione e/o falsa applicazione della norma sanzionatoria di cui all’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997 che il Giudice di appello ha inteso applicare. La Commissione Tributaria Regionale, infatti, riformando la sentenza di primo grado, ha affermato che anche nell’ipotesi in cui l’irregolarità della fattura ricevuta dal soggetto passivo sia di tipo meramente formale, senza alcuna incidenza sull’effettività della sottostante operazione imponibile e sull’imposta in definitiva dovuta, si renderebbe comunque applicabile la norma sanzionatoria di cui al citato art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997, ove lo stesso cessionario e/o committente abbia omesso di operare la dovuta regolarizzazione ‘.
5.2. Il motivo è infondato.
5.2.1. Segue le sorti dei due procedenti.
5.2.2. Aggiungasi che la sentenza impugnata non può andar soggetta a censura ‘per violazione e/o falsa applicazione della norma sanzionatoria di cui all’art. 6, comma 8, del D.Lgs. n. 471/1997’, giacché, diversamente da quanto ritenuto dalla contribuente, ‘il Giudice di appello’ non ha affatto ‘inteso applicarla’: non l’ha applicata e neppure l’ha menzionata.
I restanti due motivi -per comunanza di censure -possono essere enunciati, illustrati e trattati congiuntamente.
Quarto motivo: ‘Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto e precisamente dell’art. 6, commi 1, 4 e 5, del D.Lgs. n. 471/1997 (art. 360, n. 3, c.p.c.)’.
7.1. ‘Qualora poi si assuma che la sentenza che si impugna, nonostante il rinvio alla pronuncia resa dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 5268 del 10.3.2005, abbia inteso confermare il provvedimento di irrogazione della sanzione che ha dato origine alla presente controversia proprio con riguardo all’applicabilità delle norme sanzionatorie di cui ai commi 1, 4 e 5 dell’art. 6 del D.Lgs. n. 471/1997, cioè quelle applicate nello stesso provvedimento , non resterebbe che confermare la censura di detta sentenza per violazione di norme di diritto. Il fatto accertato dal Giudice di appello consiste nella circostanza che la società odierna ricorrente nei primi mesi del 2007 avrebbe ricevuto ed annotato nei registri IVA diverse fatture emesse dalla società fornitrice irlandese ‘RAGIONE_SOCIALE recanti l’indicazione di un numero di partita IVA ormai cessato, a far data dal 1°.6.2006 . È ben evidente che la norma sanzionatoria di cui al primo comma dell’art. 6 del D.Lgs. n. 471/1997 non si rende affatto applicabile ai casi in cui un soggetto passivo registri una fattura emessa dal proprio fornitore con riguardo ad un acquisto (anche intracomunitario) che rechi un’irregolarità meramente formale. La
suddetta disposizione, infatti, si riferisce espressamente al caso in cui l’irregolarità si palesi in un ‘imponibile non correttamente documentato o registrato’ ovvero nell’indicazione di una ‘imposta inferiore a quella dovuta’ ‘.
Quinto motivo: ‘Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art. 360, n. 5, c.p.c.)’.
8.1. La contribuente ‘ha altresì disconosciuto la stessa irregolarità contestata dall’Agenzia delle Entrate, sin dal ricorso proposto dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Palermo’. ‘Controparte non aveva fornito un’adeguata prova del fatto dedotto e cioè della circostanza che il numero di partita IVA ‘CODICE_FISCALE fosse cessato ‘in data 1 giugno 2006’ e che la conoscenza di tale mutamento fosse nella disponibilità della società ricorrente, atteso che la documentazione fatta valere dall’Ufficio consiste in una ‘interrogazione dell’apposita Banca Dati’ della stessa Agenzia delle Entrate (sic!) che peraltro ‘è stata effettuata soltanto in data 17 dicembre 2008’, non potendosi così dimostrare che ‘la stessa indicazione sarebbe stata fornita se l’interrogazione fosse stata effettuata entro il 31 marzo 2007’ (cfr. pagina 7 del ricorso, a partire dal primo rigo). Le medesime argomentazioni testualmente sopra richiamate venivano poi riproposte dalla società in seno alle controdeduzioni depositate ai fini della costituzione nel giudizio di appello (cfr. pagina 5 delle controdeduzioni, a partire dal terzo rigo). La società, inoltre, aveva sottolineato di essere venuta a conoscenza della variazione del numero di partita IVA della società irlandese solo in occasione della ricezione di ‘2 fatture registrate rispettivamente al n. 744 in data 25/4/2007 e n. 745 in data 27/4/2007’ nelle quali detta società fornitrice aveva indicato ‘in maniera chiara ed evidente il nuovo numero di partita IVA: New VAT no. 043160F’ (cfr. pagina 4 del ricorso, a partire dal primo rigo, e pagina 3 delle controdeduzioni, a partire dal quintultimo
rigo) e che, pochi giorni dopo, precisamente ‘in data 4 maggio 2007 la Ditta RAGIONE_SOCIALE comunicava’ formalmente ‘di avere ottenuto un nuovo numero di partita IVA (P_IVA) e che il precedente numero CODICE_FISCALE non era più operativo’ (cfr. pagina 7 del ricorso, a partire dal quindicesimo rigo, e pagina 5 delle controdeduzioni, a partire dal nono rigo)’. La CTR ‘ha omesso del tutto di esaminare detti fatti’.
Fondato è il quarto motivo, ai sensi della motivazione a seguire; infondato, invece, il quinto.
9.1. Ai sensi dell’art. 21, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972, la fattura deve contenere, tra l’altro, le seguenti indicazioni:
ditta, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio del soggetto cedente o prestatore, del rappresentante fiscale nonché ubicazione della stabile organizzazione per i soggetti non residenti;
numero di partita IVA del soggetto cedente o prestatore;
ditta, denominazione o ragione sociale, nome e cognome, residenza o domicilio del soggetto cessionario o committente, del rappresentante fiscale nonché ubicazione della stabile organizzazione per i soggetti non residenti;
numero di partita IVA del soggetto cessionario o committente ovvero, in caso di soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro dell’Unione europea, numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato membro di stabilimento; nel caso in cui il cessionario o committente residente o domiciliato nel territorio dello Stato non agisce nell’esercizio d’impresa, arte o professione, codice fiscale.
Ai sensi dell’art. 21, comma 1, cit.,
nelle ipotesi di cui all’articolo 17, secondo comma, primo periodo, il cessionario o il committente emette la fattura in unico esemplare, ovvero, ferma restando la sua responsabilità, si assicura che la stessa sia emessa, per suo conto, da un terzo.
Ai sensi dell’art. 17, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972, di cui, nel caso oggetto del presente giudizio, viene in rilievo il secondo periodo, vertendosi di acquisti intracomunitari (ex art. 38 d.l. n. 331 del 1993, conv. dalla l. n. 427 del 1993) della contribuente da fornitore irlandese, gli obblighi relativi alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato da soggetti non residenti nei confronti di soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato, compresi i soggetti indicati all’articolo 7 -ter, comma 2, lettere b) e c), sono adempiuti dai cessionari o committenti. Tuttavia, nel caso di cessioni di beni o di prestazioni di servizi effettuate da un soggetto passivo stabilito in un altro Stato membro dell’Unione europea, il cessionario o committente adempie gli obblighi di fatturazione e di registrazione secondo le disposizioni degli articoli 46 e 47 del decreto -legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427.
Dunque, alla stregua di una prima conclusione ermeneutica, è a ricavarsi che, negli acquisti intracomunitari , l’indicazione della partita IVA anche del cedente sicuramente rappresenta un requisito essenziale della fattura (cd. integrata) che il cessionario/committente è tenuto ad emettere in osservanza del regime del ‘reverse charge’ .
9.2. Ciò toglie terreno alle argomentazioni sottese al quinto motivo, volte a denunciare l’omesso esame di fatti che, di per se stessi, non sono decisivi.
9.2.1. In disparte rilievi di inammissibilità del motivo per violazione dei principi di precisione e di autosufficienza (non riproducendo esso -oltreché le ” 2 fatture registrate rispettivamente al n. 744 in data 25/4/2007 e n. 745 in data 27/4/2007′ nelle quali società fornitrice indicato ‘in maniera chiara ed evidente il nuovo numero di partita IVA: New CODICE_FISCALE‘ e la comunicazione ‘in data 4 maggio 2007’ della medesima, solo fugacemente citata a p. 4 del ricorso, circa
l’ottenimento di detto nuovo numero neppure le fatture oggetto di contestazione, con conseguente materiale impossibilità di rapportare il tenore letterale di queste al tenore letterale di quelle registrate con i nn. 744 e 745 ed altresì di verificare, nella comunicazione del 4 maggio 2007, eventuali indicazioni temporali o comunque operative), l’eventuale affidamento che la contribuente abbia riposto nelle informazioni riportate nelle fatture della fornitrice irlandese non vale ad escludere l’obiettiva integrazione della violazione:
-né sul piano obiettivo, poiché i documenti fiscali della contribuente incontestabilmente contengono un numero di partita IVA inesistente (sul punto, l’argomentazione della contribuente secondo cui non assumerebbe valore probatorio l’interrogazione della bancadati effettuata dall’Agenzia delle entrate solo il 17 dicembre 2008 appare del tutto decentrata, attestando essa l’inesistenza in sé del numero di partita IVA sin dal 1° giugno 2006, ragion per cui -a meno di revocare in dubbio evidenze di pubblica verificabilità di quanto appreso e riferito dall’Agenzia, ciò che neppure la contribuente si spinge a fare -deve ritenersi che le stesse rassegnino dati di realtà, tanto più che la contribuente non offre prova, né argomenti di prova, di segno contrario);
– né (enunciandosi così esplicitamente principio di diritto) sul piano soggettivo. Infatti, negli acquisti intracomunitari , il cessionario -su cui, in forza dell’art. 17, comma 2, d.P.R. n. 633 del 1972, grava direttamente (cfr. Sez. 5, n. 24561 del 12/07/2022, par. 4.1, p. 4) l’adempimento degli ‘obblighi di fatturazione e di registrazione secondo le disposizioni degli articoli 46 e 47 del decreto -legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427’, dovendo per l’effetto redigere e contabilizzare i documenti fiscali che imprimono ai beni il regime di immissione nel mercato nazionale -è tenuto a
diligentemente verificare, ‘singulatim’ , cioè per ciascuna operazione , le risultanze delle banche -dati rese disponibili dalle autorità nazionali e, per tutte, dalla Commissione europea attraverso il sistema centralizzato ‘VIES’ , onde sincerarsi degli elementi basilari dell’ esistenza dell’altrui numero di partita IVA e, oltre, della corrispondenza di esso a chi contrattualmente se ne afferma titolare; né -sia consentito di aggiungere -trattasi di un’incombenza soverchiamene onerosa, tale da rendersi inesigibile, giacché si risolve invece in un mero controllo cartolare, comportante un impegno di risorse affatto minimo.
9.2.2. Ne consegue – tornando al quinto motivo – che i fatti di cui la contribuente lamenta l’omesso esame non si palesano decisivi, poiché in nessun modo ne escludono la negligenza sanzionabile.
9.3. Altro discorso deve invece compiersi, ad avviso del Collegio, in riferimento all’appropriatezza del titolo sanzionatorio contestato dall’Ufficio: questione dedotta nel quarto motivo, che si è preannunciato essere fondato nei limiti che si va ad esporre.
9.3.1. Viene in linea di conto la convergenza di due prospettive: a) quella riguardante la qualificazione, come sostanziale o solo formale, della violazione contestata e b) quella della previsione sanzionatoria applicabile.
9.3.1.1. Partendo dalla prima prospettiva, ossia quella riguardante la qualificazione della sanzione, v’è da ricordare che recentemente questa Suprema Corte (Sez. 5, n. 8020 del 25/03/2024, par. 5, p. 14, massimata ‘sub’ Rv. 670815 -01), in una fattispecie simmetrica a quella oggetto del presente giudizio, ha avuto modo di affermare che,
in tema di cessioni intracomunitarie, il ‘VAT number’ del cessionario è sicuramente un elemento essenziale della fattura, ma, con riferimento alla normativa in vigore fino a tutto il 2019, prima, cioè, della Dir. 2018/1910/UE, l’assenza e ‘a fortiori’ l’erroneità dell’indicazione del ‘VAT number’ del cessionario in fattura non possono comunque impedire l’individuazione del (o di un diverso) cessionario effettivo, atteso che il ‘VAT number’, secondo gli insegnamenti della Corte di giustizia dell’Unione europea, rappresenta soltanto un requisito formale, subvalente rispetto all’accertamento (che integra un giudizio di fatto rimesso all’esclusiva competenza del giudizio di merito) della sussistenza dei requisiti sostanziali.
Il superiore principio vale testualmente con riguardo al cessionario , che, come già detto, nelle cessioni intracomunitarie, assume la qualità di soggetto passivo dell’imposta; vero ciò, esso non può non valere a maggior ragione in riferimento al cedente , che, in tali cessioni, derogatorie rispetto al sistema dell’IVA, non assume la suddetta qualità: ciò specificasi in quanto (come osservato ivi, parr., rispettivamente, 4.2, p. 8, e 4.1., p. 7),
nel diritto unionale, il ‘VAT number’ è elemento essenziale della fattura al fine dell’individuazione del soggetto debitore d’imposta ,
tanto che,
a termini dell’art. 226, nn. 3 e 4, Dir. 2006/112/CE, l’indicazione in fattura del ‘VAT number’, di cui al precedente art. 214, par. 1, costituisce bensì elemento precipuo di identificazione, tuttavia, di norma, non del cessionario, sibbene del cedente, salvo che il cessionario sia gravato del pagamento dell’imposta per effetto dell’applicazione del regime dell’inversione contabile ovvero benefici di esenzione.
Ora – rammentato per completezza espositiva, che, a partire dal 1° gennaio 2020, giusta le modifiche alla Dir. 2006/112/CE apportate dalla Dir. 2018/1910/UE (e, per quanto di ragione, recepite in Italia dall’art. 1, comma 1, lett. b, D.Lgs. n. 192 del 2021, che ha introdotto il comma 2 -ter nell’art. 41 d.l. n. 331 del 1993 conv. con mod. dalla l. n. 427 del 1993), il ‘VAT number’ assume espressamente (in consapevole controtendenza del legislatore rispetto alla giurisprudenza sino ad allora maturatasi) rilevanza di condizione sostanziale per la tassazione nel Paese di destinazione nelle operazioni intracomunitarie , quanto al periodo precedente (di cui si discute nel presente giudizio) , l’omessa od erronea indicazione del ‘VAT number’ del cedente , siccome non soggetto passivo , non può non costituire una violazione (solo) formale (essendolo in sé quanto al cessionario, siccome soggetto passivo ) ogniqualvolta, escluso in concreto alcun pregiudizio per l’erario, da ulteriori elementi, contenuti (ma non necessariamente) nei documenti fiscali, sia possibile ricavare con certezza la corretta indicazione del medesimo quale effettivo soggetto rilevante ai fini dell’IVA (cd. soggetto IVA) .
Ciò corrisponde ad un generale insegnamento della Corte di giustizia, intesa, prima della Dir. 2018/1910/UE,
-per un verso, relativamente alle condizioni di esclusione del cedente dal beneficio dell’esenzione dall’IVA, a sostenere che la prova della soggettività passiva del destinatario di beni trasportati o spediti da altro Stato membro non potesse dipendere solo dalla comunicazione del ‘VAT number’ dal predetto effettuata al cedente in vista dell’emissione della fattura, dovendo accordarsi preminenza ai requisiti sostanziali dell’operazione (CGUE, 27 settembre 2012, in causa C -587/10, Finanzamt RAGIONE_SOCIALE; CGUE, 6 settembre 2012, in causa C -273/11, Mecsek -Gabona Kft);
-per altro verso, relativamente al regime di ‘autoliquidazione’ (istituito già con l’art. 21, par. 1, lett. d), Dir. n. 1977/388/CEE), a sostenere che esso è idoneo ad assicurare la neutralità dell’imposta, senza perdita del diritto di detrazione, sempreché gli obblighi sostanziali siano soddisfatti e ciò anche se taluni obblighi formali siano stati invece omessi dai soggetti passivi. Segnatamente rilevano CGGUE, 18 marzo 2021, in causa C -895/19, RAGIONE_SOCIALE; CGUE, 11 dicembre 2014, in causa C -590/13, RAGIONE_SOCIALE; CGUE, 17 luglio 2014, in causa C -272/13, RAGIONE_SOCIALE; altresì
giova richiamare prendendo a prestito le parole di Sez. U, n. 22727 del 20/07/2022, par. 7.8, p. 20 la sentenza della Corte di giustizia del’11 novembre 2021, RAGIONE_SOCIALE contro Administración General del Estado, C -281/20. Investita da un quesito pregiudiziale sollevato dal Tribunal Supremo di Spagna in una vicenda nella quale era stato negato alla società acquirente di materiali di recupero (rottami) il diritto di detrarre l’IVA indicata in fatture dalla stessa emesse, in cui era stata specificata la soggezione dell’operazione a inversione contabile, in quanto il fornitore da essa indicato era risultato inesistente, la Corte di giustizia europea -seppur non ha preso posizione alcuna sul tema delle sanzioni applicabili alla fattispecie e della compatibilità con il sistema UE (p. 25) -ha affermato che ‘la direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, letta in combinato disposto con il principio di neutralità fiscale, deve essere interpretata nel senso che a un soggetto passivo deve essere negato l’esercizio del diritto a detrazione dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) relativa all’acquisto di beni che gli sono stati ceduti, qualora tale soggetto passivo abbia consapevolmente indicato un fornitore fittizio sulla fattura che egli stesso ha emesso per tale operazione nell’ambito dell’applicazione del regime dell’inversione contabile, se, tenuto conto delle circostanze di fatto e degli elementi forniti da tale soggetto passivo, mancano i dati necessari per verificare che il vero fornitore aveva la qualità di soggetto passivo o se è sufficientemente dimostrato che tale soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione
invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una simile evasione.
9.3.1.2. Nondimeno -così trascorrendo dalla prima alla seconda delle due anticipate prospettive -il generale insegnamento della Corte di giustizia di cui innanzi, che, in definitiva, accorda prevalenza alla sostanza sulla forma, non preclude, ma anzi presuppone, la possibilità, e dunque per certi versi finanche la necessità, che il legislatore nazionale corredi gli obblighi formali dei soggetti passivi di sanzioni tali (nell’osservanza pur sempre del principio di proporzionalità) da incoraggiare questi ultimi a rispettarli, al fine di assicurare il corretto funzionamento del sistema dell’IVA (CGUE, 26 aprile 2017, in causa, C -564/15, NOME Farkas; CGUE, 2 luglio 2020, in causa C -835/18, RAGIONE_SOCIALE.
9.3.1.2.1. Rileva però a questo punto l’evoluzione che ha caratterizzato, in generale, la violazione degli obblighi di autofatturazione.
Fino al 31 dicembre 2007, la violazione degli obblighi di autofatturazione era regolata dalla disposizione generale di cui all’art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 471 del 2007, per la quale chi viola gli obblighi inerenti alla documentazione e alla registrazione di operazioni imponibili ai fini dell’imposta sul valore aggiunto ovvero all’individuazione di prodotti determinati è punito con la sanzione amministrativa compresa fra il cento e il duecento per cento dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato nel corso dell’esercizio.
L’art. 1, comma 155, l. n. 244 del 2007 ha introdotto, con vigenza dal 1° gennaio 2008, il comma 9 -bis all’art. 6 D.Lgs. n. 471 del 1997, che, nella sua formulazione originaria, irrogava la medesima sanzione al cessionario o committente, nonché al cedente o prestatore, che ‘non assolve l’imposta relativa agli acquisti di beni o servizi mediante il meccanismo dell’inversione
contabile’, prevedendo una sanzione meno gravosa (pari al 3%) ove l’imposta fosse stata assolta ancorché irregolarmente.
La materia è stata poi oggetto di un articolato intervento, da parte del legislatore, con il D.Lgs. n. 158 del 2015, che assume rilievo nel presente grado di giudizio alla stregua di ‘ius superveniens’ applicabile d’ufficio per il principio del ‘favor rei’ , all’esito del quale la disciplina risulta oggi strutturata su una ipotesi di carattere generale (art. 6, comma 9 -bis, oggetto di riformulazione, con un trattamento sanzionatorio più mite) e su alcuni regimi speciali (in particolare, i commi 9 -bis.1, 9 -bis.2 e 9 -bis.3, non rilevanti nel caso che ne occupa).
In particolare, i primi tre periodi del comma 9 -bis disciplinano fattispecie che, pur distinte ed autonome, rivelano l’attenzione e la consapevolezza del legislatore per le conseguenze della violazione degli obblighi di autofatturazione, ponendosi, in certo qual modo, in un rapporto di progressione.
Tra essi, il primo periodo sanziona il fatto, obiettivo e formale ( a prescindere cioè da ricadute in termini di imponibile ed imposta , di cui si occupano i due periodi successivi), del ‘cessionario o l committente che, nell’esercizio di imprese, arti o professioni, omette di porre in essere gli adempimenti connessi all’inversione contabile di cui agli articoli 17, 34, comma 6, secondo periodo, e 74, settimo e ottavo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e agli articoli 46, comma 1, e 47, comma 1, del decreto -legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427′.
Ora, non può esservi dubbio che rientri nella previsione del primo periodo anche l’ emissione , a seguito di acquisti da fornitore unionale, di una fattura integrativa (autointegrata) con indicazione di un’inesistente partita IVA del cedente : ciò in ragione, anzitutto, del richiamo testuale in detta previsione della
catena di disposizioni che disciplinano gli ‘adempimenti connessi all’inversione contabile’, i quali danno per scontata l’indicazione di una valida partita IVA (anche) del cedente; ma, altresì e per vero soprattutto, del fatto che, in difetto di una tale indicazione, viene meno, contabilmente (ossia a prescindere dall’idoneità comunque, osservati cioè gli obblighi sostanziali, dell”autoliquidazione’ a preservare il diritto alla detrazione), la giustificazione dell’applicazione dello speciale regime del ‘reverse charge’: regime che, in tanto ‘assolve, nella sua concezione originale e tradizionale, allo scopo di permettere l’ingresso nel sistema contabile delle operazioni rilevanti ai fini Iva in Italia realizzate da imprese non residenti (in ispecie, per operazioni intracomunitarie ) (cd. reverse charge esterno)’ (Sez. 5, n. 24561 del 2022, loc. ult. cit.), in quanto prevede la doppia annotazione della fattura, integrata, del cedente, siccome identificato da uno specifico numero di partita IVA, nel registro IVA vendite e, di poi, per assicurare il recupero dell’imposta in capo al cessionario che altrimenti ne risulterebbe inciso, nel registro IVA acquisti.
9.4. Tirando le somme di quanto detto sin qui, in accoglimento (nei rigorosi suddetti termini) del quarto motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, affinché il nuovo giudice valuti, sotto l’esclusivo profilo sanzionatorio, la contestazione mossa alla contribuente alla luce del quadro normativo sopravvenuto, che si rende applicabile quale ‘lex mitior’; all’esito, secondo le regole generali, il medesimo avrà a definitivamente regolare tra le parti le spese di lite, comprese quelle del presene grado di giudizio.
P.Q.M.
In riferimento alla posizione di COGNOME NOME in proprio, COGNOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME:
dichiara inammissibile il ricorso;
-ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei predetti ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso stesso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
In riferimento alla posizione di RAGIONE_SOCIALE:
-accoglie il quarto motivo di ricorso, nei termini e nei limiti di cui in motivazione, rigettati tutti gli altri;
-per l’effetto, cassa in relazione al motivo accolto la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in diversa composizione, per nuovo esame e per le spese.
Così deciso a Roma, lì 7 novembre -13 dicembre 2024.