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Operazioni soggettivamente inesistenti: onere prova

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha ribadito i principi sull’onere della prova in materia di operazioni soggettivamente inesistenti. Nel caso specifico, una società era stata accusata dal Fisco di aver detratto l’IVA su fatture emesse da un fornitore ritenuto fittizio. La Corte ha confermato la decisione dei giudici di merito, stabilendo che spetta all’Amministrazione finanziaria dimostrare non solo la natura fittizia del fornitore, ma anche la consapevolezza del contribuente di partecipare alla frode. Poiché il fornitore appariva come un’azienda solida e operativa da tempo, senza elementi di anomalia, l’appello del Fisco è stato respinto, consolidando il principio della tutela dell’affidamento del contribuente in buona fede.

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Pubblicato il 22 agosto 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Operazioni Soggettivamente Inesistenti: La Cassazione sull’Onere della Prova

La Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale per imprese e professionisti: le operazioni soggettivamente inesistenti e la ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente. Con una recente ordinanza, i giudici hanno ribadito che l’Amministrazione finanziaria non può limitarsi a sostenere la natura fraudolenta di un fornitore, ma deve fornire prove concrete sulla consapevolezza del cliente di partecipare all’illecito. Questa pronuncia offre importanti chiarimenti sulla tutela dell’affidamento e sulla diligenza richiesta agli operatori economici.

I Fatti del Caso

Una società si è vista recapitare due avvisi di accertamento con cui l’Amministrazione finanziaria contestava la detrazione dell’IVA relativa agli anni 2017 e 2018. Secondo il Fisco, le fatture provenivano da una società fornitrice che, pur avendo eseguito le prestazioni, era da considerarsi un soggetto fittizio, configurando così delle operazioni soggettivamente inesistenti.

La società contribuente ha impugnato gli atti, ottenendo ragione sia in primo grado che in appello. I giudici di merito hanno sottolineato che il fornitore non presentava le caratteristiche tipiche di una ‘società cartiera’: operava da tempo sul mercato, possedeva una vera sede operativa attrezzata per la sua attività (fornitura di stand fieristici) ed era pienamente attiva. Pertanto, non sussistevano elementi oggettivi che potessero far sorgere dubbi sulla sua reale esistenza e operatività.

Contro la decisione di secondo grado, l’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso in Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del Fisco, confermando le sentenze precedenti e cogliendo l’occasione per ribadire i principi consolidati in materia.

L’Onere della Prova nelle Operazioni Soggettivamente Inesistenti

Il punto centrale della controversia riguarda l’onere della prova. La Cassazione ha chiarito che, in caso di contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti, spetta all’Amministrazione finanziaria un doppio onere probatorio. Essa deve dimostrare:

1. L’oggettiva fittizietà del fornitore: ovvero che la società che ha emesso la fattura è una mera ‘cartiera’ o un soggetto interposto.
2. La consapevolezza del destinatario: ossia che il cliente (cessionario/committente) sapeva o avrebbe dovuto sapere, usando l’ordinaria diligenza, che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’IVA.

Questa prova può essere fornita anche attraverso indizi, purché siano gravi, precisi e concordanti. Non è sufficiente, quindi, dimostrare solo l’irregolarità del fornitore per trasferire automaticamente l’onere della prova sul contribuente.

La Diligenza del Contribuente

Una volta che il Fisco ha fornito questi elementi, la palla passa al contribuente. A quest’ultimo spetta la prova contraria: dimostrare di aver agito in totale buona fede e di aver adoperato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto per non essere coinvolto nella frode.

Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che il contribuente avesse agito correttamente. Il fornitore era un’entità consolidata e pienamente operativa, e non vi erano segnali di allarme (‘anomalie’) che potessero far dubitare della sua legittimità. Il fatto di interfacciarsi con i dipendenti per gli aspetti operativi, anziché direttamente con l’amministratore, è stato considerato normale prassi commerciale. Anche i pagamenti, regolarmente indirizzati alla società fornitrice, hanno contribuito a dimostrare la buona fede del cliente.

le motivazioni

La Corte ha motivato il rigetto del ricorso evidenziando come la decisione della Commissione Tributaria Regionale fosse logicamente coerente e in linea con la giurisprudenza di legittimità. I giudici di merito avevano correttamente applicato il principio secondo cui non si può esigere dal contribuente lo svolgimento di complesse indagini investigative sul proprio fornitore, attività che competono a istituzioni preposte. L’analisi si è concentrata sugli elementi oggettivi a disposizione del contribuente al momento della transazione. Poiché tali elementi non indicavano alcuna anomalia, non poteva sorgere il dubbio di partecipare a un’operazione illecita. La Corte ha inoltre qualificato il tentativo del Fisco di rimettere in discussione la valutazione dei fatti come inammissibile in sede di legittimità, ribadendo che il suo ruolo non è quello di riesaminare il merito della vicenda, ma di verificare la corretta applicazione della legge.

le conclusioni

In conclusione, questa ordinanza rafforza la posizione del contribuente che opera in buona fede. Viene confermato che, per contestare la detrazione IVA in operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione finanziaria ha un onere probatorio rigoroso, che include la dimostrazione della consapevolezza della frode da parte del cliente. La semplice irregolarità del fornitore non basta a invertire l’onere della prova. Le imprese sono tenute a un dovere di diligenza, ma questo deve essere commisurato a criteri di ragionevolezza e proporzionalità, senza trasformarle in organi investigativi. La presenza di un fornitore con una struttura reale, una storia operativa e transazioni trasparenti costituisce un forte elemento a favore della buona fede del cliente.

In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, chi deve provare la frode e la consapevolezza del contribuente?
Secondo la Corte di Cassazione, l’onere della prova spetta all’Amministrazione finanziaria. Essa deve dimostrare, anche tramite indizi, non solo che il fornitore era un soggetto fittizio (es. una ‘società cartiera’), ma anche che il cliente era consapevole, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza, di partecipare a un’evasione IVA.

Cosa deve fare un contribuente per dimostrare la propria buona fede?
Il contribuente deve fornire la prova contraria, dimostrando di aver agito con la massima diligenza esigibile da un operatore economico accorto per evitare di essere coinvolto in una frode. La regolarità della contabilità e dei pagamenti, sebbene importante, potrebbe non essere sufficiente da sola. È fondamentale dimostrare che non vi fossero elementi oggettivi di anomalia tali da far sorgere sospetti sul fornitore.

Un fornitore che opera da tempo sul mercato e ha una sede reale può essere comunque considerato fittizio ai fini di una frode IVA?
Secondo quanto emerge dalla sentenza, un fornitore che opera da tempo, ha una vera sede operativa attrezzata per la sua attività ed è pienamente attivo sul mercato non presenta le caratteristiche tipiche di una ‘società cartiera’. Questa circostanza è un elemento fondamentale che gioca a favore del cliente, in quanto rende meno probabile che potesse sospettare un’irregolarità.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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