Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24890 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24890 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8380/2016 R.G. proposto da:
COGNOME NOME , rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. NOME COGNOME (pec: EMAIL ed elettivamente domiciliato in Roma alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso l’Avvocatura
Oggetto
: operazioni
oggettivamente inesistenti
Generale dello Stato (pec: EMAIL), che la rappresenta e difende;
– resistente –
avverso la sentenza n. 1674/24/2015 della Commissione tributaria regionale della TOSCANA, depositata in data 28/09/2015; udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del giorno 11 luglio 2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. In controversia avente ad oggetto tre avvisi di accertamento ai fini IVA, IRAP ed IRPEF per gli anni d’imposta 2004, 2005 e 2006, che l’Agenzia delle entrate emise nei confronti di NOME COGNOME titolare dell’omonima ditta esercente l’attività di assistenza parcometri, cessata in data 24/10/2006, sulla base delle risultanze di un processo verbale di constatazione della G.d.F., precedentemente notificato al contribuente, da cui era emerso che quest’ultimo aveva utilizzato fatture per operazioni oggettivamente inesistenti, apparentemente intercorse con la ditta individuale RAGIONE_SOCIALE di COGNOME Marco Roberto, la CTR della Toscana respingeva l’appello proposto dal contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, sostenendo che « gli elementi indiziari posti dall’Ufficio a fondamento dei propri avvisi di accertamento (dichiarazioni spontanee rese dal Sig. COGNOME, assenza di contratto in forma scritta, o qualsiasi altra documentazione attestante il rapporto tra la ditta accertata e il centro servizio di COGNOME NOME NOME, pagamento in contanti dei corrispettivi della fatture per importi di notevole rilievo, numerazione non progressiva delle fatture , serva a sottolineare come parte contribuente non abbia mai fornito alcuna prova atta a sconfessare gli accertamenti della GdF dai quali poi è scaturita la pretesa erariale », all’uopo non essendo « sufficiente » l’assoluzione ottenuta in sede penale.
Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi cui non replica per iscritto l’Agenzia delle Entrate che si costituisce al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione della causa ex art. 370, primo comma, cod. proc. civ.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorrente, senza alcuna indicazione del corrispondente paradigma normativo in ognuno dei motivi proposti, con il primo deduce il « Vizio di applicazione dell’art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537 del 1993 » sostenendo che nella sentenza impugnata, pur prendendosi atto dell’archiviazione del procedimento penale promosso nei suoi confronti, intervenuta in data 15/04/2014 con ordinanza del GIP presso il Tribunale di Arezzo, i giudici di appello avevano sostenuto che « questo non è sufficiente per smentire di non aver mai dimostrato in modo inoppugnabile che le fatture, già dichiarate false dal soggetto emittente, siano state effettivamente pagate », incorrendo in un duplice errore:
nell’aver ritenuto che il COGNOME, che pure aveva confessato di aver emesso fatture false, si fosse riferito esplicitamente a quelle emesse nei suoi confronti, ciò non emergendo « in alcun elemento del PVC, degli atti di accertamento, e del giudizio »;
nell’aver erroneamente attribuito ad esso contribuente l’onere di provare l’avvenuto pagamento, che in ogni caso non era stata fornita dagli accertatori.
Con il secondo motivo pur deducendo il « Difetto dei presupposti per l’applicazione degli artt. 43 DPR 600/73 e 57 DPR 633/72 » il ricorrente sostiene che, diversamente da quanto controdedotto dall’Agenzia delle entrate in primo grado, non aveva sollevato alcuna eccezione circa il raddoppio dei termini di accertamento, ma di aver basato la « illegittimità degli avvisi di accertamento per gli anni 2004 e
2005, in quanto annualità prescritte ». « Se infatti », prosegue il ricorrente, « la eventuale indeducibilità dei costi o spese riconducibili ad ipotesi di ‘reato’, determina l’applicabilità di maggiori termini decadenziali per l’azione accertatrice, è altrettanto vero che », per effetto «del novellato comma 4-bis dell’articolo 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537, venuto meno il presupposto per il recupero a tassazione dei costi, al contribuente compete il rimborso delle maggiori imposte versate » dei relativi interessi e delle sanzioni.
Con il terzo motivo deduce la « Nullità degli avvisi di accertamento per omessa allegazione di verbali ed accessi effettuati presso altri soggetti ». Sostiene che « la lamentata contrazione del legittimo diritto alla difesa del contribuente, in dipendenza della ignoranza degli atti prodromici all’accertamento stesso sostenuta dalla parte ricorrente, è rimasta priva di qualsivoglia riscontro nel dispositivo delle sentenze impugnate ».
Con il quarto motivo deduce il « Difetto di motivazione degli avvisi di accertamento e di riscontro probatorio ».
Sostiene il ricorrente che « tutto il procedimento è fondato su semplici ‘congetture’ scaturenti da non meglio identificate ‘dichiarazioni’ e dalla ‘posizione’ di altro soggetto (il defunto COGNOME NOME NOME), da cui si fanno ‘derivare’ effetti a carico dell’istanze, invocando l’inversione dell’onere della prova », che « il solo elemento che la controparte si sia ‘autodenunciata’» non era sufficiente a comprovare l’inesistenza delle operazioni contestate, anche perché risultavano acquisiti «elementi di varia natura comprovanti sia l’esistenza del rapporto di servizio con il COGNOME che della regolarità delle fatture da questi emesse e regolarmente annotate nella contabilità del ricorrente, nonché della disponibilità di cassa per il loro pagamento, oltre tutto in presenza di un’attività la cui peculiare, intrinseca caratteristica era quella proprio della raccolta di danaro ».
Con il quinto motivo deduce il « Vizio di insufficiente motivazione della sentenza », in particolare di quella di primo grado cui il ricorrente fa espresso riferimento nel corpo del motivo.
Muovendo da tale ultimo motivo, per evidenti ragioni di priorità logico-giuridica, ne va dichiarata l’inammissibilità perché rivolto alla sentenza di primo grado. Invero, dinanzi al giudice di legittimità è possibile l’impugnazione della sentenza di primo grado soltanto nell’ipotesi – qui insussistente – di cui all’art. 360, secondo comma, cod. proc. civ., ovvero di ricorso cd. ‘per saltum ‘.
6.1. Pare, in ogni caso, opportuno precisare che «In tema di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 40 del 2006 -il vizio relativo all’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione deve essere riferito ad un “fatto”, da intendere quale specifico accadimento in senso storico-naturalistico» (Cass. n. 24035/2018), nella specie non dedotto né ricavabile dalle argomentazioni svolte nel ricorso, in cui, in realtà, si fa espresso riferimento non tanto alla insufficienza della motivazione quanto alla sua omissione.
6.2. Orbene, sotto tale profilo il motivo è manifestamente infondato in quanto è sufficiente la semplice lettura della sentenza impugnata, sopra trascritta nelle sue parti essenziali, per verificare come la stessa esibisca una motivazione effettiva sia dal punto di vista grafico che contenutistico, superando di gran lunga la soglia del cd. minimo costituzionale (Cass., Sez. U, n. 8053/2014).
Deve, quindi, esaminarsi il primo motivo di ricorso che è inammissibile e, comunque, infondato.
7.1. Il ricorrente invoca l’applicazione dell’art. 14, comma 4-bis, della legge n. 537 del 1993, come sostituito dall’art. 8, comma 1, del d.l. n. 16
del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 44 del 2012, con effetto retroattivo, ai sensi del comma 3 del citato art. 8.
7.2. Precisa che i giudici di appello, pur prendendo atto dell’archiviazione del procedimento penale promosso nei suoi confronti, intervenuta in data 15/04/2014 con ordinanza del GIP presso il Tribunale di Arezzo, i giudici di appello avevano erroneamente ritenuto che « questo non è sufficiente per smentire di non aver mai dimostrato in modo inoppugnabile che le fatture, già dichiarate false dal soggetto emittente, siano state effettivamente pagate », incorrendo in un duplice errore:
nell’aver ritenuto che il COGNOME, che pure aveva confessato di aver emesso fatture false, si fosse riferito esplicitamente a quelle emesse nei suoi confronti, ciò non emergendo « in alcun elemento del PVC, degli atti di accertamento, e del giudizio »;
nell’aver erroneamente attribuito ad esso contribuente l’onere di provare l’avvenuto pagamento, che in ogni caso non era stata fornita dagli accertatori.
7.3. Il motivo, invero, deduce la violazione del comma 4-bis dell’art. 14 citato che, però, non è applicabile alle operazioni oggettivamente inesistenti come quelle accertate a carico del contribuente.
7.4. La disposizione applicabile a tali tipi di operazioni è, infatti, il comma 2 dell’art. 8 del d.l. n. 16 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 44 del 2012 che prevede che « Ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi. In tal caso si applica la sanzione amministrativa dal 25 al 50 per cento dell’ammontare delle spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati indicati nella dichiarazione dei redditi ».
7.5. Tale disposizione «ha stabilito, con riguardo alle operazioni oggettivamente inesistenti, che i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese (Cass. n. 27040 del 19/12/2014; Cass. n. 25967 del 20/11/2013; Cass. n. 7896 del 20/4/2016). In siffatte ipotesi grava pertanto sul contribuente l’onere di provare che i componenti positivi, che si duole abbiano nell’accertamento concorso alla formazione del reddito, siano anch’essi fittizi, perché ricavi «correlati», ossia direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati (Cass. 25967/13 cit.)» (così in Cass. n. 33915/2019).
7.6. Nel caso di specie il contribuente ha contestato gli elementi presuntivi acquisiti dall’Ufficio, che hanno consentito di dedurre che la ditta avesse contabilizzato operazioni mai compiute -elementi che sono stati poi recepiti e posti dai giudici di appello a fondamento del decisum -tanto che in sede di giudizio di merito ha dedotto di avere ampiamente dimostrato l’effettiva realizzazione dei servizi resi dalla ditta individuale del Bordin, sottesi alle fatture di cui è stata accertata la fittizietà, e, pertanto, non può ritenersi che abbia offerto prova della fittizietà dei relativi ricavi conseguiti, sicché deve escludersi la violazione della disposizione in esame.
Il secondo motivo, con cui il ricorrente deduce di non aver mai proposto la questione dell’insussistenza dei presupposti per l’applicazione del raddoppio dei termini di accertamento, su cui si era pronunciata la CTR, ma di aver dedotto l’illegittimità degli atti impositivi « in quanto annualità prescritte », è inammissibile.
8.1. Anche a voler prescindere dalla non agevole comprensibilità della censura, posto che a prescriversi è il credito e non le «annualità»,
ovvero i periodi di accertamento, soggetti invece ad eventuale decadenza, la tesi sostenuta nel motivo in esame comunque si scontra con l’affermazione dei giudici di appello secondo cui « Parte contribuente sostiene l’infondatezza della notizia di reato comporti la decadenza dell’Ufficio dalla possibilità di operare l’accertamento oltre i normali termini », che è chiaramente indicativa del fatto che la questione posta dal contribuente atteneva alla proroga dei termini di accertamento di cui alle disposizioni censurate e non alla prescrizione. Peraltro, era onere del ricorrente dimostrare di aver proposto eccezione di prescrizione riproducendo nel ricorso le parti degli atti del giudizio di merito da cui ciò risultava. Non avendovi provveduto, il ricorso difetta di specificità e, come tale, è inammissibile (cfr. Cass., Sez. U, n. 15781/2005; Cass. n. 28072/2021; v. anche Cass. n. 11325 del 2023). Il ricorrente non si misura perdipiù con la statuizione della sentenza che la questione concernente la decadenza era comunque stata proposta con «… una memoria difensiva nella quale introduce nuovi argomenti sconosciuti nella fase introduttiva …».
Tali considerazioni valgono anche per il terzo motivo di ricorso, incentrato sulla « nullità degli avvisi di accertamento per omessa allegazione di verbali ed accessi effettuati presso altri soggetti », in particolare delle dichiarazioni rilasciate da NOME COGNOME che si era autodenunciato quale emittente di fatture per operazioni inesistenti.
9.1. Di tale questione non vi è alcuna traccia nella sentenza impugnata, come pure ammette il ricorrente affermando (a pag. 7 del ricorso) che « la lamentata contrazione del legittimo diritto alla difesa del contribuente, in dipendenza della ignoranza degli atti prodromici all’accertamento stesso sostenuta dalla parte ricorrente, è rimasta priva di qualsivoglia riscontro nel dispositivo delle sentenze impugnate ».
9.2. Quella dedotta con il motivo è, quindi, il vizio di omessa pronuncia sulla questione della motivazione degli atti impositivi.
9.3. Orbene, «Nel giudizio di legittimità, la deduzione del vizio di omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., postula, per un verso, che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulate e, per altro verso, che tali istanze», per non incorrere nell’inammissibilità del motivo per novità della questione dedotta (Cass. n. 32804/2019; n. 3473/2025) «siano puntualmente riportate nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini e non genericamente o per riassunto del relativo contenuto, con l’indicazione specifica, altresì, dell’atto difensivo e/o del verbale di udienza nei quali l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire la verifica, innanzitutto, della ritualità e della tempestività e, in secondo luogo, della decisività delle questioni prospettatevi. Pertanto, non essendo detto vizio rilevabile d’ufficio, la Corte di cassazione, quale giudice del “fatto processuale”, intanto può esaminare direttamente gli atti processuali in quanto, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso, il ricorrente abbia, a pena di inammissibilità, ottemperato all’onere di indicarli compiutamente, non essendo essa legittimata a procedere ad un’autonoma ricerca, ma solo alla verifica degli stessi» (Cass. n. 28072/2021; conf. Cass. n. 16889/2023).
9.4. Peraltro, la censura di nullità degli avvisi di accertamento per difetto di motivazione in conseguenza della mancata allegazione degli atti cui negli stessi si faceva riferimento, è comunque inammissibile per difetto di specificità. Invero, l’orientamento giurisprudenziale in materia di motivazione degli atti impositivi per relationem , che è la fattispecie che ci occupa, è nel senso che l’obbligo legale di motivazione degli atti tributari può essere assolto tramite il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione, però, che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale – per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle
parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessari e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente (ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale) di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento o, ancora, che gli atti richiamati siano già conosciuti dal contribuente per effetto di precedente notificazione (Cass. n. 6914 del 2011; Cass., n. 13110 del 2012; Cass. n. 4176 del 2019; Cass., n. 29968 del 2019; Cass. n. 593 del 2021; Cass. n. 33327 del 2023).
9.5. Orbene, poiché nel caso in esame si verte in tale ultima ipotesi, giacché nella sentenza impugnata si dà espressamente atto della notifica al contribuente del processo verbale di constatazione redatto dalla G.d.F., è ancor più evidente come fosse assolutamente necessario la riproduzione nel ricorso del contenuto motivazionale degli avvisi di accertamento, o comunque la loro allegazione o localizzazione negli atti del giudizio di merito, unitamente alla riproduzione delle parti del p.v.c. che facevano riferimento alle dichiarazioni rese da tale COGNOME di cui il contribuente lamenta la non « puntuale ed analitica conoscenza », onde consentire a questa Corte la verifica della decisività e della fondatezza della censura, in particolare sull’eventuale concreto pregiudizio subito dal diritto di difesa del contribuente.
Quanto appena detto consente di rigettare anche il quarto motivo di ricorso con cui si deduce il « Difetto di motivazione degli avvisi di accertamento e di riscontro probatorio ».
10.1. In relazione al profilo di censura inerente il «riscontro probatorio» della pretesa erariale, deve osservarsi che la sentenza impugnata si è attenuta rigorosamente al principio giurisprudenziale in materia di riparto dell’onere probatorio nelle ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti, in base al quale «una volta che
l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia» (Cass. n. 28628/2021; conf. Cass. n. 9723/2024).
10.2. I giudici di appello hanno dato atto degli elementi presuntivi di inesistenza oggettiva delle operazioni commerciali oggetto di ripresa a tassazione, quali le « dichiarazioni spontanee rese dal Sig. COGNOME assenza di contratto in forma scritta, o qualsiasi altra documentazione attestante il rapporto tra la ditta accertata e il centro servizio di COGNOME NOME NOME, pagamento in contanti dei corrispettivi della fatture per importi di notevole rilievo, numerazione non progressiva delle fatture » , ed hanno accertato che la parte contribuente non aveva, invece, « mai fornito alcuna prova atta a sconfessare gli accertamenti della GdF dai quali poi è scaturita la pretesa erariale ». Trattasi di accertamento in fatto peraltro non adeguatamente contestato essendosi il ricorrente limitato a genericamente sostenere che nel caso di specie risultavano acquisiti «elementi di varia natura comprovanti sia l’esistenza del rapporto di servizio con il COGNOME che della regolarità delle fatture da questi emesse e regolarmente annotate nella contabilità del ricorrente, nonché della disponibilità di cassa per il loro pagamento, oltre tutto in presenza di un’attività la cui peculiare, intrinseca caratteristica era quella proprio della raccolta di danaro ».
11. In estrema sintesi, il ricorso va rigettato senza necessità di provvedere sulle spese in mancanza di difese scritte della resistente.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, in data 11 luglio 2025.