Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 21239 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 21239 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 24/07/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 2236-2020, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Ricorrente
CONTRO
CURATELA FALLIMENTARE ‘ AZIENDA RAGIONE_SOCIALE , cf. 004408770392, in persona del Curatore fallimentare, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
Controricorrente
Avverso la sentenza n. 1070/14/2019 della Commissione tributaria regionale dell ‘Emilia -Romagna, depositata il 30.05.2019; adunanza camerale del 30 aprile udita la relazione della causa svolta nell’ 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Operazioni inesistenti – Detraibilità Iva e deducibilità costi – Configurabilità
FATTI DI CAUSA
A seguito di verifica fiscale relativa all’anno d’imposta 200 8 , l’Agenzia delle entrate notificò all’RAGIONE_SOCIALE l’avviso d’accertamento con cui, contestando l’emissione di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, determinò il maggior imponibile ai fini Ires ed Irap, ritenendo indeducibili costi superiori a d € 7.000.000,00. Pretese in conseguenza maggiori imposte e irrogò sanzioni.
Nello specifico, e da quanto emerge nella sentenza impugnata e nel ricorso erariale, alla società, attinta da una verifica che aveva interessato più annualità d’imposta (sino al 2010), per il 200 8 fu contestato l’utilizzo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, emesse dalle ditte individuali di NOME COGNOME NOME COGNOME (€ 6.900.000,00) e di NOME COGNOME (€ 1.000.000,00) , nonché dalla società RAGIONE_SOCIALE, operante nel commercio di uva da tavola, per l’acquisto di mosto. Dai risc ontri riportati dai militari verificatori, fatti propri dall’amministrazione finanziaria, la società aveva in parte acquistato fittiziamente il mosto dalla COGNOME, società operativa, ma a sua volta anche cessionaria fittizia di altre società, ritenute cartiere. In tale prospettiva la COGNOME si era posta quale società filtro tra le cartiere e la odierna controricorrente. Per altre operazioni, invece, gli acquisti fittizi di mosto da parte della RAGIONE_SOCIALE erano stati direttamente fatturati dalle società cartiere.
Avverso l’atto impositivo la società propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Ravenna, che con sentenza n. 9/02/2015 ne accolse le ragioni quanto ai rapporti con la COGNOME, ritenendo non provata l’oggettiva inesistenza delle operazioni da questa fatturate, rigettandole quanto alle ditte dello COGNOME e dello COGNOME, riconosciute invece quali imprese operanti solo fittiziamente, quali cartiere.
La pronuncia fu impugnata dall ‘Agenzia delle entrate e dalla società dinanzi alla Commissione tributaria regionale dell’Emilia -Romagna, ciascuna per quanto soccombente, che con sentenza n. 1070/14/2015 ha accolto le ragioni della contribuente e respinto quelle erariali.
Il giudice regionale, quanto all’appello della società, s i è diffuso sulla corretta definizione e distinzione tra operazioni oggettivamente inesistenti e operazioni soggettivamente inesistenti. Ha poi rilevato le diverse conseguenze derivanti dalla suddetta distinzione e, in particolare, che
RGN 2236/2020
nell’ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti l’Iva è indetraibile, così come i costi sono indeducibili, laddove, per quelle soggettivamente inesistenti, l’Iva si conferma indetraibile, mentre i costi sono deducibili ai fini delle imposte dirette, ai sensi dell’art. 14, comma 4 -bis, l. 24 dicembre 1993, n. 537, come novellato dal d.l. 2 marzo 2012, n. 16 (art. 8). Quindi ha inteso verificare se la contribuente avesse o meno ricevuto la prestazione da un fornitore ‘in nero’ per inquadrare la fattispecie tra le operazioni oggettivamente oppure soggettivamente inesistenti. A tal fine ha apprezzato che nel processo verbale di constatazione i militari verificatori avevano riportato che ‘tutti gli importi riconducibili alle menzionate fatture risultano reg olarmente pagati dall’RAGIONE_SOCIALE a mezzo di bonifici bancari e/o assegni’. Ha pertanto dedotto che l’avvenuto pagamento della merce, senza prova che i predetti corrispettivi fossero stati restituiti dai fornitori alla cessionaria, dimostrava la presenza di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. Ha chiarito che, stante la «comprovata inesistenza sostanziale delle ditte fornitrici, si è verificata una vendita ‘in nero’ da parte del reale fornitore che, evidentemente, ha r icevuto il corrispettivo». Ha pertanto concluso che, a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti, il costo era deducibile ai fini Ires ed Irap.
Con riguardo invece all’appello incidentale la Commissione regionale ha considerato che «dagli atti di causa risulta come la Olvin si sia interposta tra le inesistenti società fornitrici, sopra elencate, e la azienda vinicola alla Grotta ». Quindi ha affermato che « E’ provato che, diversamente da quanto sostenuto dai Giudici di Primo grado, la RAGIONE_SOCIALE si sia interposta anch’essa tra il reale fornitore del mosto e l’utilizzatore finale. Avendo ricevuto fatture da ditte inesistenti ha posto in essere un ulteriore passaggio cartolare, al chiaro fine di ostacolare l’accertamento della complessiva frode’. Nel concludere , ha quindi affermato che l’azienda vinicola alla Grotta avrebbe effettuato i pagamenti, così che ai soli fini delle imposte dirette, i costi del reato, per essere stati effettivamente sostenuti, andavano tenuti in considerazione (ossia, per quanto comprensibile, erano deducibili).
Avverso la sentenza l’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, ulteriormente illustrati da memoria, cui ha resistito la società con controricorso.
Nell’adunanza camerale del 30 aprile 2025 la causa è stata discussa e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Devono innanzitutto respingersi le eccezioni con le quali la società ha denunciato l ‘ improcedibilità del ricorso , per violazione dell’obbligo di allegazione degli atti richiamati nell’art. 369 c.p.c.
Questa Corte ha avvertito come il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ex art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c., è compatibile con il principio di cui all’art. 6, par. 1, della CEDU, qualora, in ossequio al criterio di proporzionalità, non trasmodi in un eccessivo formalismo, dovendosi, di conseguenza, ritenere rispettato ogni qualvolta l’indicazione dei documenti o degli atti processuali sui quali il ricorso si fondi, avvenga, alternativamente, o riassumendone il contenuto, o trascrivendone i passaggi essenziali, bastando, ai fini dell’assolvimento dell’onere di deposito previsto dall’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., che il documento o l’atto, specificamente indicati nel ricorso, siano accompagnati da un riferimento idoneo ad identificare la fase del processo di merito in cui siano stati prodotti o formati (cfr Cass., 19 aprile 2022, n. 12481). Nel caso di specie il ricorso contiene amplissimi stralci degli atti richiamati, nel concreto limitati al processo verbale di constatazione.
A margine, va ribadito quanto già chiarito da questa Corte, ossia che l’onere del ricorrente di cui all’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., come modificato dall’art. 7 del d. lgs. n. 40 del 2006 è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, anche mediante la produzione del fascicolo di parte del giudizio di merito, mentre per gli atti e i documenti del fascicolo d’ufficio, è sufficiente il deposito della richiesta di trasmissione del fascicolo presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, ferma in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6 c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Sez. U, 3 novembre 2011, n. 22726; Cass., 29 luglio 2021, n. 21831). Inoltre, con specifico riferimento alle controversie tributarie in sede di legittimità, si è altrettanto correttamente affermato che per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, comma 2, d.lgs. n. 546 del 1992 restano acquisiti al fascicolo
d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla Suprema Corte ex art. 369, terzo comma, c.p.c., a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte (Cass., 30 novembre 2017, n. 28695).
Neppure fondata è l’eccezione di inammissibilità ‘per violazione del principio di autosufficienza’. Al contrario di quanto afferma la controricorrente, il ricorso dell’Agenzia delle entrate assolve pienamente al dovere di specificità, non essendo affatto necessaria la trascrizione integrale degli atti del processo e degli atti difensivi della parte avversa.
Esaminando dunque il merito, con il primo motivo -che, unitamente al secondo, critica la pronuncia relativamente alla valutazione dei rapporti fittizi della contribuente con le ditte individuali dello COGNOME e dello Schiavo l’Agenzia delle entrate ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 109, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, 39, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché de ll’art. 8, d.l. n. 16 del 2012, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Il giudice d’appello avrebbe qualificato le operazioni come soggettivamente inesistenti sull’assunto del l’avvenuto pagamento delle cessioni di mosto riportate nelle fatture e dell ‘assenza di riscontri della retrocessione dei corrispettivi. Le considerazioni della Commissione Regionale sarebbero erronee, avendo il medesimo giudice ritenuto comprovata l’ ‘ inesistenza sostanziale ‘ delle ditte fornitrici, adombrando che si sarebbe verificata una vendita ‘in nero’ da parte del reale fornitore della merce, ossia di un terzo soggetto.
Con il secondo motivo l’Agenzia delle entrate ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La sentenza non avrebbe applicato i principi sull’onere della prova e avrebbe malgovernato le regol e sulle prove presuntive.
I due motivi, che vanno trattati congiuntamente perché tra loro connessi, sono fondati.
Va premesso che nella prospettazione dell’avviso d’accertamento, che segna il perimetro entro il quale l’Agenzia delle entrate ha ricostruito la vicenda sul piano fattuale, ed ha formulato l’addebito di contestazione sul piano giuridico, l’ufficio ha intes o contestare il coinvolgimento della controricorrente in operazioni oggettivamente inesistenti. Nello specifico, e con riferimento dunque ai rapporti ed ai passaggi di fatture false (per l’inesistenza materiale delle operazioni in esse rappresentate) tra l e ditte dello COGNOME e dello COGNOME e l ‘Azienda RAGIONE_SOCIALE, l’Ufficio ha contestato che le prime, di cui vi era prova della natura di cartiere, del tutto inesistenti sotto il profilo economico, avevano emesso fatture nei confronti della cessionaria controricorrente per operazioni oggettivamente inesistenti. Questo era l’addebito erariale elevato nei confronti della odierna controricorrente, ed entro questo perimetro, fattuale e giuridico, il giudice adito poteva e doveva vagliare la controversia insorta tra fisco e contribuente. Poteva ritenere non fondato l’addebito, o perché i fatti processualmente emergenti non corrispondevano alla fattispecie fenomenica perimetrata nell’atto impositivo impugnato, o ppure poteva diversamente riqualificare i medesimi fatti, ma ciò sempre sulla base allegazioni delle rispettive difese. Non poteva invece diversamente ricostruire la vicenda (come invece ha fatto trasformando un accordo bilatero in uno trilatero), senza neppure dar conto della fonte processuale della decisione.
In ogni caso, ove avesse ritenuto non provata l’esistenza di operazioni oggettivamente inesistenti, l’unica decisione che avrebbe potuto assumere era l’accoglimento delle ragioni della contribuente, non invece una trasformazione dell’impianto accusatorio erariale, esulando così dall’oggetto della controversia, che resta fissata entro il perimetro segnato da ll’atto impositivo.
A parte, dunque, l’abnormità del mutamento della qualificazione giuridica delle contestazioni elevate con l’atto impositivo dall’Agenzia delle entrate, che aveva accertato una condotta partecipativa ad operazioni oggettivamente inesistenti, fattispecie ontologicamente differente dalle operazioni soggettivamente inesistenti, le argomentazioni e le conclusioni cui la sentenza impugnata perviene sono in palese conflitto con i principi
enunciati da questa Corte in tema di distribuzione dell’onere della prova sulle operazioni oggettivamente inesistenti.
In tema infatti, l’Amministrazione finanziaria che contesti al contribuente l’indebita detrazione di iva o deduzione di costi per operazioni oggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare che l’operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo. Una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei costi, offrire la controprova dell’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., 13 marzo 2013, n. 6229; 14 settembre 2016, n. 18118; 18 ottobre 2021, n. 28628).
Nel caso di specie il giudice d’appello ha ritenuto provata l’effettività delle operazioni perché sarebbero risultati pagamenti con assegni o bonifici e perché mancherebbero riscontri della restituzione degli importi al cessionario. Dunque, il collegio regionale si è basato proprio su quegli elementi che la giurisprudenza di legittimità reputa radicalmente irrilevanti ai fini della prova della effettività delle operazioni.
I motivi vanno pertanto accolti.
È invece infondato il terzo, con il quale è denunciata la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 36 e 61 del d.lgs. 22 dicembre 1992, n. 546, nonché dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché il giudice regionale avrebbe deciso con una motivazione apparente.
RGN 2236/2020 Consigliere rel. NOME Questa Corte ha chiarito che sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur
indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sulla correttezza del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame, non è viziata la decisione quando motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata. Essa va invece cassata quando il giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 1 marzo 2022, n. 6758; 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819), oppure quando carente nel giudizio di fatto, così che la motivazione sia basata su un giudizio generale e astratto (Cass., 15 febbraio 2024, n. 4166).
Nel caso di specie la pronuncia, a prescindere dal merito e dalla correttezza, esiste ed esula del tutto dal perimetro dell’apparenza.
Con il quarto motivo – che critica la pronuncia relativamente alla valutazione dei rapporti fittizi della contribuente con la COGNOME l’Agenzia delle entrate si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 109, d.P.R.
RGN 2236/2020
22 dicembre 1986, n. 917, 39, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché dell’art. 8, d.l. n. 16 del 2012, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Il giudice regionale avrebbe erroneamente affermato, anche in questo caso, che i rapporti tra la contribuente e la COGNOME trovavano collocazione non già tra le operazioni oggettivamente inesistenti, ma tra quelle soggettivamente inesistenti.
Anche questo motivo è fondato.
Va premesso che l’ufficio aveva inteso contestare il coinvolgimento della controricorrente in operazioni oggettivamente inesistenti. Nello specifico, e con riferimento dunque ai rapporti ed ai passaggi di fatture false (per l’inesistenza materiale delle op erazioni in esse rappresentate) tra la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE, l’Ufficio aveva contestato che alcune società, di cui vi era prova della natura di cartiere e della loro inoperatività sotto il profilo economico, avevano emesso fatture nei confronti della COGNOME riferibili ad operazioni oggettivamente inesistenti. A sua volta, la COGNOME aveva emesso fatture nei confronti della Azienda RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE per le medesime forniture oggettivamente inesistenti. Questo era l’addebito erariale elevato nei confronti della odierna controricorrente, e, al pari di quanto chiarito con riguardo agli altri rapporti oggetto di causa, entro questo perimetro, fattuale e giuridico, il giudice adito poteva e doveva vagliare la controversia insorta tra fisco e contribuente. Poteva ritenere non fondato l’addebito, o perché i fatti processualmente emergenti non corrispondevano alla fattispecie fenomenica perimetrata nell’atto impositivo impugnato, o poteva diversamente riqualificare i medesimi fatti, ma ciò sempre sulla base degli elementi e delle allegazioni acquisite al giudizio. Non poteva invece diversamente ricostruire la vicenda, senza dar conto della fonte processuale della decisione.
Ciò chiarito, n ella sentenza si afferma che « dagli atti di causa , risulta come la RAGIONE_SOCIALE si sia interposta tra le inesistenti ditte fornitrici, sopra elencate, e la azienda vinicola alla Grotta per un ammontar complessivo di circa 7,5 milioni di euro nel corso di svariati periodi di imposta. Ne deriva che vale per Olvin il medesimo ragionamento esposto per gli altri fornitori. È provato, infatti, che, diversamente da quanto sostenuto dai Giudici di Primo grado, la RAGIONE_SOCIALE si sia interposta anch’essa tr a il reale fornitore del mosto e l’utilizzatore finale. Avendo ricevuto le fatture di ditte inesistenti ha
posto in essere, tramite l’emissione di FOI di ugual importo, un ulteriore passaggio cartolare, al chiaro fine di ostacolare l’accertamento della complessiva frode. Per quel che qui interessa, tuttavia, come sopra detto e richiamato, l’azienda vinicola all a grotta ha effettuato i pagamenti sicché in tema di accertamento ai fini delle sole imposte dirette, i costi da reato debbono essere tenuti in considerazione, trattandosi di esborsi effettivamente sostenuti».
La motivazione della pronuncia è innanzitutto incorsa in una palese contraddizione. Essa richiama le società che qualifica come ‘ inesistenti ditte fornitrici’ e, dunque, per ciò stesso prive di capacità economica. Afferma infatti in motivazione, al l’ ultimo capoverso di pag. 3, che la COGNOME si fosse interposta tra le ‘inesistenti ditte fornitrici’ e l’Azienda RAGIONE_SOCIALE, quest’ultima utilizzatrice finale delle fatture emesse dalle predette cartiere.
Se allora la COGNOME è ritenuta dal giudice regionale quale società che si è interposta tra le società fittizie (esistenti cioè solo sulla carta ed emittenti fatture per operazioni inesistenti) e l’utilizzatrice finale di quelle fatture, le operazioni dovevano essere necessariamente inquadrate nella categoria della oggettiva inesistenza, secondo la prospettazione erariale.
Sennonché, sempre n ell’ultimo capoverso, il giudice d’appello sostiene che la COGNOME si era interposta tra ‘il reale fornitore del mosto e l’utilizzatore finale’. In tal modo, senza una comprensibile argomentazione e comunque con un salto logico, la commissione regionale nega che quelle società fossero inesistenti.
Tale motivazione risulta del tutto contraddittoria e confusa, facendo solo mostra di non aver compreso il meccanismo posto in atto dalle parti in causa e, soprattutto, di aver ‘modificato’ i ‘fatti’ contestati dall’erario alla contribuente, senza far comprendere il perché e da quale fonte probatoria la Commissione regionale abbia tratto quelle conclusioni, ossia che società cartiere si siano trasformate in società reali, con capacità economica, cioè capaci di vendere realmente il mosto alla Olvin.
Se si vuole allora dare un senso alla motivazione, altrimenti radicalmente nulla, deve accogliersi la critica della difesa erariale, secondo cui il giudice regionale avrebbe errato nel considerare come l’interposizione della RAGIONE_SOCIALE tra le suddette cartiere e l’RAGIONE_SOCIALE, utilizzatrice finale delle menzionate fatture , abbia determinato per il giudice d’appello
una qualificazione della inesistenza delle operazioni sotto un profilo soggettivo, con ciò senza tener conto dei principi che presidiano la differente collocazione delle operazioni tra quelle oggettivamente o soggettivamente inesistenti, e comunque, senza aver indicato su quali dati e quali prove il giudice d’appello sia pervenuto a tali conclusioni .
Peraltro, secondo principi di logica ermeneutica, così come ricostruita la vicenda dal giudice regionale, sarebbe errato anche lo stesso inquadramento della fattispecie nelle operazioni soggettivamente inesistenti. Questo perché, nelle operazioni triangolari inquadrabili tra quelle soggettivamente inesistenti, la società cartiera è l’interposta, che si frappone tra il cedente effettivo e il cessionario, laddove nel caso concreto non è stata mai disconosciuta l ‘ effettiva esistenza della Olvin.
La sentenza, in definitiva, ha fatto mostra di non tener conto dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.
In definitiva, vanno accolti il primo, il secondo e il quarto motivo di ricorso, rigettato il terzo. La sentenza va cassata, con rinvio del giudizio alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Emilia-Romagna, che in diversa composizione, oltre che alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, dovrà riesaminare l’appello erariale, tenendo conto dei principi enunciati da questa Corte.
P.Q.M.
Accoglie il primo, il secondo e il quarto motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di II grado della Emilia-Romagna, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità Così deciso in Roma, il giorno 30 aprile 2025