Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 33906 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 33906 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso n. 24704/2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del custode e amministratore giudiziario, dott. NOME COGNOME e dell’amministratore unico ante sequestro dott. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. Prof. NOME COGNOME con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, INDIRIZZO giusta procura a margine del ricorso per cassazione.
-ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i
cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA n. 3516/20/18, depositata in data 12 aprile 2018, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4 dicembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
1. La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso avente ad oggetto l’avviso di accertamento n. TEB03T100081/2013 per l’anno d’imposta 2008, notificatole il 3 gennaio 2014, e già oggetto di istanza di accertamento per adesione presentata il 6 febbraio 2014, con il quale era stato accertato una maggiore imposta ai fini Iva per utilizzo di fatture di acquisto riconducibili ad operazioni soggettivamente inesistenti e la non deducibilità dei costi ai fini Ires e il disconoscimento dei costi ai fini Irap, relativi ad acquisto di merci per operazioni soggettivamente inesistenti e comunque riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato.
2. I giudici di secondo grado, in particolare, hanno affermato che: « Con la sentenza n. 18816/2017 del 28-7-2017 la Corte di Cassazione ha rigettato definitivamente il ricorso della RAGIONE_SOCIALE avverso gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate, rilevata l’esclusione dei presupposti per la detrazione dei crediti IVA aveva rettificato la dichiarazione IVA presentata dalla società per gli anni 2002 e 2003, accertando maggiori imposte e irrogando le relative sanzioni. L’intervenuta pronuncia della Suprema Corte – in quanto risolve la questione (asseritamente indicata come pregiudiziale) della fittizietà dell’originario credito IVA in capo a RAGIONE_SOCIALE – rende assolutamente inammissibili e privi di fondamento i motivi 1, 2 e 3 dell’atto di gravame. Del resto, nel motivo di gravame n.3 l’appellante non aveva contestato nella sostanza le argomentazioni che avevano consentito di affermare la inesistenza delle operazioni commerciali tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE:
la Dagar era priva di locali per lo stoccaggio e il deposito della merce; vi era una commistione operativa, organizzativa e logistica e promiscuità di strutture operative tra le varie Società del gruppo; la gestione degli acquisti era curata per tutte le società da un unico dipendente (fosse o meno la dipendente COGNOME); in buona sostanza la RAGIONE_SOCIALE non era altro che un soggetto cartolarmente interposto. Viceversa, appare irrilevante che la Suprema Corte con la sentenza 19834/2017 abbia confermato l’illegittimità del diniego di condono richiesto dalla COGNOME, apparendo tale decisione assolutamente priva di rilievo ai fini dell’accertamento nei confronti della appellante. Il quarto motivo di appello – che ripete il motivo n. 12 (rectius: n.13) del ricorso – è palesemente privo di fondamento. L’appellante aveva affermato che il meccanismo del deposito IVA sarebbe da considerarsi incompatibile con l’utilizzo di un credito IVA illegittimo. L’assunto è privo di fondamento. Come ha chiarito ulteriormente l’Ufficio appellato nelle controdeduzioni, la disciplina del deposito IVA consente da un lato, di rendere assolutamente neutra, dal punto di vista dell’IVA, l’operazione di importazione della merce attraverso il meccanismo del “reverse charge” e dall’altro di non dover ricorrere all’anticipazione finanziaria causata dal pagamento immediato dell’IVA in dogana, recuperando l’imposta, in un momento successivo, con la detrazione. Nel caso di specie, l’IVA dovuta sull’operazione attiva, generata dalla vendita interna, era neutralizzata dall’eccedenza del credito fittizio, artificiosamente creato nelle pregresse annualità. Ne conseguiva un duplice vantaggio illecito dall’utilizzo del deposito IVA: per la cedente (RAGIONE_SOCIALE) era rappresentato dalla possibilità di monetizzare un credito IVA inesistente e dal vantaggio del trasferimento in avanti dello stesso a vantaggio di altre società del gruppo; per le cessionarie (nel caso di specie RAGIONE_SOCIALE) era quello di poter usufruire della detrazione IVA acquistando ingenti crediti che non avrebbero potuto essere realizzati se avessero acquistato direttamente dall’estero, dovendo necessariamente applicare il meccanismo del c.d. reverse charge. Appare quindi immune da censure l’argomentazione svolta nella sentenza impugnata secondo cui “… La infondatezza dei precedenti motivi esaminati comporta anche la infondatezza del tredicesimo motivo che risulta fondato sull’assunto della assenza di vantaggi fiscali per le società coinvolte nella frode che verrebbe confermata dal meccanismo previsto dall’utilizzo del “deposito Iva”. In effetti nel caso in esame vi è stato il ricorso all’istituto del “deposito Iva” non al fine di posticipare il pagamento dell’Iva ma di evaderla in toto sussistendo la consapevolezza che detta imposta non sarebbe stata mai pagata in quanto dagli anni precedenti risultava un credito Iva artatamente costituito …”. Anche il motivo di gravame n.5 – che ripete il motivo di ricorso n. 11 – è infondato. L’appellante aveva lamentato una sorta di duplicazione dell’imposizione fiscale. In realtà, è pacifico che l’Ufficio non aveva contestato alla società il medesimo credito accertato inesistente, ma piuttosto il perpetrarsi dell’indebito riutilizzo di quel credito in detti anni, attraverso operazioni – le fittizie operazioni commerciali infragruppo – che avevano avuto il solo scopo di procurare indebiti vantaggi fiscali alle società del gruppo RAGIONE_SOCIALE, in virtù del disegno criminoso che trovava le sue radici nella creazione del fittizio credito IVA del 2002. L’ultimo motivo di gravame concerne la questione della applicazione delle sanzioni. L’assunto di una mancanza dei presupposti per l’applicazione delle sanzioni è incomprensibile essendosi accertata, al di là di ogni dubbio, sia la sussistenza oggettiva del fatto costituente illecito tributario, sia la consapevolezza
della appellante di aver agito in frode al fisco. L’applicazione della normativa di cui al D.L.vo 158/2015 non determinerebbe alcun beneficio rispetto alla sanzione applicata, posto che ai sensi dell’art. 4 del citato decreto per le violazioni realizzate mediante utilizzo di fatture per operazioni inesistenti o altre condotte fraudolente la sanzione (che va dal 90 al 180%) è aumentata della metà; in concreto in forza delle nuove disposizioni in luogo della sanzione del 200% si sarebbe dovuta applicare la sanzione del 270%. Gli altri motivi di ricorso, in quanto non riproposti, devono ritenersi rinunziati. Da ultimo va evidenziato che con la sentenza n.3481/33/17 del 28-3-2017 (depositata il 12-4-2017) la C.T.R. di Napoli aveva rigettato l’appello della RAGIONE_SOCIALE avverso l’avviso di accertamento relativo all’anno 2008, concernente le medesime violazioni contestate alla IMI SUD nel presente giudizio e nei confronti del quale erano state prospettate le medesime doglianze ».
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sei motivi.
L ‘Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
1. Il primo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione ed errata applicazione degli articoli 2697 e 2727 cod. civ.. I giudici di secondo grado avevano ritenuto sufficienti alla dimostrazione della contestazione di inesistenza elevata dall’Amministrazione i medesimi elementi indiziari elencati dall’Amministrazione finanziaria, prima, e dalla Commissione tributaria provinciale, poi, del tutto ignorando le prove rese dalla società in corso di causa a supporto dell’infondatezza della contestazione. La società aveva documentato non solo la reale operatività di entrambe le società coinvolte ma, altresì, l’effettività degli acquisti oggetto di contestazione. Richiamando la perizia tecnica richiesta alla società di revisione, la società aveva, poi, evidenziato che gli elementi indiziari elencati quali indici di anomalia dalla Commissione tributaria provinciale, costituivano un aspetto assolutamente normale e fisiologico dell’operatività delle due società. La Commissione tributaria regionale, pur facendo acritico riferimento ad alcuni degli inconsistenti elementi indiziari già riportati dai primi Giudici, aveva fondato la
conferma della contestazione esclusivamente sull’intervenuto accertamento giudiziale dell’inesistenza del credito di imposta maturato in capo alla società cedente nell’annualità 2002 e riportato nelle annualità successive, ciò, nonostante le operazioni contestate con l’accertamento originante il presente giudizio non fossero, neppure in astratto, idonee a generare alla RAGIONE_SOCIALE alcun vantaggio fiscale. Rispetto all’affermata assenza di un passaggio diretto della merce acquistata, dalla RAGIONE_SOCIALE alla RAGIONE_SOCIALE, era stata evidenziata la coerenza sottesa alla strategia imprenditoriale della cedente la quale, anziché dotarsi di propri magazzini sostenendone i relativi costi fissi, faceva ricorso all’istituto del deposito fiscale per lo stoccaggio delle merci acquistate dai fornitori extraeuropei, potendo così estrarre periodicamente la quantità di merce a seconda delle esigenze delle società richiedenti. A fronte, dunque, della totale assenza di una qualsiasi prova «diretta» dell’asserita inesistenza delle contestate operazioni commerciali, si contrapponeva, invece, il comportamento esemplare tenuto dalla società, la quale, pur non avendo nessun onere in tal senso, aveva offerto finanche la «prova contraria» dell’esistenza di tali operazioni e della totale assenza di qualsiasi danno erariale. Prova costituita dall’ampia documentazione attestante l’effettività delle operazioni commerciali oggetto di contestazione (produzione di materiale fotografico e di buste paga dei dipendenti), mediante la quale erano stati dimostrati i passaggi della merce, i controlli ricevuti, gli affidamenti bancari ottenuti e le trattative svolte con operatori internazionali.
1.1 Il motivo è inammissibile sotto un duplice profilo.
1.2 La censura è inammissibile sotto un primo profilo perché si tratta di una doglianza diretta, con evidenza, a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa, che non
costituiscono vizio di violazione di legge (Cass., 19 agosto 2020, n. 17313).
1.3 Ed infatti la giurisprudenza prevalente di questa Corte è nel senso che, con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento di fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che lo scrutinio dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione che ne ha fatto il giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., 26 ottobre 2021, n. 30042; Cass., 7 aprile 2017, n. 9097; Cass., 7 marzo 2018, n. 5355).
1.4 In sede di legittimità è, poi, possibile censurare la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. solo allorché ricorra il cd. vizio di sussunzione, ovvero quando il giudice di merito, dopo avere qualificato come gravi, precisi e concordanti gli indizi raccolti, li ritenga, però, inidonei a fornire la prova presuntiva oppure qualora, pur avendoli considerati non gravi, non precisi e non concordanti, li reputi, tuttavia, sufficienti a dimostrare il fatto controverso (Cass., 13 febbraio 2020, n. 3541), evenienza che, nel caso in esame, non è stata dedotta dalla società ricorrente.
1.5 A questo riguardo, va precisato che l’apprezzamento del giudice di merito circa il ricorso alle presunzioni, la valutazione della ricorrenza dei requisiti di gravità (che si riferisce al grado di convincimento che le presunzioni sono idonee a produrre nel senso che l’esistenza del fatto ignoto dev’essere desunta con ragionevole certezza, anche probabilistica), precisione (che impone che i fatti noti, da cui muove il
ragionamento probabilistico, ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica) e concordanza (che postula che la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto) richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, la scelta dei fatti noti che costituiscono la base della presunzione e il giudizio logico con cui si deduce l’esistenza del fatto ignoto sono riservati al giudice di merito, rimanendo il sindacato del giudice di legittimità circoscritto alla verifica della tenuta della relativa motivazione, nei limiti segnati dall’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. (cfr. Cass., 17 gennaio 2019, n. 1234; Cass., 23 gennaio 2006, n. 1216), censura che, nel caso in esame, è inammissibile per violazione dell’art. 348 ter , ultimo comma, cod. proc. civ., stante il rigetto dell’appello principale statuito dalla Corte di merito e non avendo la parte attuale ricorrente specificato in ricorso le ragioni di fatto poste rispettivamente a fondamento della decisione di primo e di secondo grado, così dimostrando che esse sono tra loro diverse (cfr. Cass., 11 maggio 2018, n. 11439; Cass., 26 gennaio 2021, n. 1562; Cass., 9 marzo 2022, n. 7724).
1.6 Né sussiste la violazione dell’art. 2697 cod. civ., che si configura quando il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l ‘onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di ripartizione basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26769).
1.7 La censura è pure inammissibile sotto un secondo profilo perché non si confronta con il contenuto del provvedimento impugnato, in quanto la Commissione tributaria regionale ha affermato, a pag. 13, che l’intervenuta pronuncia della Suprema Corte rendeva inammissibili e privi di fondamento i motivi 1, 2 e 3 dell’atto di gravame in risposta a quanto argomentato dalla stessa società ricorrente/appellante sulla natura pregiudiziale attribuita alla questione della fittizietà
dell’originario credito IVA in capo alla società RAGIONE_SOCIALE e ha, inoltre, rilevato (con una autonoma ratio decidendi che non è stata adeguatamente censurata dalla società ricorrente) che « nel motivo di gravame n. 3 l’appellante non aveva contestato nella sostanza le argomentazioni che avevano consentito di affermare la inesistenza delle operazioni commerciali tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE: la RAGIONE_SOCIALE era priva di locali per lo stoccaggio e il deposito della merce; vi era una commistione operativa, organizzativa e logistica e promiscuità di strutture operative tra le varie Società del gruppo; la gestione degli acquisti era curata per tutte le società da un unico dipendente (fosse o meno la dipendente COGNOME); in buona sostanza la RAGIONE_SOCIALE non era altro che un soggetto cartolarmente interposto » (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata), così non inficiando il dato oggettivo dell’utilizzo di un credito IVA fittiziamente creato nel 2002, né gli altri elementi indiziari sui quali i giudici di secondo grado avevano fondato il loro accertamento, ovvero la natura di società fittiziamente interposta della società RAGIONE_SOCIALE in assenza di locali di stoccaggio e di depositi nella disponibilità della stessa società RAGIONE_SOCIALE, la riconducibilità di tutte le società coinvolte al medesimo gruppo e l’unica direzione operativa e logistica delle varie strutture operative, oltre che un unico dipendente che si occupava della gestione degli acquisti per tutte le società .
2. Il secondo motivo deduce, in relazione a ll’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per la violazione degli artt. 36 e 61 del decreto legislativo n. 546 del 1992, 132 cod. proc. civ. e 111, comma 6, Cost.. La sentenza impugnata era nulla per motivazione apparente nella parte in cui i giudici di secondo grado avevano rigettato il terzo motivo di appello, con il quale la società aveva evidenziato di avere fornito sin dal giudizio di primo grado, prova inconfutabile non solo della propria reale operatività ma, altresì, dell’esistenza delle operazioni contestate e della totale assenza di qualsiasi danno erariale. Altrettanto prive di giustificazione erano le considerazioni
esposte dalla Commissione tributaria regionale in relazione alla rilevata assenza di vantaggi fiscali per la società, in mancanza di un iter logico argomentativo seguito ai fini del raggiungimento di tale convincimento e apparendo senza senso l’affermazione secondo la quale l’utilizzo del deposito IVA avrebbe determinato un illecito vantaggio fiscale per le società cessionarie, consistente nella possibilità di usufruire di una detrazione di IVA che non avrebbe ottenuto acquistando direttamente dall’estero. Nella fattispecie concreta, infatti, la società RAGIONE_SOCIALE aveva potuto detrarre l’Iva in questione avendola assolta nei confronti della società cedente a mezzo di strumenti finanziari tracciabili, mentre, era evidente che se la società avesse operato direttamente con il fornitore estero, con lo strumento del reverse charge , non avrebbe dovuto corrispondere a tale soggetto alcuna imposta.
2.1 Il motivo è infondato perché come emerge anche da quanto rilevato in relazione al primo motivo di ricorso, la motivazione dei giudici di secondo grado è sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale e funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione, mentre la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo , quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., 5 luglio 2022, n. 21302; Cass., 1 marzo 2022, n. 6758).
2.2 Nel caso di specie, infatti, i giudici di secondo grado, sul motivo di appello n. 3, specificamente richiamato a pag. 12 della sentenza impugnata (« la violazione e falsa applicazione dell’art. 39, co, 1 d.P.R. 600/73 e 2697 e 2727 c.c., stante l’insussistenza nel merito della
pretesa tributaria »), dopo avere evidenziato sostanzialmente che l’originario credito Iva in capo alla società RAGIONE_SOCIALE era fittizio, hanno affermato che « Del resto, nel motivo di gravame n.3 l’appellante non aveva contestato nella sostanza le argomentazioni che avevano consentito di affermare la inesistenza delle operazioni commerciali tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE: la RAGIONE_SOCIALE era priva di locali per lo stoccaggio e il deposito della merce; vi era una commistione operativa, organizzativa e logistica e promiscuità di strutture operative tra le varie Società del gruppo; la gestione degli acquisti era curata per tutte le società da un unico dipendente (fosse o meno la dipendente COGNOME); in buona sostanza la RAGIONE_SOCIALE non era altro che un soggetto cartolarmente interposto », così ritenendo , con l’espressa indicazione degli elementi fattuali sopra indicati, raggiunta la prova della consapevolezza e partecipazione da parte della società RAGIONE_SOCIALE alle operazioni fraudolenti poiché in particolare faceva parte dello stesso gruppo societario della società cedente e le società del gruppo facevano capo alla stessa compagine sociale con comunanza pure di amministratori, di mezzi e di strutture amministrative, in assenza di qualsiasi struttura aziendale in capo alla società RAGIONE_SOCIALE
2.3 Ciò conformemente ai principi statuiti da questa Corte secondo cui « qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad
evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto » (cfr. Cass., 31 gennaio 2022, n. 2922; Cass., 20 luglio 2020, n. 15369; Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; Cass., 20 aprile 2018, n. 9851) e che « L’onere probatorio dell’amministrazione ben può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (è, cioè, una cartiera), costituendo ciò, di per sé, elemento idoneamente sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, poiché l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente » e che « Esclusa, infatti, una connotazione aprioristica e generalizzante di idoneità probatoria sul piano soggettivo alla sola qualità oggettiva di cartiera del soggetto interposto (in ciò superando il rigore dei citati precedenti), non può peraltro escludersi che l’effettività, suffragata da obbiettivi riscontri, dell’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti possa rientrare nel novero degli elementi, afferenti alla sfera del destinatario, su cui assolvere l’onere probatorio dell’Amministrazione » (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851, in motivazione).
2.4 In realtà con la censura formulata ancora una volta la società ricorrente mira a contestare l’accertamento in fatto operato dalla Commissione tributaria regionale, insindacabile in questa sede, stante che, come già detto, la valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all ‘apprezzamento discrezionale del giudice di merito (cfr. Cass., 19 luglio 2021, n. 20553).
Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione ed errata applicazione degli artt. 19 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972. La sentenza in epigrafe aveva confermato la pronuncia di primo grado ritenendo, erroneamente,
che l’asserita inesistenza soggettiva del credito maturato in capo alla società RAGIONE_SOCIALE e il preteso utilizzo dello stesso per finalità illecite fossero definitivamente accertate e, quindi, idonee a giustificare la contestata indetraibilità dell’imposta. La pronuncia, pertanto, era censurabile per violazione del principio della detrazione Iva che, secondo l’attuale disciplina comunitaria in materia di IVA, costituiva il principio cardine alla base dell’imposta, in quanto atto a garantirne la neutralità.
3.1 Anche il terzo motivo è infondato.
3.2 In proposito va rilevato che questa Corte, partendo dalla premessa che ai fini della ripartizione dell’onere della prova, occorre considerare che il diniego del diritto di detrazione segna un’eccezione al principio di neutralità dell’Iva che tale diritto costituisce, ha affermato che incombe, in primo luogo, sull’Amministrazione finanziaria provare che, a fronte dell’esibizione del titolo, difettano, le condizioni, oggettive e soggettive, per la detrazione e che, una volta raggiunta questa prova, spetterà al contribuente fornire la prova contraria, ossia di aver svolto le trattative in buona fede, ritenendo incolpevolmente che le merci acquistate fossero effettivamente rifornite dalla società cedente (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851, citata).
3.3 In particolare, questa Corte, nella sentenza n. 9851 del 2018, citata, ha precisato che:
-) la prova che deve essere fornita dall’Amministrazione in caso di operazioni soggettivamente inesistenti si incentra su due circostanze di valenza costitutiva rispetto alla pretesa erariale: l’alterità soggettiva dell’imputazione delle operazioni, ovvero il soggetto formale non è quello reale; il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione si inseriva in una evasione Iva, non è, dunque, necessaria la prova della partecipazione all’evasione ma è sufficiente, e necessario, che il contribuente avrebbe dovuto esserne consapevole;
-) la prova può ritenersi raggiunta se l’Amministrazione fornisce attendibili indizi idonei ad integrare una presunzione semplice e, dunque, non occorre la prova «certa» e incontrovertibile di ogni operazione e dettaglio, ovvero l’Amministrazione può assolvere al suo onere probatorio anche mediante presunzioni, come prevede per l’Iva l’art. 54, secondo comma, d.P.R. n. 633 del 1972 e, per le imposte dirette, l’art. 39, primo comma, lett. d, d.P.R. n. 600 del 1973) e mediante elementi indiziari;
-) è sufficiente che gli elementi forniti dall’Amministrazione si riferiscano anche solo ad alcune fatture o circostanze rilevanti per la qualificazione della società interposta come cartiera (quali ad es. la mancanza di sede, la mancanza di iscrizione, l’omesso versamento delle imposte) ovvero a singole indicazioni significativamente riferibili alla sfera di conoscenza o conoscibilità dell’imprenditore;
-) l’onere dell’Amministrazione finanziaria sulla consapevolezza del cessionario va dunque ancorato al fatto che questi, in base ad elementi obbiettivi e specifici, che spetta all’Amministrazione individuare e contestare, conosceva o avrebbe dovuto conoscere che l’operazione si inseriva in una evasione all’Iva e che tale conoscibilità era esigibile, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione.
-) raggiunta tale prova, è onere del contribuente dimostrare, oltre all’effettività del suo interlocutore, la propria buona fede, ossia, « di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto -secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto », non permettendo una diversa
conclusione neppure gli accertamenti eventualmente effettuati ed attesa l’inesigibilità di ulteriori e più approfondite verifiche;
-) l’onere probatorio incombente sul destinatario può essere articolato su una pluralità di livelli e può investire sia l’asserito carattere di anomalia degli elementi posti in evidenza dal Fisco, sia l’attività conoscitiva preventiva eventualmente posta in essere da cui emergeva, in ordine all’effettività ed operatività dell’impresa interposta, un esito tranquillizzante, mentre non potevano essere esperibili, né tantomeno esigibili, accertamenti più incisivi;
-) è, invece, priva di rilievo tanto la prova sulla regolarità formale delle scritture, quanto sulle evidenze contabili dei pagamenti quanto, infine, sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio perché i prezzi di vendita erano conformi o superiori alla media di mercato, perché si tratta di circostanze, le prime, già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente (e relative a dati e documenti facilmente falsificabili), e, l’ultima, perché riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sé a dimostrare l’estraneità alla frode.
3.4 Ancor più specificamente questa Corte ha evidenziato che « In tema di evasione dell’IVA a mezzo di frodi carosello, quando l’operazione soggettivamente inesistente è di tipo triangolare, poco complessa e caratterizzata dalla interposizione fittizia di un soggetto terzo tra il cedente comunitario ed il cessionario italiano, l’onere probatorio a carico della Amministrazione finanziaria, sulla consapevolezza da parte del cessionario che il corrispettivo della cessione sia versato al soggetto terzo non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta, è soddisfatto dalla dimostrazione che l’interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata alla prestazione fatturata, mentre spetta al contribuente-cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce, ritenendo
incolpevolmente che essa fosse realmente fornita dalla persona interposta » (Cass., 21 aprile 2017, n. 10120; Cass., 30 ottobre 2018, n. 27629).
3.5 E’ utile, in ultimo, precisare che l ‘operazione soggettivamente inesistente si configura, invero, sia quando l’emittente della fattura non sia un soggetto passivo di imposta, sia quando la falsità delle fatture riguarda operazioni avvenute tra soggetti diversi da quelli che appaiano nella documentazione; segnatamente, nel caso in cui l’Amministrazione ritenga che la fattura attenga ad operazioni solo soggettivamente inesistenti, e cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente sia stato realmente destinatario), la detraibilità dell’IVA deve essere, in linea di principio, esclusa, venendo a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione, costituito dall’effettuazione di un’operazione ai sensi dell’art. 19, comma 1, d.P.R. n. 633 del 1972, presupposto da ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione (Cass., 13 novembre 2009, n. 23987 del 2009; Cass., 12 marzo 2007, n. 5719).
3.6 Anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, di recente, in materia di governo delle prove allegate dalle parti in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, ha affermato che: « 26. Come ricordato in più occasioni dalla Corte, la lotta contro evasioni, elusioni ed eventuali abusi costituisce un obiettivo riconosciuto e incoraggiato dalla direttiva 2006/112. A tale riguardo, la Corte ha stabilito che i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell’Unione e che, pertanto, spetta alle autorità e ai giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione se è dimostrato, alla luce di elementi obiettivi, che tale diritto viene invocato in modo fraudolento o abusivo (v., in tal senso, sentenze del 6 luglio 2006, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, C439/04 e C-440/04, EU:C:20 06:446, punti 54 e 55, nonché dell’11 novembre 2021, RAGIONE_SOCIALE, C-281/20, EU:C:2021:910, punto 45 e giurisprudenza ivi citata). 27. Per
quanto riguarda l’evasione, secondo una giurisprudenza costante il beneficio del diritto a detrazione deve essere negato non solamente quando un’evasione dell’IVA sia commessa dal soggetto passivo stesso, ma anche qualora si dimostri che il soggetto passivo, al quale sono stati ceduti i beni o prestati i servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con l’acquisto di tali beni e servizi, partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA (v., in tal senso, sentenze del 6 luglio 2006, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, C-439/04 e C-440/04, EU:C:2006:446, punto 59; del 21 giugno 2012, COGNOME e COGNOME, C-80/11 e C142/11, EU:C:2012:373, punto 45, nonché dell’11 novembre 2021, Ferimet, C-281/20, EU:C:2021:910, punto 46). 28. La Corte ha altresì ripetutamente precisato, con riferimento a casi in cui le condizioni sostanziali del diritto a detrazione erano soddisfatte, che il beneficio del diritto a detrazione può essere negato al soggetto passivo soltanto qualora si dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che questi sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con l’acquisto dei beni e servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, lo stesso partecipava a un’operazione che si iscriveva in una siffatta evasion e commessa dal fornitore o da altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena delle cessioni o prestazioni (sentenza dell’11 novembre 2021, Ferimet, C -281/20, EU:C:2021: 910, punto 48 e giurisprudenza ivi citata). 29. A tale riguardo, la Corte ha infatti stabilito che non è compatibile con il regime del diritto a detrazione previsto dalla direttiva 2006/112 sanzionare con il diniego di tale diritto un soggetto passivo che non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si iscriveva in un’evasione commessa dal fornitore, o che un’altra operazione nell’ambito della catena delle cessioni, anteriore o posteriore a quella realizzata da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’IVA, posto che l’istituzione di un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell’Erario (sentenza dell’11 novembre 2021, Ferimet, C -281/20, EU:C:2021:910, punto 49 e giurisprudenza ivi citata). 30. Inoltre, secondo una giurisprudenza costante della Corte, poiché il diniego del diritto a detrazione è un’eccezione all’applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce, incombe alle autorità tributarie dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi che consentono di concludere che il soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una simile evasione. Spetta poi ai giudici nazionali verificare se le amministrazioni f inanziarie interessate abbiano dimostrato l’esistenza di detti elementi oggettivi (sentenza dell’11 novembre 2021, COGNOME, C -281/20, EU:C:2021:910, punto 50 e giurisprudenza ivi citata). 31. Poiché il diritto dell’Unione non prevede norme relative
alle modalità dell’assunzione delle prove in materia di evasione dell’IVA, tali elementi oggettivi devono essere stabiliti dall’autorità tributaria secondo le norme in materia di prova previste dal diritto nazionale. Tuttavia, tali norme non devono pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione (sentenza dell’11 novembre 2021, Ferimet, C -281/20, EU:C:2021:910, punto 51 e giurisprudenza ivi citata). 32. Dalla giurisprudenza rammentata ai punti da 27 a 31 della presente sentenza deriva che il beneficio del diritto a detrazione può essere negato a tale soggetto passivo solo se, dopo aver proceduto ad una valutazione globale di tutti gli elementi e di tutte le circostanze di fatto del caso di specie, effettuata conformemente alle norme in materia di prova del diritto nazionale, è accertato che quest’ultimo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in una siffatta evasione. Il beneficio del diritto a detrazione può essere negato solo qualora tali fatti siano stati sufficientemente dimostrati con mezzi che non siano supposizioni (v., in tal senso, sentenza dell’11 novembre 2021, Ferimet, C-281/20, EU:C:2021:910, punto 52 e giurisprudenza ivi citata). 33. Se ne deve dedurre che l’autorità tributaria che intende negare il beneficio del diritto a detrazione deve dimostrare in modo adeguato, conformemente alle norme in materia di prova previste dal diritto nazionale e senza pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione, sia gli elementi oggettivi che provino l’esistenza dell’evasione stessa dell’IVA, sia quelli che dimostrino che il soggetto passivo ha commesso tale evasione o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in detta evasione » (cfr. Corte di Giustizia dell’Unione Europea, 1 dicembre 2022, in C-512/21, paragrafi 26 -33).
3.7 Ancora, contrariamente a quanto affermato dalla società ricorrente, va evidenziato che le Sezioni Unite hanno osservato che il credito, che nasce « dal coacervo delle poste detraibili che prevalgano sul debito, e che quindi eccedano l’imposta liquidata, esiste in quanto ne sussistano i fatti generatori, sicché non è sufficiente che sia esposto in dichiarazione, né è necessario che sia accertato dall’amministrazione», «né l’inerzia può equivalere al riconoscimento implicito del credito, per l’assenza di fatti impeditivi o preclusivi del rimborso, in ragione di un obbligo dell’amministrazione di attivarsi, derivante anche dalla combinazione dei commi 2 e 5 dell’art. 6 dello statuto dei diritti del contribuente. Al contrario, il legislatore prende sì
in considerazione l’inerzia, ma assegna ad essa il significato di rifiuto tacito, in quanto tale impugnabile », con la conseguenza che «l’omesso esercizio del potere di controllo non determina alcun effetto accertativo del credito vantato, che può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato » (Cass., Sez. U., 29 luglio 2021, n. 21766).
3.8 Si tratta, dunque, di una ricostruzione coerente e conforme con i principi unionali di proporzionalità ed equivalenza, nonché con il principio di neutralità dell’Iva atteso che proprio la possibilità per l’amministrazione di contestare la sussistenza del credito di imposta Iva, anche indipendentemente dal decorso del termine di decadenza contemplato dall’art. 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, è volta a scongiurare il riconoscimento di crediti Iva inesistenti, che, questo sì, si porrebbe in contrasto col principio di neutralità (Cass., 11 aprile 2002, n. 11698 e, più di recente, Cass., 18 luglio 2023, n. 20737).
4. Il quarto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per la violazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 14 della legge n. 537 del 1993, come modificato dall’art . 8, commi 1, 2 e 3, del decreto legge n. 16 del 2012, e 109 del d.P.R. n. 917 del 1986. I giudici di secondo grado avevano omesso di pronunciarsi sulla doglianza, sollevata con il terzo motivo dell’appello, con la quale la società ricorrente aveva rilevato l’illegittimità della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva confermato le rettifiche operate ai fini delle imposte dirette. Nella fattispecie, dalla lettura integrale dell’impugnato avviso di accertamento, non si rilevava alcun riferimento ad un qualsiasi procedimento penale in corso, né ad una eventuale azione penale promossa dal Pubblico Ministero o ad un decreto che disponeva il giudizio ex art. 424 cod. proc. pen. o ancora ad una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. Risultavano, dunque, del tutto assenti le condizioni di procedibilità per poter
muovere, a qualsiasi titolo, una contestazione relativa alla indeducibilità dei costi da reato in capo alla società RAGIONE_SOCIALE
4. Il motivo è inammissibile
4.1 Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., è necessario, da un lato, che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile (Cass., 13 ottobre 2022, n. 29952; Cass., 12 ottobre 2017, n. 23930; Cass., 27 ottobre 2014, n. 22759; Cass., 16 marzo 2013, n. 6835), e, dall’altro, che tali istanze siano riportate puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, nel ricorso per cassazione, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, ≪ in primis ≫ , la ritualità e la tempestività ed, in secondo luogo, la decisività delle questioni prospettatevi (Cass., 8 giugno 2016, n. 11738; Cass., 4 luglio 2014, n. 15367; Cass., 4 marzo 2013, n. 5344).
4.2 Con riferimento, poi, al vizio denunciato in questa sede, è stato affermato che il vizio di ultrapetizione, risolvendosi nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, integra un «error in procedendo» in relazione al quale la Suprema Corte ha il potere-dovere di esaminare direttamente gli atti di causa e, in particolare, le istanze e le deduzioni formulate in giudizio dalle parti. Il dovere di riesame del fatto processuale, tuttavia, non implica anche quello della sua ricerca, salvo che non vengano denunciati vizi rilevabili d’ufficio, tra i quali non rientra quello di ultra o extrapetizione. La parte che richiede un tale riesame, quindi, ha l’onere – per il principio dell’autosufficienza del ricorso per cassazione – al quale è condizionato
il potere inquisitorio del giudice di legittimità, di specificare tutti i riferimenti necessari per individuare l’asserita violazione processuale, onde evitare che la sua censura si risolva in una affermazione apodittica, priva di qualsiasi sussidio fattuale e logico riscontrabile nel ricorso (Cass., 3 marzo 2008, n. 5743; Cass., 23 gennaio 2004, n. 1170).
4.3 Inoltre, non ricorre il vizio di omesso esame di un punto decisivo della controversia se l’omissione riguarda una tesi difensiva o un’eccezione che, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto della tesi o dell’eccezione, sicché il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento ( art. 112 cod. proc. civ.), bensì come violazione di legge e come difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto (Cass., 14 marzo 2018, n. 6174; Cass., 6 novembre 2020, n. 24953 e, più di recente, Cass., 8 maggio 2023, n. 12131).
4.4 Ciò posto, nel caso in esame, senza prescindere dal rilievo formulato dall’Agenzia controricorrente, che nel caso di specie l’azione penale intrapresa nei confronti della società emerge dalla stessa rubrica del ricorso per cassazione dove è stato richiamato il procedimento penale RCNR n. 48015/08, rileva un difetto di autosufficienza della censura sia perché la società ricorrente non ha trascritto lo specifico contenuto della sentenza di primo grado che assume avere attinto con il terzo motivo di appello, né ha trascritto per intero il terzo motivo di appello, riportandone solo in parte il contenuto alle pagine 22 e 23 del ricorso per cassazione, onere necessario anche alla luce del contenuto del terzo motivo riportato a pag. 12 della sentenza impugnata [« 3) la violazione e falsa applicazione
dell’art.39 co.1 D.P.R.600/73 e 2697 e 2727 c.c., stante l’insussistenza nel merito della pretesa tributaria (motivi nn.9 e 10 del ricorso)»] e del contenuto dei motivi 9 e 10 riportati a pag. 4 della stessa sentenza («9) la illegittimità dell’atto impugnato per grave vizio motivazionale in relazione agli artt. 56 D.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 e 7 della legge n. 212 del 27 luglio 2000 fondandosi l’intero accertamento sul presupposto della inesistenza dell’originario credito d’imposta riveniente dal 2007 e degli acquisti effettuati dalla società (quelli in cui venditrice era la COGNOME); inoltre, per aver richiamato le decisioni della Corte di Cassazione relative ai procedimenti instaurati in sede penale dalla IMI Sud avverso il procedimento di sequestro per equivalente conseguente alla contestazione del reato di indebita compensazione (cioè una questione del tutto diversa dalla inesistenza del credito IVA di 146 milioni di euro della COGNOME), ciò in violazione del principio del “doppio binario” che esclude ogni pregiudizialità giuridica tra il processo e penale e quello tributario; 10) violazione degli artt. 39, co.1, D.P.R, n. 600/73, 2697 e 2727 c.c. non avendo l’Ufficio provato la pretesa tributaria avendola basata sulla presunta inesistenza di operazioni fondata sulla presunta inesistenza del credito IVA di 146 milioni di euro quindi su una non consentita presumptio de presumptio – e nella totale assenza di elementi concreti. Ed infatti non provata era la natura fittizia della Dagar e, comunque, anche a volerla considerare dimostrata, neppure sarebbe stato possibile disconoscere il diritto alla detrazione da parte della ricorrente senza prima dimostrare il suo coinvolgimento nel progetto frodatorio posto in essere dalla Dagar, progetto neppure provato. Né tale prova poteva essere rinvenuta nella trasformazione della IMI SUD in una “scatola vuota” circostanza questa non dimostrata in quanto le operazioni poste in essere o non erano idonee allo scopo (affitto e poi cessione di ramo di azienda e non dell’intera azienda; riduzione del capitale sociale, operazione alla quale l’Ufficio, in quanto creditore, non si era nel termine di novanta giorni dalla iscrizione nel registro delle imprese; mancato ricorso al credito bancario sostituito da erogazioni infruttifere da parte dei soci, perfettamente legittime)», che depongono, unitamente alla specifica formulazione del quarto motivo del ricorso per cassazione, per la prospettazione dell’omessa pronuncia di una tesi difensiva della società ricorrente.
Il quinto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per avere i Giudici di secondo grado omesso di pronunciarsi rispetto alla richiesta (formulata a pag. 39 dell’atto di appello) di rideterminazione delle sanzioni in applicazione del
principio di proporzionalità tipizzato nell’art. 7, comma 4, del decreto legislativo n. 472 del 1997, introdotto dal decreto legislativo n. 158 del 2015.
5.1 Anche questo motivo è inammissibile, dovendosi ancora una volta richiamare l’ orientamento di questa Corte secondo cui, affinché possa utilmente dedursi in sede di legittimità un vizio di omessa pronunzia, ai sensi dell’art. 112 cod. proc. civ., è necessario che al giudice del merito siano state rivolte una domanda od un’eccezione autonomamente apprezzabili, ritualmente ed inequivocabilmente formulate, per le quali quella pronunzia si sia resa necessaria ed ineludibile (Cass., 13 ottobre 2022, n. 29952; Cass., 12 ottobre 2017, n. 23930; Cass., 27 ottobre 2014, n. 22759; Cass., 16 marzo 2013, n. 6835).
5.2 Così non è nel caso di specie, come si ricava dalla lettura del motivo di appello, trascritto alle pagine 27 e 28 del ricorso per cassazione, dove la società ricorrente si è soltanto limitata a citare la norma di cui all’art. 7, comma 4, del decreto legislativo n. 472 del 1997 solo nella parte finale della censura, senza specifiche allegazioni rispetto al caso concreto idonee a influire sui parametri di commisurazione della sanzione e specificamente delle «circostanze eccezionali» che la norma, applicabile ratione temporis , prevede al fine di operare la riduzione della sanzione al 50%, difetto di specificità della censura che comportava , peraltro, l’inammissibilità del motivo di appello.
5.3 Ed invero, come questa Corte ha già precisato, la norma dell’art. 7, comma 4, del decreto legislativo n. 472 del 1997 consente di ridurre la sanzione fino alla metà del minimo, quando concorrono eccezionali circostanze (nel caso di specie del tutto obliterate) che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione stessa (Cass., 20 febbraio 2019, n. 4927; Cass., 13 dicembre 2017, n. 29998; Cass., 4 marzo 2011, n. 5209).
5.4 Inoltre, è stato pure affermato il principio, applicabile anche al caso in esame, che « In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, le modifiche apportate dal d.lgs. n. 158 del 2015 non operano in maniera generalizzata in “favor rei”, rendendo la sanzione irrogata illegale, sicché deve escludersi che la mera deduzione, in sede di legittimità, di uno “ius superveniens” più favorevole, senza specifiche allegazioni rispetto al caso concreto idonee ad influire sui parametri di commisurazione della sanzione, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata » (Cass., 30 novembre 2018, n. 31062; Cass., 9 giugno 2017, n. 14407) e che « La modifica normativa in esame, dunque, non opera in maniera generalizzata in favor rei, con la conseguenza che la mera affermazione di uno ius superveniens più favorevole non consente di operare sic et simpliciter la trasformazione della sanzione irrogata in sanzione illegale, specie in assenza di specifica deduzione dell’applicabilità in concreto di una sanzione tributaria inferiore rispetto a quella applicata » (Cass., 12 aprile 2017, n. 9505; Cass., 28 giugno 2018, n. 17143).
5.5 Anche la Corte Costituzionale, più di recente, ha affermato che « Al fine di ricondurre le sanzioni in concreto irrogate entro limiti di proporzionalità e ragionevolezza, l’Amministrazione finanziaria e i giudici devono tenere conto delle potenzialità offerte dall’art. 7 del D.Lgs. n. 472/1997 che, se interpretato in correlazione con l’art. 3 Cost., costituisce una opportuna valvola di decompressione del sistema sanzionatorio. Il comma 4 dell’art. 7 non va letto atomisticamente, ma in rapporto con il comma 1. Per la riduzione della sanzione fino alla metà non rileva quindi la sola sproporzione tra sanzione e tributo, ma assumono diretta rilevanza anche la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze »; che « la risposta sanzionatoria non può trascurare di considerare il comportamento del contribuente che, da un lato, abbia tempestivamente presentato la propria dichiarazione, di fatto
rendendosi visibile e facilmente intercettabile dal sistema dei controlli fiscali e, dall’altro, sebbene con ritardo rispetto alle scadenze legali, ma comunque prima di ricevere gli avvisi di accertamento, abbia interamente versato le imposte. In evenienze tali, occorre che il comma 4 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 472 del 1997 non venga letto atomisticamente, ma in rapporto con il comma 1 della medesima disposizione, poiché in questi termini il perimetro di applicazione del comma 4 viene dilatato, considerando, tra le circostanze – non più necessariamente “eccezionali” – che possono determinare la riduzione fino al dimezzamento della sanzione, quanto indicato nel comma 1 di tale articolo, e in particolare la condotta dell’agente e l’opera da lui svolta per l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze» e che «la riduzione della sanzione, attraverso una lettura sistematica dell’art. 1, comma 1, primo periodo, del D.Lgs. n. 471 del 1997 in correlazione con un’interpretazione costituzionalmente orientata dei commi 1 e 4 dell’art. 7 del D.Lgs. n. 472 del 1997, può essere operata già da parte dell’Agenzia delle entrate, poiché questa spesso dispone, fin dal momento della irrogazione della sanzione, degli elementi di valutazione utile al riguardo. In ogni caso ad essa potrà ricorrere il giudice nell’ambito del contenzioso, anche a prescindere da una formale istanza di parte, ogni qual volta sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull’entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo » (Corte cost., 17 marzo 2023, n. 46).
6. Il sesto motivo deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n.4, cod. proc. civ., la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 cod. proc. civ., 295 cod. proc. civ. e 39, comma 1 bis , del decreto legislativo n. 546 del 1992. La sentenza impugnata era nulla per omessa pronuncia in ordine alla ulteriore richiesta di sospensione del giudizio avanzata in relazione al giudizio relativo all’avviso di accertamento n. TEB03T100085, emesso per l’annualità 2007, con il
quale era stata contestata l’inesistenza del credito di imposta indicato dalla società nel Modello Unico 2008 e conseguentemente riportato nel Modello Unico 2009, in quanto sussisteva un evidente rapporto di pregiudizialità e dipendenza logico giuridica tra il presente giudizio e quello instaurato avverso il predetto accertamento. Inoltre, sussisteva un rapporto di pregiudizialità tra il presente giudizio e quello instaurato dalla fornitrice RAGIONE_SOCIALE avverso l’avviso di accertamento n. TEB03T100084/2012, relativo al periodo d’imposta 2007, atto con il quale era stata contestata l’inesistenza del credito di imposta riportato nella dichiarazione per l’annualità 2008 ed utilizzato da detta società in compensazione del debito Iva sorto dalla vendita di materiali effettuata nei confronti della IS nel 2008, oggetto di causa. Giudizio, quest’ultimo, pendente dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione (RG. n. 28293/2016), in quanto laddove fosse stato annullato il predetto atto impositivo, l’unico elemento indiziario a fondamento dell’inesistenza degli acquisti effettuati dalla Imi RAGIONE_SOCIALE nell’annualità 2008 sarebbe stato disatteso, svuotando di significato le contestazioni elevate nell’avviso di accertamento originante il giudizio di cui era causa.
6.1 Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, in quanto la società ricorrente non ha trascritto il contenuto del motivo di appello con il quale ha chiesto la sospensione dei giudizi nn. R.G. 28293 del 2016 e R.G. 2751/2017 e in relazione al qu ale ha lamentato l’omessa pronuncia, ciò tenuto conto che la sentenza impugnata, alla pagina 12, ha richiamato soltanto i ricorsi pendenti in cassazione nn. R.G. 10826/2012 e 8783/2015 e che, a pag. 17 del controricorso, è stato dedotto che la questione era stata formulata nel corso del primo grado del processo, ma non era stata riproposta in appello.
6.2 Ciò senza prescindere da un profilo di carenza di interesse, in quanto i giudizi nn. R.G. 28293 del 2016 e R.G. 2751/2017 sono stati definiti da questa Corte rispettivamente con ordinanze del 6 ottobre 2017, n. 23480 e del 4 dicembre 2019, n. 31636 e senza prescindere
dalla circostanza che la causa di cui al ricorso n. 28293 del 2016 trattava di un regolamento di competenza, quindi una diversa materia del contendere, riguardante un soggetto differente, ovvero la società RAGIONE_SOCIALE dovendosi ribadire il principio secondo cui, ai fini della sospensione del processo, non è configurabile un rapporto di pregiudizialità necessaria tra cause pendenti fra soggetti diversi, seppure, in ipotesi, legate fra loro da pregiudizialità logica, in quanto la parte rimasta estranea ad uno di essi può sempre eccepire l’inopponibilità, nei propri confronti, della relativa decisione (cfr. Cass., 4 dicembre 2019, n. 31636, in motivazione, che richiama anche Cass., 11 agosto 2017, n. 20072 e Cass., 24 maggio 2018, n. 12996); mentre la causa n. 2751/2017, definita con ordinanza del 4 dicembre 2019, n. 31636, pure pendente tra le stesse parti, riguardava avvisi di accertamento relativi ad anni di imposta differenti (2007 e 2008).
6.3 E in proposito deve richiamarsi l’orientamento di questa Corte secondo cui « In tema di contenzioso tributario, deve escludersi la litispendenza tra due procedimenti se in essi il petitum immediato è costituito da due distinti provvedimenti impositivi, ancorché emessi a carico degli stessi soggetti, per il medesimo presupposto di imposta e per il medesimo credito fiscale, poiché tale istituto presuppone identità di petitum, che, nel processo tributario, non può non essere identificato in considerazione della natura impugnatoria dello stesso » (Cass., 14 novembre 2019, n. 29631; Cass., 28 giugno 2012, n. 11046).
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dall ‘Agenzia con troricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore dell ‘Agenzia controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 30.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 4 dicembre 2024.