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Operazioni inesistenti: onere della prova e diligenza

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 1796/2025, ha rigettato il ricorso di un’imprenditrice contro un avviso di accertamento per IVA non versata su operazioni soggettivamente inesistenti. La Corte ha chiarito che l’onere di provare la propria buona fede ricade sul contribuente quando l’Amministrazione Finanziaria fornisce elementi oggettivi (come la cessazione di attività o la sede fittizia del fornitore) che un imprenditore diligente avrebbe dovuto notare. Inoltre, ha ribadito l’importanza del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Operazioni Inesistenti: la Cassazione chiarisce l’onere della prova per la detrazione IVA

La gestione dell’IVA e la scelta dei partner commerciali sono aspetti cruciali per ogni impresa. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione affronta il delicato tema delle operazioni soggettivamente inesistenti, fornendo indicazioni preziose sulla ripartizione dell’onere della prova tra Fisco e contribuente e sul livello di diligenza richiesto a quest’ultimo per non perdere il diritto alla detrazione dell’imposta. Il caso esaminato riguarda un’imprenditrice a cui è stata negata la detrazione IVA a causa di fatture emesse da fornitori risultati fittizi o non operativi, sollevando questioni fondamentali sulla consapevolezza della frode.

I Fatti del Caso

Una titolare di un’impresa individuale si è vista notificare un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate, con cui si contestava una maggiore IVA dovuta per l’anno 2008. Il recupero fiscale era fondato sulla presunta indetraibilità dell’IVA relativa a fatture ricevute da due diverse ditte fornitrici.

Le indagini dell’Amministrazione Finanziaria avevano rivelato gravi anomalie: una delle ditte fornitrici aveva cessato la propria attività prima della data di emissione delle fatture contestate, mentre l’altra risultava in liquidazione, aveva una sede fittizia ed era amministrata da un soggetto irreperibile. Di fronte a questi elementi, l’Ufficio ha qualificato le operazioni come soggettivamente inesistenti, negando il diritto alla detrazione dell’IVA.

L’imprenditrice ha impugnato l’atto, ma sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale hanno confermato, seppur parzialmente, la validità del recupero. La contribuente ha quindi deciso di presentare ricorso per Cassazione, basandolo su due motivi principali.

L’analisi della Cassazione sulle operazioni soggettivamente inesistenti

La Suprema Corte ha esaminato e rigettato entrambi i motivi di ricorso, confermando la legittimità dell’operato dell’Agenzia delle Entrate e della sentenza di secondo grado.

Il Principio di Autosufficienza del Ricorso

Il primo motivo di doglianza lamentava la violazione delle norme sulla motivazione degli atti tributari. L’imprenditrice sosteneva che l’avviso di accertamento fosse illegittimo perché motivato per relationem, ossia facendo riferimento a verbali di controllo effettuati presso terzi senza allegarli all’atto.

La Cassazione ha dichiarato questo motivo inammissibile per violazione del principio di autosufficienza del ricorso. Secondo tale principio, chi ricorre in Cassazione deve riportare nel proprio atto tutte le informazioni e i passaggi testuali dei documenti necessari a comprendere la controversia, senza costringere i giudici a cercare e consultare atti esterni. Poiché la ricorrente non aveva trascritto in modo completo le parti rilevanti dell’avviso di accertamento, la Corte non è stata messa in condizione di valutare la fondatezza della censura.

L’Onere della Prova e la Diligenza dell’Imprenditore

Il secondo motivo, cuore della controversia, riguardava la violazione delle regole sull’onere della prova e del principio di buona fede. La ricorrente sosteneva che la Commissione Tributaria Regionale avesse erroneamente presunto la sua malafede senza valutare l’elemento psicologico.

Su questo punto, la Cassazione ha chiarito che, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione Finanziaria ha il compito di provare, anche tramite indizi, non solo che il fornitore era fittizio, ma anche che il destinatario delle fatture era in grado, usando l’ordinaria diligenza, di accorgersi della frode.

Una volta che il Fisco fornisce questi indizi (come la cessazione di attività del fornitore, la sua irreperibilità o una sede fittizia, tutti elementi conoscibili tramite pubblici registri), l’onere della prova si sposta sul contribuente. Sarà quest’ultimo a dover dimostrare di aver agito in totale buona fede e di aver adottato ogni cautela per non essere coinvolto nell’illecito fiscale.

Le Motivazioni

La Corte ha stabilito che la motivazione della sentenza impugnata, sebbene sintetica, era sufficiente a rendere comprensibile il percorso logico-giuridico seguito. I giudici di merito hanno correttamente basato la loro decisione su elementi oggettivi e gravi, come la cessazione dell’attività di un fornitore prima dell’emissione delle fatture e lo stato di liquidazione e la sede fittizia dell’altro. Questi elementi, secondo la Cassazione, non solo provano la frode a monte, ma sono anche idonei a mettere sull’avviso un qualsiasi imprenditore mediamente diligente riguardo all’anomalia dell’operazione commerciale. La regolarità formale della contabilità e dei pagamenti non è sufficiente a superare tali indizi e a dimostrare la buona fede del contribuente.

Conclusioni

La decisione in esame ribadisce un principio fondamentale per tutti gli operatori economici: la detrazione dell’IVA non è un diritto automatico, ma è subordinata alla buona fede e alla diligenza del contribuente. Prima di instaurare rapporti commerciali, è essenziale effettuare controlli preventivi sui fornitori, verificando la loro effettiva operatività e regolarità attraverso la consultazione di pubblici registri come il Registro delle Imprese. Ignorare segnali di anomalia può comportare gravi conseguenze fiscali, poiché l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare di essere coinvolti in una frode ricade, in ultima analisi, proprio sull’imprenditore.

Quando un avviso di accertamento basato su documenti esterni (per relationem) è valido?
Secondo la Corte, un avviso di accertamento motivato ‘per relationem’ è valido a condizione che i documenti esterni a cui fa riferimento siano allegati all’atto notificato, oppure che l’atto stesso ne riproduca il contenuto essenziale, in modo da permettere al contribuente di comprendere pienamente le ragioni della pretesa fiscale.

In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, chi deve provare la malafede del contribuente?
L’Amministrazione Finanziaria ha l’onere di provare, anche con indizi, che il fornitore era fittizio e che il contribuente (destinatario della fattura) era a conoscenza della frode o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza. Una volta fornita questa prova, spetta al contribuente dimostrare di aver agito in buona fede e con la massima diligenza possibile.

Quali elementi possono indicare a un imprenditore che sta trattando con un fornitore fittizio?
La sentenza evidenzia alcuni ‘campanelli d’allarme’ oggettivi, come la cessazione dell’attività del fornitore prima dell’emissione della fattura, lo stato di liquidazione, una sede legale fittizia o l’irreperibilità dell’amministratore. Questi elementi, spesso conoscibili tramite la consultazione di pubblici registri (es. Camera di Commercio), sono sufficienti a far sorgere dubbi in un imprenditore mediamente diligente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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