Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 2427 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 2427 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 01/02/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 172127-2023, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t. elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis –
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE p.i. P_IVA, in persona del liquidatore, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME presso il cui domicilio digitale EMAIL è elettivamente domiciliata –
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 2981/19/2023 della Corte di giustizia tributaria di II grado della Campania, depositata l’8 maggio 2023 ; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 7 novembre
2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Iva -Op. sogg. inesistenti -Società interposte e meccanismi di evasione iva – Prova
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza impugnata si evince che a seguito di controlli eseguiti da militari della GdF fu notificato alla RAGIONE_SOCIALE l’ avviso d’accertamento, relativo all’ annualità 2016, con cui alla società era stata contestata la partecipazione ad una pluralità di operazioni soggettivamente inesistenti, con conseguente recupero dell’Iva evasa.
Lo schema contestato era quello d ell’ acquisto di carburante da due società, la RAGIONE_SOCIALE , esercente l’attività di ‘Commercio all’ingrosso di prodotti energetici per autotrazione’, e la RAGIONE_SOCIALE, esercente l’attività di ‘Autotrasporto e commercio all’ingrosso di prodotti petroliferi’. La prima delle società, nella ricostruzione erariale, si poneva falsamente quale esportatore abituale, acquistando carburante in esenzione di imposta, mediante presentazione di una falsa lettera di intento, dalla società RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE , per poi fatturare con Iva al reale acquirente, al quale consentiva di detrarre un’imposta non versata dal fornitore; la seconda estraeva il prodotto da un ‘deposito IVA’, gestito sempre dalla società RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE, documentando l’acquisto con autofattura, ma non provvedendo alla liquidazione e al versamento dell’imposta, per poi fatturare con IVA al reale acquirente .
La società propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli, che con sentenza n. 7294/21/2021 accolse le ragioni della contribuente, ritenendo che non fosse stata adeguatamente provata la consapevolezza dell ‘odierna controricorrente della natura frodatoria delle operazioni inesistenti.
La pronuncia fu appellata dinanzi alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Campania, che con sentenza n. 2981/19/2023 respinse le ragioni impugnatorie dell’ufficio. Il giudice di II grado, dopo aver circoscritto i principi regolanti la materia, ha confermato le statuizioni di I grado, ritenendo che l’Agenzia delle entrate avesse mancato di provare che la società fosse consapevole delle operazioni inesistenti in cui era stata coinvolta.
L’Amministrazione finanziaria ha censurato la sentenza, di cui ne ha chiesto la cassazione, sulla base di due motivi, cui ha resistito la società con controricorso.
All’esito dell’adunanza camerale del 7 novembre 2024, La causa è stata riservata e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo l’Agenzia delle entrate ha denunciato la nullità della sentenza per motivazione apodittica e apparente, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ. Il giudice regionale, nel confermare le statuizioni della pronuncia di primo grado, sostenendo che l’Ufficio non ha offerto indizi gravi e precisi sul coinvolgimento della società nelle operazioni contestate, avrebbe reso una motivazione apparente.
Il motivo, che diversamente da quanto sostiene la difesa della controricorrente non è inammissibile, è tuttavia infondato.
S ussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1° marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame, la decisione può essere legittimamente motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata. Essa va invece cassata quando il giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105). La
motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione del quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819).
Nel caso di specie la Commissione regionale, seppur con motivazione sintetica, ha espresso le ragioni per le quali ha ritenuto non raggiunta la prova dell’addebito di responsabilità alla società in ordine alle operazioni soggettivamente inesistenti contestate.
Si tratta, dunque di motivazione che resta al di sopra del minimo costituzionale.
Con il secondo motivo l’ ufficio ha lamentato la «violazione o falsa applicazione dell’art. 54 del DPR 633/72 in combinato disposto con gli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c., ex art. 360, n. 3, c.p.c.» . Il giudice d’appello avrebbe violato le regole di riparto della prova in tema di accertamento di operazioni soggettivamente inesistenti, ignorando peraltro i principi di buona fede e di diligenza esigibile da un operatore economico del settore.
Anche su questo motivo la difesa della società ha ritenuto di eccepire ragioni di inammissibilità. L’eccezione non trova riscontri. È infatti privo di pregio il richiamo al principio della cd. doppia conforme, perché la critica alla decisione impugnata è stata proposta sotto il profilo dell’errore di diritto nell’applicazione delle regole sulle prove presuntive. È peraltro inveritiero che il motivo sia generico, al contrario diffondendosi in modo ampio nell’evidenziare i limiti della sentenza d’appello nel governo delle prove presuntive, alla luce della disciplina invocata e dei criteri interpretativi sulle operazioni soggettivamente inesistenti sono stati illustrati dalla
giurisprudenza di legittimità ed unionale. Né risulta violato il dovere di specificità, come ancora erroneamente assume la controricorrente, atteso il contenuto delle critiche erariali, non invalidate neppure dalla insussistente denuncia di un ricorso confezionato nelle forme usualmente definite ‘sandwich’, ipotesi che invece esula dalla redazione dell’atto di impugnazione erariale.
Nel merito il motivo è fondato.
Va chiarito che in tema di operazioni soggettivamente inesistenti e ai fini Iva, questa Corte ha affermato che, quando l’Amministrazione finanziaria contesta che la fatturazione attenga a tale tipo di operazioni, incombe sulla stessa l’onere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza nel destinatario che l’operazione si sia inserita in una evasione d’imposta. L’ufficio deve cioè, dimostrare, anche in via presuntiva ed in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza, in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente. Ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851; 30 ottobre 2018, n. 27566; 20 luglio 2020, n. 15369).
Più nel dettaglio, si è affermato che in ipotesi di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti, risolventesi nella diretta acquisizione della prestazione da soggetto diverso da quello che ha emesso fattura e percepito l’IVA in rivalsa, con conseguente insorgenza del proprio diritto alla detrazione, la prova che la prestazione non sia stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito di dotazione strumentale e di personale adeguato alla sua esecuzione, costituisce un significativo indice presuntivo, un idoneo elemento sintomatico, dell’assenza di “buona fede” del contribuente, poiché l’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore – fatturante/cessionario o committente), unitamente agli obblighi informativi che pur gravano sull’operator e economico quando si interfaccia con altro operatore, induce
ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole circa l’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta.
In tal caso sarà il contribuente a dover provare di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione non era il fatturante, ma altri, altrimenti dovendosi negare il diritto alla detrazione dell’IVA versata (Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873; 20 luglio 2020, n. 15369).
Costituendo infatti la neutralità dell’imposta, e con essa il diritto alla detrazione dell’imposta corrisposta in rivalsa, principio cardine del sistema comune europeo – come ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia UE (sentenze 6 luglio 2006, in C-439/04 e C-440/04, 6 dicembre 2012, in C285/11, 31 gennaio 2013, in C-642/11) -, non suscettibile di limitazioni in linea di principio, l’Amministrazione finanziaria, quando ritenga che il diritto debba essere negato, attenendo la fatturazione ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare, anche avvalendosi di presunzioni semplici, che le operazioni non sono state effettuate o, nella seconda ipotesi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore.
Nelle ipotesi più semplici, quali appunto le operazioni soggettivamente inesistenti di tipo triangolare, nelle quali l’operatore acquista direttamente -solo sul piano formale- da una cartiera, attesa l’immediatezza dei rapporti l’onere dell’Amministrazione finanziaria può esaurirsi nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale e strumentale, o su altri elementi di agevole percezione. Ciò rileva tanto più ove l’acquisto avvenga a prezzi inferiori a quelli di mercato, con limitati margini di ricarico o in caso di plurime operazioni con lo stesso soggetto o con una pluralità di soggetti.
In quelle più complesse di “frode carosello” (contraddistinte da una catena di passaggi, in cui sono riscontrabili fatturazioni per operazioni inesistenti, con strumentali interposizioni anche di società “filtro”) l’ufficio è onerato dall’allegazione degli elementi di fatto caratterizzanti la frode e la
consapevolezza di essa da parte del contribuente (Cass., 30 ottobre 2013, n. 24426; 21 aprile 2017, n. 10120; 30 ottobre 2018, n. 27629; 27 febbraio 2020, n. 5339).
Solo ove questa prova sia fornita dall’ufficio, spetta al contribuente, che ha portato in detrazione l’iva, la prova contraria di aver concluso realmente l’operazione con il cedente o di essersi trovato nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l’impiego della dovuta diligenza, di abbandonare lo stato d’ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni.
Si afferma infatti che il contribuente, ancorché non coscientemente partecipe di una frode, è tenuto ad adottare comunque tutte le misure ragionevoli in suo potere al fine di assicurare la propria estraneità ad operazioni fraudolente, e ciò richiede non so lo l’assenza di una sua consapevole partecipazione, ma anche l’incolpevole ignoranza dell’operazione inesistente (cfr. anche CGCE, causa C -409/04 –RAGIONE_SOCIALE; da ultimo, con un esame approfondito che ricostruisce anche i precedenti della giurisprudenza euro-unitaria, cfr. CGCE, 1 dicembre 2022, in C-512/21, nei § da 26 a 33).
A tal fine non si considera sufficiente che il contribuente rappresenti la mera regolarità della documentazione contabile e la dimostrazione che la merce sia stata consegnata o il corrispettivo effettivamente pagato, trattandosi di circostanze non concludenti (Cass., 9 settembre 2016, n. 17818), anzi frequentemente utilizzate proprio a mascheramento dell’attività illecita posta in essere.
In ogni caso, salva la pretesa di un maggior rigore probatorio, è certo che a seconda del livello di complessità dell’organizzazione della frode -in base al riscontro di una catena più corta o più lunga rappresentativa del numero di società partecipanti all’illecito -l’accertamento giudiziale del concreto atteggiarsi delle varie fattispecie è generalmente affidato all’allegazione di prove indiziarie, che il giudice è tenuto a vagliare secondo i principi posti a presidio del governo delle prove presuntive.
Ed in questa attività di scernimento l’organo giudicante deve correttamente osservare le regole di riparto della prova.
Nel caso di specie la frode è stata attuata, quanto al primo interposto mediante la falsa prospettazione dell’esercizio dell’attività quale esportatore abituale, acquistando carburante in esenzione di imposta, mediante presentazione di una falsa lettera di intento, dalla società RAGIONE_SOCIALE per poi fatturare con Iva al reale acquirente, al quale consentiva di detrarre un’imposta non versata dal fornitore; quanto alla la seconda società mediante il meccanismo di estrazione del prodotto da un ‘deposito IVA’, gestito sempre dalla società RAGIONE_SOCIALE documentando l’acquisto con autofattura, ma non provvedendo alla liquidazione e al versamento dell’imposta, per poi fatturare con IVA al reale acquirente.
Si tratta di artifici che da soli potrebbe ipotizzarsi di non scontata percezione, ma è altrettanto vero che alcuni elementi erano obiettivamente sospetti: il prezzo del carburante più basso e vantaggioso; la documentazione di accompagnamento del carburante proveniente direttamente dalla RAGIONE_SOCIALE, che era il cedente effettivo; la dichiarazione raccolta dal legale rappresentante della controricorrente in sede di verifica, secondo cui non era stato curato alcun accertamento in ordine alle società interposte, ciò che dovrebbe costituire primaria attività per un qualunque operatore economico che intenda relazionarsi commercialmente con terzi.
Ebbene, r ispetto al materiale offerto dall’Agenzia delle entrate il giudice d’appello si è limitato ad un rinvio alla motivazione della pronuncia appellata, la quale tuttavia era carente proprio sul punto. Ha peraltro rilevato che, pur con dubbi ‘sulla effettiva mancata conoscenza in capo alla società contribuente della illegittimità dell’operazione tutte compiute dalla società con le quali il contribuente intratteneva normali, occasionali o anche lunghi rapporti commerciali, e pur esistendo, sicuramente, degli indizi, anche gravi, gli stessi però non appaiono a questa Corte giudicante sempre contestualmente precisi e concordanti’. Ha quindi affermato che non era superato il ‘dubbio’ che il contribuente fosse in ‘buona fede’.
I n tal modo il giudice d’appello non si è adeguato ai principi di riparto dell’onere della prova, e, sotto il profilo della esistenza dell’elemento psicologico, ha del tutto trascurato che i principi giurisprudenziali, anche
euro-unitari, non richiedono un consapevole coinvolgimento nella frode, ma una mera colpevole inconsapevolezza della condotta illecita, secondo i canoni della responsabilità soggettiva dell’operatore professionale.
Il motivo va in definitiva accolto.
La sentenza va dunque cassata e il processo deve essere rinviato alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Campania che, in diversa composizione, oltre che liquidare le spese di legittimità, dovrà rivalutare le ragioni dell’appello , tenendo conto dei principi di diritto enunciati in sentenza.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta il primo. Cassa la sentenza e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Campania, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il giorno 7 novembre 2024