Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21236 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 21236 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 12493-2016, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Ricorrente e controricorrente incidentale CONTRO
AZIENDA RAGIONE_SOCIALE IN LIQUIDAZIONE , cf. NUMERO_DOCUMENTO, in persona del liquidatore p.t., elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
Controricorrente e ricorrente incidentale
Avverso la sentenza n. 2309/05/2015 della Commissione tributaria regionale dell ‘Emilia -Romagna, depositata il 9.11.2015; adunanza camerale del 30 aprile udita la relazione della causa svolta nell’ 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
A seguito di verifica fiscale relativa all’anno d’imposta 200 5, l ‘Agenzia delle entrate notificò all ‘RAGIONE_SOCIALE l’ avviso
Operazioni inesistenti – Detraibilità Iva e deducibilità costi – Configurabilità
d’accertamento con cui, contestando l’emissione di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, determinò il maggior imponibile ai fini Ires ed Iva. Pretese in conseguenza maggiori imposte e irrogò sanzioni.
Nello specifico alla società fu contestato l’utilizzo di fatture emesse dalla ditta COGNOME Saverio per l’acquisto di mosto del valore dichiarato di 2.141.476,85 €.
Avverso l’atto impositivo la società propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Ravenna, accolto con sentenza n. 275/02/2011 sull’assunto della regolarità contabile della contribuente. La pronuncia fu impugnata dall’ufficio dinanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia -Romagna, che con sentenza n. 2309/05/2015 ne accolse parzialmente le ragioni.
Il giudice regionale ha ritenuto che gli elementi indiziari allegati dall’Amministrazione finanziaria non fossero sufficienti a confortare l’ipotesi della oggettiva inesistenza delle operazioni. Al contrario, ha ritenuto che gli elementi presuntivi consentissero di inquadrare le operazioni tra quelle soggettivamente inesistenti. Pertanto, confermando in parte la decisione di primo grado, ha rigettato l’appello erariale quanto alla pretesa indeducibilità dei costi incidenti sull’imponibile delle imposte dire tte, a tal fine richiamando l’art. 14, comma 4 -bis, l. 24 dicembre 1993, n. 537, introdotto dal d.l. 2 marzo 2012, n. 16. Ha invece ritenuto fondato l’avviso d’accertamento quanto alla indetraibilità dell’iva a credito, pagata d a ll’RAGIONE_SOCIALE sulle fatture emesse dalla ditta RAGIONE_SOCIALE.
Avverso la sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui ha resistito la società con controricorso, a sua volta spiegando ricorso incidentale per quanto soccombente in appello.
Nell’adunanza camerale del 30 aprile 2025 la causa è stata discussa e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Esaminando il ricorso principale, devono innanzitutto respingersi le eccezioni con le quali la società ha denunciato la sua improcedibilità, per violazione dell’obbligo di allegazione de gli atti richiamati nell’art. 369 c.p.c.
A differenza di quanto sostiene la controricorrente, l’ufficio ha prodotto ed indicato l’esatta collocazione della documentazione elencata in calce al ricorso.
A margine, va ribadito quanto già chiarito da questa Corte, ossia che l’onere del ricorrente di cui all’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., come modificato dall’art. 7 del d. lgs. n. 40 del 2006, è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, anche mediante la produzione del fascicolo di parte del giudizio di merito, mentre per gli atti e i documenti del fascicolo d’ufficio, è sufficiente il deposito della richiesta di trasmissione del fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, ferma in ogni caso l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6 c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Sez. U, 3 novembre 2011, n. 22726; Cass., 29 luglio 2021, n. 21831). Inoltre, con specifico riferimento alle controversie tributarie in sede di legittimità, si è altrettanto correttamente affermato che per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Suprema Corte ex art. 369, terzo comma, c.p.c., a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria. Neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte (Cass., 30 novembre 2017, n. 28695).
Nel caso di specie vi è una precisa indicazione della collocazione della documentazione richiamata dalla difesa erariale.
Non è fondata neppure l’eccezione di inammissibilità ‘per violazione del principio di autosufficienza’. Al contrario di quanto afferma la controricorrente, il ricorso dell’Agenzia delle entrate assolve pienamente al
dovere di specificità, non essendo affatto necessaria la trascrizione integrale degli atti del processo e degli atti difensivi della parte avversa.
Esaminando dunque il merito, con il primo motivo l’Agenzia delle finanze ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 109, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché degli art. 2697, 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Il gi udice d’appello avrebbe erroneamente applicato tanto le regole sull’inerenza dei costi, quanto quelle relative al governo delle prove presuntive, così negando la prospettazione erariale volta a contestare l’oggettiva inesistenza delle operazioni fatturate. La riqualificazione delle operazioni non ha tenuto conto delle allegazioni al processo operate dall’Ufficio.
Il motivo è fondato nei termini appresso chiariti.
Nella sentenza il giudice regionale, dopo aver richiamato i principi generali in materia, ha ritenuto che nel caso di specie fosse errata la pronuncia del giudice di primo grado, che aveva escluso ogni valenza alle dichiarazioni rese da terzi (gli autotrasportatori che avevano negato di aver sottoscritto i documenti di trasporto del mosto consegnato dalla ditta del Giorgitto all’RAGIONE_SOCIALE, negando pertanto il traporto della merce fatturata), riconoscendone al contrario valore indiziario. Sennonché ha ritenuto che tale indizio, da solo non potesse costituire prova della oggettiva inesistenza delle operazioni fatturate. Quindi, esaminando gli altri indizi, parimenti allegati dall’ufficio, ha ritenut o che essi potessero invece fondare la contestazione della soggettiva inesistenza delle operazioni medesime. Ha quindi evidenziato che la collocazione delle operazioni tra quelle soggettivamente inesistenti aveva implicazioni differenti sulle imposte dirette e sull’i va. Sulle prime, infatti, la soggettiva inesistenza non poteva escludere l’indeducibilità dei costi, ai sensi dell’art. 14, comma 4 -bis, della l. 537 del 1993, come novellato dal d.l. n. 16 del 2012. Al contrario, la soggettiva inesistenza delle operazioni non consentiva la detraibilità dell’Iva. Ha pertanto modificato la contestazione portata n ell’atto impositivo, annullandolo per quanto riferibile alla indeducibilità dei costi e confermandolo quanto alla indetraibilità dell’iva.
La motivazione della pronuncia è incorsa in una molteplicità di violazioni.
Intanto, risultano del tutto disattese le regole di governo delle prove presuntive.
Sulle modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, di cui l’ufficio denuncia sostanzialmente un malgoverno, deve innanzitutto ribadirsi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 cod. civ. alla fattispeci e concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ. per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (Cass., 26 gennaio 2007, n. 1715; 5 maggio 2017, n. 10973; 15 novembre 2021, n. 34248; cfr. anche, 13 ottobre 2005, n. 19984). Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertati dalla amministrazione (Cass., 8 aprile 2009, n. 8484; 15 gennaio 2014, n. 656; 26 settembre 2018, n. 23153; 28 aprile 2021, n. 11162), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
La giurisprudenza di legittimità ha comunque tracciato il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento ( ex multis , cfr. Cass., 16 maggio 2017, n. 12002; 12 aprile 2018, n. 9059; 25 ottobre 2019, n. 27410). Ciò che pertanto rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza
della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Ebbene, nel caso di specie il giudice regionale, a fronte degli elementi complessivamente addotti dall’Agenzia delle entrate, ha prima riconosciuto valenza indiziaria alle dichiarazioni dei terzi autotrasportatori, che hanno negato la consegna di mosto alla società, ma poi, incomprensibilmente, ha ritenuto di valutare isolatamente tale indizio ai fini della qualificazione della natura, oggettiva o soggettiva, della inesistenza delle operazioni, laddove quell’indizio, secondo le regole prima enunciate, avreb be dovuto essere valutato insieme agli altri (cessazione dell’attività della ditta del Giorgitto dopo appena un anno; mancata attività di commercializzazione di vini da parte del Giorgitto in precedenza; imponenti acconti corrisposti al Giorgitto -per milioni di euro-; mancata esibizione da parte del COGNOME ai militari verificatori della documentazione contabile attinente la propria attività commerciale, dichiarandone la sua distruzione in un allagamento della cantina in cui era riposta; mancanza di dipendenti; attività esercitata senza beni strumentali propri, ma con le attrezzature esistenti nel locale-cantina preso in affitto da terzi, ed anticipatamente sgombrato a meno di una anno dalla sua locazione annuale; assenza di indicazioni, da parte del Giorgitto, dei fornitori di uva a cui si rivolgeva per commerciare in materia).
Ebbene, a prescindere dalla abnormità della decisione con la quale la Commissione ha inteso modificare la contestazione erariale della oggettiva inesistenza delle operazioni, fattispecie ontologicamente diversa da quella della soggettiva inesistenza, ed a prescindere dalle conclusioni a cui il medesimo giudice avrebbe potuto pervenire prima di escludere l’inesistenza oggettiva delle operazioni, sarebbe stato suo compito valutare gli indizi, individualmente e nel loro insieme, secondo i consolidati principi enunciati dalla Corte di legittimità.
La sentenza incorre inoltre nell’ error iuris in iudicando anche con riguardo alle regole di distribuzione dell’onere della prova in tema di operazioni inesistenti, nonché in tema di deducibilità dei costi o detraibilità dell’Iva.
Il giudice regionale, dopo aver riqualificato la fattispecie giuridica contestata dall’Amministrazione finanziaria, nel richiamare l’art. 14, comma 4-bis cit., ha definito la controversia, affermando che nelle operazioni
RGN 12493/2016
soggettivamente inesistenti l’iva resta indetraibile, mentre i costi sono deducibili ai fini delle imposte dirette.
Le conclusioni, così come formulate, non sono esaustive quando non del tutto errate.
La giurisprudenza di legittimità, a seguito della introduzione dell’art. 8, comma 2, del d.l. n. 16 del 2012, convertito con modificazioni in l. n. 44 del 2012, e della conseguente novella che ha interessato l’art. 14, comma 4 bis, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, ha chiarito il significato, la portata ed i limiti interpretativi della disciplina regolatrice le operazioni inesistenti, soggettivamente ed oggettivamente tali, anche quando relazionate a condotte penalmente rilevanti.
Nello specifico l’art. 8 prevede che «1. Il comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, è sostituito dal seguente: “4-bis. Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi”. 2. Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti
dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso si applica la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi. In nessun caso si applicano le disposizioni di cui all’articolo 12 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, e la sanzione è riducibile esclusivamente ai sensi dell’articolo 16, comma 3, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. 3. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto anche degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti emessi in base al citato comma 4-bis previgente non si siano resi definitivi. Resta ferma l’applicabilità delle previsioni di cui al periodo precedente ed ai commi 1 e 2 anche per la determinazione del valore della produzione netta ai fini dell’imposta regionale sulle attività produttive».
Ebbene, si è chiarito che ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, della l. n. 537 del 1993 – nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16 del 2012, cit. – l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, anche nell’ipotesi in cui sia consapevole del loro carattere fraudolento, salvi i limiti derivanti, in virtù del d.P.R. n. 917 del 1986, dai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, mentre è esclusa la deducibilità dei costi delle operazioni oggettivamente inesistenti (Cass., 7 dicembre 2016, n. 25249; 6 luglio 2018, n. 17788; 15 marzo 2022, n. 8480). Un ulteriore limite alla deducibilità è dunque relazionato alla diretta utilizzazione di quei costi o spese per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo. È stato a tal fine chiarito che in tema di tassabilità dei proventi da attività illecita, a norma dell’art. 14, comma 4 bis, della l. n. 537 del 1993, nella formulazione introdotta dall’art. 8, comma 1, cit., norma integrante ius superveniens, astrattamente più favorevole al contribuente e quindi avente efficacia retroattiva, l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, con la richiesta di rinvio a giudizio, è sufficiente ad escludere la deducibilità dei costi e delle spese dei beni o delle prestazioni di
servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31789; 1 aprile 2021, n. 9077; 20 ottobre 2021, n. 29142; 15 settembre 2023, n. 26678; 19 marzo 2024, n. 7275; 6 febbraio 2025, n. 2951). Ed ancora che, ai sensi dell’art. 14, comma 4-bis, cit., devono ritenersi costo o spesa direttamente “utilizzati” per il compimento del delitto, ed in quanto tali non deducibili, anche quelli sostenuti in un momento successivo al perfezionamento della fattispecie delittuosa ogni qual volta il loro sostenimento trovi titolo nell’assunzione, da parte dell’agente, di una obbligazione strutturalmente funzionale alla realizzazione del delitto (Cass., 28 dicembre 2017, n. 31059; 5 dicembre 2019, n. 31789; 1 settembre 2022, n. 25686; 15 ottobre 2024, n. 26786).
Peraltro, si è avvertito che l’indeducibilità dei costi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitti non colposi non discende in modo “automatico” dalla declaratoria di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione del reato, spettando al giudice tributario valutare incidentalmente la rilevanza penale della condotta (Cass., 4 aprile 2019, n. 9419).
Quanto poi alle operazioni oggettivamente inesistenti, la giurisprudenza ha intanto chiarito che la disposizione di cui all’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16, cit., secondo cui non sono ammessi in deduzione costi e spese di beni o prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo, è invocabile soltanto in caso di operazioni soggettivamente inesistenti e non anche in caso di operazioni oggettivamente inesistenti. Quanto a queste ultime invece, grava sul contribuente l’onere di provare la natura fittizia dei componenti positivi del reddito che, ai sensi dell’art. 8, comma 2, del d.l. cit., siano direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni e servizi non effettivamente scambiati o prestati e non devono pertanto concorrere alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi (Cass., 19 dicembre 2019, n. 33915; cfr. anche 20 aprile 2016, n. 7896; 8 ottobre 2014, n. 21189). Si è infatti ulteriormente chiarito che per le operazioni oggettivamente inesistenti non vi è simmetria, né automatismo biunivoco tra costi per acquisti inesistenti e ricavi dichiarati, ciò che giustifica
l’onere della prova gravante sul contribuente in merito alla corrispondenza tra ricavi e costi attinenti a beni non effettivamente scambiati (Cass., 17 luglio 2018, n. 19000).
La breve illustrazione di alcune delle pronunce evidenzia la complessità della materia e del perimetro entro cui l’interprete deve muoversi in tema di rapporto tra operazioni inesistenti, oggettivamente o soggettivamente, e deducibilità di costi o abbattimento di componenti positive.
Parimenti, in tema di Iva, è qui sufficiente rammentare che quanto alla prova di operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno in una frode carosello, questa Corte ha affermato che qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attenga a tale tipo di operazioni, incombe sulla stessa l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza nel destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione d’imposta dimostrando, anche in via presunt iva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851; 30 ottobre 2018, n. 27566; 20 luglio 2020, n. 15369).
Per le operazioni oggettivamente inesistenti, invece, l’Amministrazione finanziaria che contesti al contribuente l’indebita detrazione, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo. Peraltro, una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere
ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., 14 settembre 2016, n. 18118; 18 ottobre 2021, n. 28628; 10 aprile 2024, n. 9723; cfr. anche Cass., 11 settembre 2024, n. 24456, quanto all’ipotesi di contestazione di operazioni oggettivamente inesistenti e ai conseguenti oneri di controprova del contribuente che voglia contrastare la suddetta contestazione).
D’altronde, con riferimento alla disciplina prevista dall’art. 21, comma 7, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, si è affermato che in caso di operazione soggettivamente inesistente, in difetto di rettifica o annullamento della fattura, sussiste l’obbligo di versamento dell’imposta per l’intero ammontare indicato in fattura, in quanto l’emissione del documento contabile determina l’insorgenza del rapporto impositivo, senza che ciò contrasti con il principio di neutralità dell’IVA, prevalendo la funzione ripristinatoria conseguente alla eliminazione del difetto di rettifica o annullamento della fattura, a meno che non sia stato eliminato in tempo utile qualsiasi rischio di perdita del gettito fiscale derivante dall’esercizio del diritto alla detrazione (Cass., 11 dicembre 2020, n. 28263; 12 marzo 2021, n. 6983; 19 agosto 2020, n. 17335).
Anche con riguardo all’imposta unionale, dunque, il perimetro entro cui si pone la disciplina della detraibilità/indetraibilità dell’imposta presuppone , con evidenza, una valutazione complessa dei principi giuridici che presiedono le regole del caso concreto.
Ebbene, la sentenza ora al vaglio della Corte ha fatto mostra di non tener conto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.
Non ha compreso come governare le prove indiziarie, non ha compreso come regolare la deducibilità dei costi e la detraibilità dell’iva e ciò tanto rispetto all ‘ipotesi, concretamente contestata nell’avviso d’accertamento impugnato, di operazioni oggettivamente inesistenti, quanto a fronte della prospettata ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti.
L’accoglimento del primo motivo assorbe il secondo, con il quale l’Agenzia si è doluta dell’omesso esame ci rca fatti decisivi per il giudizio, che sono stati oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.
La sentenza va dunque cassata.
Con il ricorso incidentale la società ha denunciato la violazione dell’art. 19, d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Nel negare la detraibilità dell’iva anche per l’ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti, il giudice regionale avrebbe violato il principio di neutralità.
Il motivo è assorbito dalle conclusioni appena enunciate con riferimento al ricorso principale, atteso che nel giudizio di rinvio il giudice, alla luce delle regole di governo delle prove presuntive, dovrà verificare la sussistenza o meno di operazioni oggettivamente inesistenti, e dunque la correttezza della contestazione mossa alla contribuente dall’amministrazione finanziaria , esaurendosi l’attività di riesame del giudizio in tale ambito , senza che possa più riconsiderarsi, tanto meno riqualificarsi la fattispecie tra le operazioni soggettivamente inesistenti.
In definitiva, alla cassazione della sentenza segue il rinvio del processo alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Emilia-Romagna, che in diversa composizione, oltre che alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, dovrà riesaminare l’appello erariale, tenendo conto dei principi enunciati da questa Corte.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo. Assorbe il ricorso incidentale. Cassa la sentenza, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di II grado della EmiliaRomagna, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità
Così deciso in Roma, il giorno 30 aprile 2025