Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 27039 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 27039 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17170/2016 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, in persona del legale rappresentante e liquidatore pro tempore , Euro Annibali, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. NOME COGNOME (pec: EMAIL, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. prof. NOME COGNOME, sito in Roma, alla INDIRIZZO (pec: eEMAIL);
– ricorrente –
Oggetto : TRIBUTI IVA accertamento ex art. 41-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 operazioni inesistenti
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato (pec: EMAIL), che la rappresenta e difende;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 30/02/2016 della Commissione tributaria regionale dell’UMBRIA, depositata in data 01/02/2016; udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del
24 giugno 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle entrate, sulla scorta delle risultanze di un p.v.c. redatto dalla G.d.F. a carico della ditta COGNOME Maria Serena, con cui RAGIONE_SOCIALE aveva intrattenuto rapporti commerciali, emise nei confronti di quest’ultima un avviso di accertamento ai fini IVA, IRES ed IRAP, ex art. 41-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, con cui contestò alla predetta società contribuente l’utilizzo negli anni d’imposta 2008 e 2009 di fatture relative ad operazioni ritenute oggettivamente inesistenti.
La CTP di Perugia accolse parzialmente il ricorso della società contribuente e la CTR dell’Umbria, con la sentenza in epigrafe indicata, riuniti le separate impugnazioni proposte da entrambe le parti e rigettati, in quanto infondati, «i rilievi in rito» della società appellante, accolse parzialmente entrambi gli appelli.
2.1. Secondo i giudici di appello l’inesistenza delle operazioni commerciali verificate derivava non dalla mancanza di tracciabilità dei pagamenti, come avevano sostenuto i giudici di primo grado, ma dalla non genuinità delle fatture di acquisto esibite. Pertanto, sulla rilevata sussistenza di presunzioni di sovrafatturazione delle merci compravendute, stante l’accertata alterazione materiale di due fatture
(n. 126 del 21/10/2008 e n. 84 del 31/08/2009), divergendo le quantità indicate nelle diverse copie delle fatture per l’aggiunta rispettivamente di uno zero finale e di uno zero all’interno dei dati numerici originariamente esposti, rideterminava i costi deducibili epurati del valore delle suddette fatture.
Avverso la predetta statuizione la società contribuente propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui replica l’intimata con controricorso e ricorso incidentale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso, con cui la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», ovvero «l’eccepita violazione dell’art. 7 L. 212/2000», è inammissibile ed infondato per le ragioni di seguito spiegate.
1.1. La ricorrente sostiene che «la CTR ha omesso di pronunciarsi» (così a pag. 8 del ricorso) sull’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione conseguente alla mancata allegazione allo stesso dei p.v.c. e degli avvisi elevati nei confronti della ditta COGNOME.
La censura, che si risolve nella deduzione di un error in procedendo ex art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., è stata erroneamente ed inammissibilmente dedotta come vizio logico di motivazione ai sensi del n. 5 del primo comma della citata disposizione. Invero, l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico -naturalistico, la cui esistenza risulti dalla sentenza o
dagli atti processuali che hanno costituito oggetto di discussione tra le parti avente carattere decisivo (cfr., da ultimo, Cass. n. 13024/2022), nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente l’omesso esame di una domanda ritualmente introdotta nel giudizio e su cui il giudice di merito ha omesso di pronunciarsi. Va dunque ribadito che il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., con riguardo all’art. 112 cod. proc. civ., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché, proprio com’è avvenuto nel caso in esame, sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge (Cass., Sez. Un., 24/07/2013, n. 17931).
2.1. Ma anche a voler soprassedere sui sopra illustrati profili di inammissibilità, la censura si rivela comunque infondata.
2.2. Si rende necessario premettere che l’orientamento giurisprudenziale in materia di motivazione degli atti impositivi per relationem , che è la fattispecie che ci occupa, è nel senso che l’obbligo legale di motivazione degli atti tributari può essere assolto per relationem , tramite il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione, però, che questi ultimi siano allegati
all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale – per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessari e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente (ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale) di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento – o, ancora, che gli atti richiamati siano già conosciuti dal contribuente per effetto di precedente notificazione (Cass. n. 6914 del 2011; Cass., n. 13110 del 2012; Cass. n. 4176 del 2019; Cass., n. 29968 del 2019; Cass. n. 593 del 2021; Cass. n. 33327 del 2023). Questo orientamento, avente riscontro normativo nell’art. 42, comma 2, ultimo periodo, d.P.R. n. 600 del 1973, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), d.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, secondo cui « Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale », trova ulteriore conferma nella novella di cui al d.lgs. 30 dicembre 2023 n. 219 che ha modificato l’art. 7 della l. n. 212/2000 stabilendo, al comma 1, che « Gli atti dell’amministrazione finanziaria, autonomamente impugnabili dinanzi agli organi della giurisdizione tributaria, sono motivati, a pena di annullabilità, indicando specificamente i presupposti, i mezzi di prova e le ragioni giuridiche su cui si fonda la decisione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, che non è già stato portato a conoscenza dell’interessato lo stesso è allegato all’atto che lo richiama, salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale e la motivazione indica espressamente le ragioni per le quali i dati e gli elementi contenuti nell’atto richiamato si ritengono sussistenti e fondati ». Pare opportuno
precisare che l’onere di allegazione si riferisce esclusivamente agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza (Cass. n. 15327 del 2014) e che, al fine di soddisfare il requisito della motivazione dell’accertamento, è sufficiente che l’atto esterno, richiamato da quello impositivo, sia, se non effettivamente conosciuto, quanto meno conoscibile dal contribuente destinatario dell’avviso.
2.3. Si è, inoltre, affermato che « in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (art. 7, legge 27 luglio 2000, n. 212) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone l’art. 3, comma 3, legge 7 agosto 1990, n. 241: il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia, rinvio nell’atto impositivo e sol perché ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto. Pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione » (Cass. n. 2614 del 10/02/2016; Cass. n. 26683 del 18/12/2009; v. anche Cass. n. 24417 del 05/10/2018).
2.4. In definitiva, l’obbligo di motivazione degli atti tributari, come disciplinato dall’art. 7 della legge n. 212 del 2000, e dall’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, quando faccia riferimento ad un altro atto non
conosciuto né ricevuto dal contribuente (com’è nella specie il p.v.c. redatto nei confronti della ditta emittente le fatture contestate), è soddisfatto dalla riproduzione nell’avviso di accertamento del contenuto essenziale di tale diverso atto, sì da rendere la motivazione idonea a consentire al destinatario dell’atto impositivo di conoscere le ragioni di fatto e di diritto della pretesa erariale, nei suoi elementi essenziali, e, quindi, di poterne contestare efficacemente, in un eventuale giudizio impugnatorio, l'”an” ed il “quantum debeatur” (cfr. Cass. n. 730/2025; n. 34906/2024; n. 26336/2024; n. 24417/2018).
2.5. Ebbene, la stessa ricorrente riferisce in ricorso (v. pag. 2) che l’avviso richiamava, sia pure ‘acriticamente’, il processo verbale di constatazione, in quanto, con riguardo alla fornitrice, evidenziava che NOME COGNOME a fronte di vendite di merci per rilevanti quantità nei confronti delle società riconducibili al sig. COGNOME COGNOME non aveva registrato acquisti di tali beni, né aveva registrato negli anni in questione alcuna rimanenza di magazzino; a tanto, si aggiunge in ricorso con riguardo alla posizione della contribuente, si esponeva nell’avviso che nel corso dell’accesso presso l’abitazione di Monicchi, in esito al quale è stato redatto il pvc del quale si discute, sono state rinvenute fatture che, nella contabilità della contribuente, erano registrate a parità di numero e data di emissione, ma quantità, imponibile ed Iva maggiorati e che il pagamento di queste forniture avveniva con assegni bancari e circolari sistematicamente accompagnati, però, da prelevamenti contestuali in contanti.
2.6. In definitiva, allora, ciò che la contribuente nella sostanza contesta non è la sufficienza della motivazione, ma il contenuto di essa, come del resto traspare dalla chiosa contenuta a pag. 2 (a seguito della riproduzione per stralcio del contenuto dell’avviso), secondo cui ‘l’accertamento impugnato si basava solo su supposizioni e congetture operate dalla GdF…’.
2.7. Al contrario, il profilo dell’allegazione all’atto impositivo degli atti delle indagini finanziarie ai fini della prova della pretesa erariale è recessivo rispetto a quello della sua motivazione alla stregua del principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui «Nel processo tributario, ai fini della validità dell’avviso di accertamento non rilevano l’omessa allegazione di un documento o la mancata ostensione dello stesso al contribuente se la motivazione, anche se resa per relationem , è comunque sufficiente, dovendosi distinguere il piano della motivazione dell’avviso di accertamento da quello della prova della pretesa impositiva e, corrispondentemente, l’atto a cui l’avviso si riferisce dal documento che costituisce mezzo di prova» (Cass. n. 8016/2024; conf. Cass. n. 25321/2024, secondo cui « La motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dall’art. 7 della l. n. 212 del 2002, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an ed il quantum della pretesa tributaria; invece, la prova della pretesa tributaria attiene al diverso piano del fondamento sostanziale della pretesa tributaria ed al suo accertamento in giudizio in presenza di specifiche contestazioni dello stesso »).
2.8. Si è difatti precisato che la verifica ed il p.v.c. riguardanti terzi costituiscono, nei confronti del contribuente a carico del quale sono richiamati, atti istruttori ‘esterni’ rispetto al procedimento accertativo che lo riguardano (tra varie, cfr. Cass. 15/02/23, n. 4726, in motivazione).
2.9. Il motivo è respinto.
Con il secondo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti», ovvero «l’eccepita violazione dell’art. 41bis DPR 600/73».
3.1. Sostiene la ricorrente che la sentenza impugnata in relazione alla contestata sussistenza di elementi certi da cui desumere il maggior reddito accertato, che è presupposto per procedere ad accertamento parziale ai sensi della disposizione censurata, doveva ritenersi viziata «sia sotto il profilo dell’omessa ma anche in virtù dell’erronea applicazione dell’art. 41bis».
Il motivo in esame non si sottrae ai vizi di inammissibilità relativi all’erronea deduzione del paradigma normativo, già rilevati esaminando il primo motivo.
4.1. La censura di violazione dell’art. 41-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 è, comunque, infondata alla stregua del principio giurisprudenziale in base al quale « L’accertamento parziale, che è uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto alle previsioni di cui agli artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le stesse regole, per cui può basarsi senza limiti anche sul metodo induttivo e il relativo avviso può essere emesso pur in presenza di una contabilità tenuta in modo regolare » (Cass. n. 28681/2019).
4.2. Tale principio è stato ribadito da Cass., Sez. 5, ordinanza n. 28681 del 07/11/2019 (Rv. 655548 – 01), e da Cass., Sez. 6 – 5, ordinanza n. 8406 del 04/04/2018 (Rv. 647574 – 01) in cui si è altresì precisato che « L’accertamento parziale non costituisce un metodo di accertamento autonomo rispetto a quello previsto dagli artt. 38 e 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 e 55 del d.P.R. n.633 del 1972, bensì una modalità procedurale che ne segue le medesime regole, sicché il relativo oggetto non è circoscritto ad alcune categorie di redditi e la prova può essere raggiunta anche in via presuntiva: ne deriva che non assume rilievo alcuno il fatto che nel relativo avviso ci si riferisca
erroneamente al predetto art. 39 anziché all’art. 41-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 ».
4.3. Cass. n. 6243 del 05/03/2020 (Rv. 657384 – 01) ha ulteriormente ribadito e precisato che « L’accertamento parziale è dunque uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, laddove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano perciò, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di un ufficio valutativo ulteriore rispetto a quello che si risolve nel recepire e fare proprio il contenuto della segnalazione. Da qui la Corte ha tratto la convinzione, a cui il Collegio ritiene di dover dare continuità, che l’accertamento parziale, normativamente distinto dall’accertamento integrativo, possa basarsi anche su una verifica generale, in quanto “la segnalazione costituisce solo l’atto di comunicazione che consente l’accertamento, distinto dall’attività istruttoria, anche se di modestissima entità, da esso necessariamente presupposta” (Cass. n. 21992 del 2015, cit.; Cass. 13/11/2013, n. 25481; Cass. 26/05/2010, n. 12919; Cass. 05/02/2009, n. 2761). Il ricorso all’accertamento parziale previsto dall’art. 41 bis rappresenta, dunque, uno strumento diretto a perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile, ove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza di attendibili posizioni debitorie; esso può essere legittimamente adottato anche su iniziativa propria dell’ufficio titolare del potere di accertamento generale, essendo irrilevante che la segnalazione provenga da un soggetto estraneo all’amministrazione o da fonti ad essa interne (cfr. Cass., 23685/2018; Cass. 28061/2017; Cass. 27323/2014) ».
4.4. I suddetti principi sono stati recentemente ribaditi da questa Corte nelle ordinanze n. 16089/2025 e n. 16097/2025.
4.5. Va, dunque, rigettata, perché palesemente contraria ai sopra enunciati principi giurisprudenziali, anche la seconda censura prospettata nel motivo in esame, con cui il ricorrente sostiene che « l’art. 41 bis postula il possesso da parte degli uffici di elementi certi da cui desumere errori od omissioni di elementi reddituali, ai quali devono comunque ritenersi estranee le ricostruzioni induttive da cui trae origine la presunzione ex art. 39 del D.P.R. 600/1973 », senza neppure spiegare la ragione per la quale un accertamento parziale non possa considerarsi anch’esso «accertamento ordinario» ed inammissibilmente omettendo di indicare il concreto pregiudizio che avrebbe subito per avere l’amministrazione finanziaria utilizzato una modalità di accertamento piuttosto che un’altra (Cass., Sez. 5, n. 2872 del 03/02/2017, Rv. 642889 – 01).
Con il terzo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’eccepita violazione degli artt. 2697 e 2727 c.c.».
5.1. La ricorrente, nel richiamare i principi giurisprudenziali in materia di operazioni inesistenti, sostiene che la CTR aveva errato nel ritenere che l’amministrazione finanziaria avesse soddisfatto l’onere probatorio su di essa incombente.
Il motivo è infondato e va rigettato.
6.1. Precisato che nella specie la CTR ha accertato l’utilizzo di fatture afferenti ad operazioni commerciali oggettivamente inesistenti, per sovrafatturazione, questa Corte con riguardo alla ripartizione degli oneri probatori, ha affermato (cfr. Cass. n. 7982/2025, in motivazione) che: 1) a fronte della non contestata regolarità formale delle fatture e delle scritture contabili della contribuente, incombe sull’Amministrazione, che ne contesti (ai fini del recupero dell’I.V.A. indebitamente detratta) l’inesistenza oggettiva totale o parziale,
l’onere di provare il carattere fittizio delle operazioni ovvero l’eccessività dei costi sostenuti (arg. da Cass., sez. 5, 6.3.2015, n. 4570); 2) ciò può avvenire anche in forma indiziaria o presuntiva (arg. da Cass., Sez. 6-5, 14.9.2016, n. 18118, Rv. 641109-01); 3) spetta sempre al giudice di merito, tuttavia, di valutare l’opportunità di fare ricorso a presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità (Cass., Sez. 6-5, 8.1.2015, n. 101, Rv. 634118-01; Cass. sez. 5, 26 settembre 2018, n. 22953); 4) a fronte della prova anche in forma indiziaria o presuntiva offerta dall’Amministrazione finanziaria del carattere (anche parzialmente) fittizio delle operazioni fatturate, ‘ è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibile, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili ‘ (Cass., sent. 19352 del 2018; n. 29002 del 2017; n. 428 del 2015; n. 17977 del 2013; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16754 del 2021). Quanto alla prova di cui è onerata l’Amministrazione, e che già dal principio appena riportato si desume possa avere anche solo natura indiziaria, la Corte ha affermato che, ai fini dell’accertamento tributario relativo sia all’imposizione diretta che all’IVA, la legge – rispettivamente art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973 (richiamato dal successivo art. 40 per quanto riguarda la rettifica delle dichiarazioni di soggetti diversi dalle persone fisiche) ed art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 – dispone che l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove ” certe “. Pertanto, il giudice tributario di merito,
investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma esclusivamente per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, ove ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi degli artt. 2727 e ss. e 2697, comma 2,c.c. (Cass., ord. n. 14237 del 2017; Cass n. 11624 del 2020).
6.2. Nella specie la CTR si è attenuta ai suddetti principi correttamente ritenendo che l’amministrazione finanziaria avesse fornito presunzioni gravi, precise e concordanti di sovrafatturazione desumibili dalle alterazioni riscontrate nelle fatture (la n. 126 del 21/10/2008 e la n. 84 del 31/08/2009) acquisite rispettivamente presso la ditta emittente e presso la società contribuente, in base alle alterazioni che ha riscontrato e descritto.
Con il quarto motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 cod. proc. civ. e 2697 e 2700 cod. civ.
7.1. Con riferimento alle due fatture che la CTR ha ritenuto essere dimostrative della sovrafatturazione in quanto alterate, sostiene la ricorrente che nel caso di specie «la CTR ha dato una valutazione del materiale probatorio che va oltre il prudente apprezzamento, traendo illogiche quanto inesatte conclusioni», non essendosi avveduta che «le fotocopie di cui parla la CTR non sono ‘vere fotocopie della fattura registrata in contabilità’ dalla soc. RAGIONE_SOCIALE e poi alterate. Bensì si tratta di DIVERSI DOCUMENTI, rinvenuti presso la COGNOME, redatti dalla fornitrice ma prive di qualsivoglia sottoscrizione», diversamente
da quella rinvenute presso la sede di essa società contribuente che, invece, risultavano sottoscritte da fornitore e ricevente e non presentavano alcun segno di alterazione. «Quello che la CTR chiama alterazione, in realtà, è solo la differenza tra una bozza rimasta presso la fornitrice e la fattura effettivamente consegnata e sottoscritta dalla soc. ricevente al momento della consegna (contenente Nr. di colli peso – firme)».
7.2. Con riferimento alla fattura n. 126 del 2008 sostiene che la fattura registrata nella propria contabilità non presentava alcuna alterazione ed era l’unico documento sottoscritto dalle parti.
7.3. Con riferimento alla fattura n. 84 del 2009 sostiene che «in atti non esiste alcuna presunta ‘fotocopia’ rinvenuta presso la Monicchi», ditta emittente.
Il motivo è inammissibile oltre che infondato.
8.1. È inammissibile in quanto la censura sconfina nella richiesta di una rivalutazione degli elementi che hanno portato la CTR, con un accertamento in fatto di pertinenza esclusiva del giudice di merito, a ritenere provata la sovrafatturazione. Il motivo, in buona sostanza, disvela un vizio motivazionale ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., che, oltre a non essere stato espressamente proposto, è comunque inammissibile in quanto non viene censurato l’omesso esame di un “fatto”, da intendersi quale specifico accadimento in senso storico-naturalistico (Cass. n. 24035/2018), ma, come detto, viene inammissibilmente sollecitata a questa Corte una rivalutazione del materiale probatorio esaminato dal giudice di merito (cfr., ex multis , Cass., Sez. U, n. 24148/2013; Cass. n. 91/2014). Peraltro, è noto che esula dal vizio di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., qualsiasi contestazione volta a criticare il “convincimento” che il giudice di merito si è formato, ex art. 116, commi 1 e 2, cod. proc. civ., in esito all’esame del materiale probatorio ed al conseguente giudizio di prevalenza degli
elementi di fatto, operato mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, essendo esclusa, in ogni caso, una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità (Cass., Sez. 3, 1.6.2021, n. 15276, Rv. 661628-01);
8.2. Quanto al profilo di infondatezza della censura, non coglie nel segno la dedotta violazione dell’art. 2697 cod. civ. in quanto, «in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi», nella specie insussistente, «in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni».
8.3. Non coglie nel segno la pure dedotta violazione dell’art. 2700 cod. civ., dettato in materia di ‘efficacia dell’atto pubblico’, che nella specie non viene in rilievo.
8.4. E, per quanto appena sopra detto (p. 8.1), non coglie nel segno neppure la dedotta violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. Al riguardo, peraltro, va anche ricordato il condivisibile principio affermato da questa Corte, secondo cui, « In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360, n. 4, c.p.c., solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime » e che « Il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti
processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante » (Cass. n. 11892/2016; conf. Cass. n. 34786/2021).
8.5. Ritiene comunque il Collegio di dover precisare che nel caso di specie non è neppure ipotizzabile un travisamento della prova, peraltro neppure adeguatamente dedotto (arg. da Cass., Sez. U, n. 5792/2024), posto che quella riprodotta a pag. 19 non è una ‘bozza di fattura’, quanto piuttosto un documento di trasporto con la firma del trasportatore, senza alcuna indicazione dei prezzi, a differenza, invece, di quanto risultante sulla fattura ‘gonfiata’ n. 126 del 2008 riprodotta a pag. 20, mentre per la fattura n. 84 del 2009, nella sentenza impugnata si fa riferimento a due documenti, «(all. n. 6/7 agli atti di parte pubblica)» che la ricorrente non ha riprodotto nel ricorso né ha dimostrato trattarsi di documenti non conferenti alla questione esaminata.
Venendo al ricorso incidentale, la difesa erariale deduce con un unico motivo la nullità della sentenza impugnata per difetto di motivazione, sub specie di motivazione apparente, in violazione degli artt. 36, n. 4, del d.lgs. n. 546 del 1992 e 132, n. 4, cod. proc. civ., là dove i giudici di appello hanno ritenuto di rigettare l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate affermando che «non risulta fondata la richiesta di integrale conferma degli avvisi impugnati in primo grado né l’accoglimento parziale operato dalla CTP di Perugia».
9.1. La controricorrente lamenta, in buona sostanza, che i giudici di appello hanno omesso di esternare le ragioni per le quali hanno ritenuto oggettivamente inesistenti solo le operazioni commerciali intercorse tra la società contribuente e la ditta COGNOME risultanti dalle
fatture n. 126 del 2008 e n. 84 del 2009, e non tutte le altre fatture oggetto di accertamento.
Il motivo, che è ammissibile anche in considerazione della riproduzione nel ricorso del contenuto dell’atto di appello in cui l’Agenzia delle entrate aveva posto la questione dell’inesistenza di tutte le operazioni oggetto di contestazione, è fondato e va accolto.
10.1. Per costante orientamento di questa Corte, il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre quando il giudice, in violazione di un obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), ossia degli artt. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e 36, comma 2, n. 4, del d.lgs. n. 546 del 1992, omette di illustrare l’ iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, ossia di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata . La sanzione di nullità colpisce, pertanto, non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione da punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e presentano “una motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. U, n. 8053 del 7/4/2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, perché dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione non consente di “comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato”, non assolvendo in tal modo alla finalità di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi ” (Cass. Sez. U., n. 22232 del 3/11/2016). Come questa Corte ha più volte affermato, la motivazione è solo
apparente – e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U, n. 22232 del 2016, cit.; Cass. sez. 6- 5, ord. n. 14927 del 15/6/2017 conf. Cass. n. 13977 del 23/05/2019; Cass. n. 29124/2021). Invero, si è in presenza di una tipica fattispecie di “motivazione apparente”, allorquando la motivazione della sentenza impugnata, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente e, talora, anche contenutisticamente sovrabbondante, risulta, tuttavia, essere stata costruita in modo tale da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio, e quindi tale da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. (tra le tante: Cass., Sez. 1^, 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., Sez. 6^-5, 25 marzo 2021, n. 8400; Cass., Sez. 6^-5, 7 aprile 2021, n. 9288; Cass., Sez. 5^, 13 aprile 2021, n. 9627; Cass., sez. 6-5, 28829 del 2021).
10.2. In tale grave forma di vizio incorre la sentenza impugnata che ha ritenuto inesistenti soltanto le operazioni commerciali riferite a due fatture (la n. 126 del 2008 e la n. 84 del 2009) affermando, con riferimento a tutte le altre operazioni pure intercorse tra la società contribuente e la ditta COGNOME che « non risulta fondata la richiesta di integrale conferma degli avvisi impugnati in primo grado né l’accoglimento parziale operato dalla CTP di Perugia », senza null’altro aggiungere al riguardo.
11. In estrema sintesi, il ricorso principale va rigettato mentre va accolto quello incidentale; la sentenza impugnata va cassata in
relazione al motivo di ricorso incidentale accolto e la causa rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Umbria che provvederà anche a regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il ricorso incidentale e rigetta quello principale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo di ricorso incidentale accolto e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Umbria, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 24 giugno 2025.
La Presidente NOME–NOME COGNOME