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Operazioni inesistenti: la prova spetta al contribuente

Un agente di commercio si è visto negare la deducibilità di costi per fatture ritenute relative a operazioni inesistenti. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 5180/2024, ha respinto il ricorso, chiarendo che quando l’Amministrazione Finanziaria fornisce elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti sulla fittizietà delle operazioni (come l’irreperibilità del fornitore), l’onere di provare l’effettiva esistenza delle prestazioni si sposta sul contribuente. La sola esibizione della fattura non è considerata prova sufficiente.

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Pubblicato il 3 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Operazioni Inesistenti: la Cassazione chiarisce l’onere della prova

La gestione dei costi aziendali e la loro corretta deducibilità fiscale rappresentano un aspetto cruciale per ogni impresa. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 5180 del 27 febbraio 2024) torna su un tema tanto delicato quanto frequente: le operazioni inesistenti. Questa pronuncia offre importanti chiarimenti su come si distribuisce l’onere della prova tra Fisco e contribuente quando viene contestata la realtà di una prestazione fatturata. Comprendere questi principi è fondamentale per evitare pesanti accertamenti fiscali.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un agente di commercio che aveva impugnato un avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate. L’Amministrazione Finanziaria aveva contestato la deducibilità di costi per un valore di circa 25.000 euro, relativi a fatture emesse da una collaboratrice per prestazioni quali “analisi clienti”, “analisi di zona” e “telemarketing”.

Secondo il Fisco, tali operazioni erano da considerarsi oggettivamente inesistenti. Le indagini avevano infatti rivelato una serie di anomalie: la fornitrice risultava irreperibile presso le sedi indicate, non aveva una struttura aziendale organizzata (nessuno studio professionale, nessun costo per utenze o dipendenti) e, soprattutto, i pagamenti ricevuti tramite assegni o bonifici venivano sistematicamente e quasi integralmente prelevati in contanti poco dopo l’accredito. A fronte di questi elementi, l’Agenzia delle Entrate aveva concluso che le fatture fossero state emesse al solo scopo di abbattere il reddito imponibile del contribuente.

La Decisione della Corte di Cassazione sulle operazioni inesistenti

Dopo che i giudici di primo e secondo grado avevano dato ragione all’Amministrazione Finanziaria, il contribuente ha presentato ricorso in Cassazione, sollevando diverse censure. La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la legittimità dell’accertamento e fornendo chiarimenti su alcuni principi cardine del contenzioso tributario.

I giudici hanno in primo luogo ribadito la regola sulla ripartizione dell’onere della prova in materia di operazioni inesistenti. Hanno inoltre affrontato questioni procedurali, come l’obbligo del contraddittorio preventivo e l’applicazione del cosiddetto divieto di “presunzioni di secondo grado”, ritenendole infondate.

L’inversione dell’onere della prova in caso di operazioni inesistenti

Il punto centrale della decisione riguarda la distribuzione dell’onere probatorio. La Corte ha ricordato che, sebbene spetti all’Amministrazione Finanziaria provare l’inesistenza delle operazioni, tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti. Quando il Fisco presenta un quadro indiziario solido (come l’assenza di una sede, di un’organizzazione aziendale e la sistematica retrocessione in contanti delle somme pagate), l’onere della prova si inverte e passa al contribuente.
A questo punto, non è più sufficiente per il contribuente esibire la fattura e la documentazione formale dei pagamenti. Egli deve invece fornire la prova concreta e dettagliata che le prestazioni sono state effettivamente eseguite e hanno prodotto un’utilità per la sua attività economica.

Le altre censure respinte dalla Corte

La Corte ha respinto anche le altre doglianze del ricorrente:
* Mancato contraddittorio preventivo: È stato chiarito che, per gli accertamenti “a tavolino” su imposte non armonizzate come l’IRPEF, non sussiste un obbligo generalizzato di contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso, secondo un consolidato orientamento delle Sezioni Unite.
* Divieto di presunzioni a catena: La Corte ha smontato la tesi del ricorrente, affermando che il principio “praesumptum de praesumpto non admittitur” (la presunzione non si basa su un’altra presunzione) non trova fondamento nel nostro ordinamento. Un fatto accertato tramite presunzioni può legittimamente costituire la base per un’ulteriore inferenza logica.

Le motivazioni

La ratio della decisione risiede nella necessità di contrastare efficacemente i fenomeni di frode fiscale basati sull’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. La giurisprudenza ha sviluppato un approccio pragmatico: di fronte a un fornitore che presenta tutte le caratteristiche di una “cartiera” o di una società fantasma, è logico e ragionevole presumere che le operazioni fatturate siano fittizie. La regolarità formale dei documenti (fattura e pagamento tracciabile) non può superare la sostanza dei fatti, poiché tali formalità sono spesso create ad arte proprio per dare un’apparenza di realtà all’operazione fittizia.

La Corte sottolinea che spetta al giudice di merito valutare liberamente le prove e scegliere quelle più idonee a formare il proprio convincimento. In questo caso, gli indizi raccolti dall’Agenzia delle Entrate sono stati ritenuti sufficientemente robusti da fondare l’accertamento e da far scattare l’inversione dell’onere probatorio a carico del contribuente, il quale non è riuscito a fornire la prova contraria richiesta.

Le conclusioni

Questa ordinanza conferma un principio fondamentale: nel contenzioso tributario relativo a operazioni inesistenti, la forma non prevale sulla sostanza. Per un’impresa, non è sufficiente conservare le fatture e le contabili dei pagamenti. È essenziale essere in grado di dimostrare, con ogni mezzo di prova idoneo (contratti, corrispondenza, report, testimonianze, prove dell’effettivo risultato della prestazione), che i servizi o i beni acquistati sono reali, inerenti all’attività e hanno generato un’effettiva utilità economica. Questa sentenza serve da monito per tutti gli operatori economici sull’importanza di una due diligence accurata nella scelta dei propri fornitori e di una meticolosa documentazione a supporto di ogni costo portato in deduzione.

In caso di accertamento per operazioni inesistenti, chi deve provare cosa?
Inizialmente, l’onere di provare l’inesistenza dell’operazione spetta all’Amministrazione Finanziaria. Tuttavia, se questa fornisce elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti (es. fornitore irreperibile, assenza di struttura aziendale), l’onere si inverte e spetta al contribuente dimostrare l’effettiva esistenza e inerenza dei costi sostenuti.

È sempre obbligatorio per l’Agenzia delle Entrate avviare un contraddittorio prima di emettere un avviso di accertamento?
No. Secondo la Corte, per gli accertamenti cosiddetti “a tavolino” relativi a tributi non armonizzati (come IRPEF e IRAP in questo caso), non sussiste un obbligo generalizzato di instaurare un contraddittorio preventivo, a meno che non sia specificamente previsto dalla legge.

La sola presentazione di fatture e pagamenti tracciabili è sufficiente a dimostrare l’effettività di un’operazione contestata?
No. La Corte ha ribadito che l’esibizione della fattura e la prova della regolarità formale delle scritture contabili o dei pagamenti non sono sufficienti a superare un solido quadro presuntivo di inesistenza dell’operazione, poiché tali elementi vengono di regola utilizzati proprio per mascherare un’operazione fittizia.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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