Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24534 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24534 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 04/09/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 4578-2016, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE c.f. 04954521219, in persona del legale rappresentante p.t., RAGIONE_SOCIALE NOME , c.f. CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentati e difesi dagli avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t. elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis -Controricorrente
Avverso la sentenza n. 8560/28/2015 della Commissione tributaria regionale della Campania, depositata il 1° ottobre 2015; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26 giugno 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Iva -Op. sogg. inesistenti -Corrispettivo della Cartiera -Recupero ad imponibile
Dalla sentenza impugnata si evince che l’Agenzia delle entrate notificò alla società RAGIONE_SOCIALE ed a RAGIONE_SOCIALE Ciro, quale socio unico, due distinti avvisi d ‘ accertamento, relativi a ll’ anno d’imposta 20 05. Con il primo rideterminò l’imponibile della società ai fini Ires, Irap ed Iva. Con il secondo rideterminò l’imponibile del socio unico per la medesima annualità ai fini Irpef e addizionali.
Nei confronti della società l’ufficio contestò sia il maggior reddito, derivante dallo svolgimento della propria attività di commercio di materiale non ferroso usato, che risultava non correttamente dichiarato, sia dai ricavi conseguiti, come corrispettivo, dal ruolo di società fittiziamente interpostasi (quale cartiera) in operazioni soggettivamente inesistenti.
Nei confronti del RAGIONE_SOCIALE contestò il maggior reddito da partecipazione occultamente distribuito dalla società.
I ricorrenti impugnarono i rispettivi atti impositivi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli, che con sentenza n. 6504/28/2014 rigettò i due ricorsi, dopo aver riunito i due procedimenti.
Gli appelli proposti da entrambe i soccombenti furono respinti dalla Commissione tributaria regionale della Campania con sentenza n. 8560/28/2015.
Il giudice regionale, dopo aver ricostruito la vicenda e illustrato le ragioni d’appello, ribadì quanto già chiarito dal giudice di primo grado, e cioè che le contestazioni alla società, apparentemente contraddittorie, trovavano fondamento nella coesistenza di una attività economica effettivamente esercitata dalla società nel commercio dei metalli non ferrosi usati e, al contempo, di una ‘parallela’ attività di cartiera. Ha dunque evidenziato che il reddito maggiore conseguito dalla società derivasse in parte dall’occultamento di ricavi imponibili , e ciò in riferimento a ll’esercizio effettivo del commercio di metalli non ferrosi; quanto al coinvolgimento in operazioni soggettivamente inesistenti, alle quali risultava aver partecipato nel ruolo di cartiera e nell’ambito di operazioni di cessione di materiale ferroso, il maggior reddito era stato ricondotto dal l’ufficio al corrispettivo che le cessionarie del metallo le avevano corrisposto a titolo di controprestazione della sua interposizione nei passaggi commerciali della merce, in realtà avvenuti tra i terzi effettivi cedenti e le società cessionarie beneficiarie.
Su tale seconda fonte di ricavi il giudice regionale ha inteso riconoscere la ricostruzione della vicenda storica sostenuta dall’ufficio, secondo il quale era «incredibile che una società possa emettere fatture false in favore di altre società senza averne un utile», e ciò perché, affermava il giudice regionale «appare effettivamente del tutto poco credibile, secondo logica probabilistica, che un soggetto possa voler mettere a repentaglio la propria responsabilità penale e civile senza alcun corrispettivo».
Tale doppio accertamento conciliava l’apparente contraddizione tra la contestazione del coinvolgimento della RAGIONE_SOCIALE in operazioni soggettivamente inesistenti, che in sé non poteva determinare il riconoscimento di maggiori ricavi in capo all’ interposta (che proprio per essere interposta non era l’effettiva cedente cui corrispondere il prezzo della merce), e i maggiori ricavi ad essa parimenti attribuiti.
In definitiva, la rideterminazione del maggior imponibile, contestato ai fini delle imposte dirette, era riconducibile ad un vero e proprio corrispettivo versato dalle cessionarie per il ‘servizio’ a loro reso quale interposta, determinato induttivamente dal l’Agenzia delle entrate nella misura del 10% delle imposte risparmiate dalle cessionarie coinvolte nelle operazioni inesistenti (risparmio calcolato sulla base del valore delle operazioni soggettivamente inesistenti in € 5.828.053,00 e dunque in € 582. 805,00); era inoltre riconducibile al maggior imponibile effettivamente conseguito dalla società ricorrente per l’attività economica effettivamente esercitata, i cui ricavi risultavano in parte occultati e ovviamente non dichiarati, imponibile quantificato nel l’incremento del 10% sui costi del venduto, determinato quest’ultimo in € 899.695,57 (e dunque del complessivo importo di € 9 89.665,00 = 899.695,57 + 10%).
Quanto al socio unico, il giudice d’appello ha affermato che i maggiori utili sociali, calcolati sull’imponibile rideterminato, si erano riflessi sul conseguimento dei maggiori utili da partecipazione.
I ricorrenti hanno proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a cinque motivi, cui ha resistito l ‘Agenzia delle entrate con controricorso.
All’esito dell’adunanza camerale del 26 giugno 2025, La causa è stata riservata e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente deve rigettarsi l’ecce zione di inammissibilità del ricorso, sollevata dalla difesa erariale, che ha ritenuto l’atto confezionato secondo la cd. tecnica dell’assemblaggio (cd. ‘sandwich’ ), in violazione delle prescrizioni previste dall’art. 366 c.p.c.
L’eccezione non trova accoglimento . In ordine all’utilizzo di tale tecnica di redazione dell’atto impugnativo, ritenuta possibile ragione di inammissibilità del ricorso per mancato rispetto del contenuto prescritto dall’art. 366, co. 1, n. 3, c.p.c., la giurisprudenza ha opportunamente puntualizzato che l’integrale riproduzione di una serie di documenti si traduce in un mascheramento dei dati effettivamente rilevanti, così risolvendosi in un difetto di autosufficienza sanzionabile con l’inammissibilità. Ciò rende infatti incomprensibile il mezzo processuale, perché privo di una corretta ed essenziale narrazione dei fatti processuali (ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 3, c.p.c.), della sintetica esposizione della soluzione accolta dal giudice di merito, nonché dell’illustrazione dell’errore da quest’ultimo commesso e delle ragioni che lo facciano considerare tale, addossando in tal modo al giudice di legittimità il compito, ad esso non spettante, di sceverare da una pluralità di elementi quelli rilevanti ai fini del decidere ( ex multis , cfr. Cass., 22 febbraio 2026, n. 3385; 9 marzo 2018, n. 5640; 25 novembre 2020, n. 26837). Perché il difetto di autosufficienza possa ritenersi superato è necessario che il coacervo dei documenti integralmente riprodotti, se facilmente individuabile ed isolabile, possa essere separato ed espunto dall’atto processuale, la cui autosufficienza pertanto, una volta resi conformi al principio di sinteticità il contenuto e le dimensioni globali, dovrà essere valutata in base agli ordinari criteri ed in relazione ai singoli motivi (Cass., 18 settembre 2015, n. 18363; 19 maggio 2017, n. 12641).
Nel caso che ci occupa è pur vero che il ricorso è infarcito della riproduzione di documentazione, e in particolare degli atti impositivi, ma ciò non impedisce, espunti tali documenti, la lettura sufficientemente chiara delle ragioni di censura e in definitiva della comprensibilità del testo difensivo.
RGN 4578/2016 Consigliere rel. NOME Esaminando dunque il merito, con il primo motivo i ricorrenti si dolgono della «violazione e/o falsa applicazione e/o falsa interpretazione della norma
di cui all ‘art. 295 c.p.c., richiamata dall’art. 1 del d.lgs. 546/1992 e della disciplina dettata dall’art. 29 dello stesso D.Lgs n. 564/1992 (in relazione all’art. 360 n. 3, c.p.c.)».
Il giudice regionale, nel perseguire l’erronea trattazione contestuale dei giudizi con la società e con il socio, avrebbe errato nell’escludere che i rapporti processuali dovevano essere trattati applicando le regole della pregiudizialità/dipendenza e non quelle della connessione, ex art. 29 cit. e 274 c.p.c. Da ciò discendendone la nullità del giudizio per mancata applicazione dell’art. 295 c.p.c.
Il motivo è inammissibile, perché, nel silenzio della sentenza impugnata, non è accompagnato dalla indicazione del quando e in quale documento dei precedenti gradi di giudizio l’eccezione fosse stata sollevata.
Per completezza è comunque infondato. Questa Corte ha infatti già chiarito che nel processo tributario, qualora tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità, va disposta la sospensione, ai sensi dell’art. 295 c.p.c., della causa dipendente allorché la causa pregiudicante sia ancora pendente in primo grado, mentre, una volta che questa sia definita con sentenza non passata in giudicato, opera la sospensione facoltativa di cui all’art. 337, comma 2, c.p.c., con la conseguenza che, in tale ultimo caso, il giudice della causa pregiudicata può, alternativamente, sospendere il giudizio e attendere la stabilizzazione della sentenza con il passaggio in giudicato oppure proseguire il giudizio medesimo ove ritenga, sulla base di una valutazione prognostica, che la decisione possa essere riformata (Cass., 25 marzo 2024, n. 7952). Nel caso di specie la controversia tra l’erario ed i due soggetti si è sviluppata parallelamente sin dal primo grado del giudizio, sicché mancavano i presupposti per disporre la sospensione necessaria, ma anche la necessità, o l’opportunità, di ricorrere alla sospensione facoltativa.
Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono della «violazione e/o falsa applicazione e/o falsa interpretazione della ‘regola di giudizio’ dettata dall’art. 2697 c.c. in connessione agli artt. 39 comma 1 e 41/bis del DPR n. 600/73 (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.)».
Il giudice regionale avrebbe erroneamente riconosciuto la correttezza della ricostruzione degli imponibili secondo le modalità induttive, ex art. 39 commi 1 e 2 dpr 600/1973, pur difettandone invece in presupposti, perché
non poteva esistere giuridicamente e contabilmente un ‘ricavo’ desunto dai vantaggi offerti ai beneficiari delle operazioni inesistenti.
Il motivo è privo di pregio perché, a parte che l’accertamento in fatto , che risulta eseguito dalla Commissione regionale, renderebbe del tutto inammissibile un tentativo di rimettere in discussione gli esiti delle valutazioni operate dal giudice d’appello (a conferma delle medesime argomentazioni e conclusioni raggiunte dal giudice di primo grado), anche in diritto le ragioni spiegate dalla difesa dei contribuenti risultano del tutto errate.
Il ragionamento seguito dall’amministrazione finanziaria , e condiviso dal giudice d’appello , è fondato sulla presunzione che la società, nella sua partecipazione a ll’attività fraudolenta, consistita nell’ organizzazione e messa in atto di operazioni soggettivamente inesistenti, per la quale la qui ricorrente è stata identificata quale soggetto interposto, frappostasi tra le parti effettive dei rapporti di cessione di metalli usati, avesse ottenuto un ‘compenso’ , in cambio del ruolo rivestito e foriero di conseguenze fiscali o penali in caso di scoperta. Tale ricompensa è stata determinata con metodo induttivo.
Rispetto a questa ricostruzione, che comunque configura, lo si ripete, un accertamento in fatto, diventa intanto incomprensibile criticare il ricorso al metodo induttivo puro, cui si è affidata l’amministrazione verificatrice , condivisa dal giudice d’appello, secondo il vaglio del materiale allegato al processo.
A fronte del riconoscimento di ‘profitti illeciti’ , è intanto appena il caso di rammentare che essi sono sottoposti a tassazione. Ciò emerge tanto dalla disciplina positiva, tant’è che già l’art. 14 , comma 4, del d.P.R. 537 del 1993, secondo il quale «4 . Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria.». Ed emerge anche nella giurisprudenza di legittimità (da ultimo cfr. Cass., 8 gennaio 2025, n. 307, in tema di individuazione del periodo d’imposta al quale imputare i redditi,
costituiti da proventi di attività illecita; 18 ottobre 2021, n. 28629, secondo la quale ai fini delle imposte sui redditi, i proventi derivanti da fatti illeciti costituiscono redditi da sottoporre a tassazione pure se non siano classificabili nelle categorie reddituali di cui all’art. 6, comma 1, T.U.I.R.; cfr. inoltre 22 settembre 2021, n. 25684). Ebbene, dinanzi alla incontestabile comprensione di questi proventi nel reddito imponibile, perde ogni rilevanza la considerazione se essi costituissero ricavi non inquadrabili ‘giuridicamente e neppure nella tecnica contabile’, come a ssume la difesa dei ricorrenti. Essi, infatti, non possono che costituire un reddito presunto, per il quale la forma di accertamento, per la stessa natura (illecita) del provento non dichiarato, non può che essere quella induttiva pura.
Peraltro, l’inattendibilità delle scritture contabili, come rileva la difesa della controricorrente, dipendeva anche dalla constata emissione di fatture per operazioni inesistenti.
Perdono dunque di consistenza tutte le argomentazioni operate dalla difesa dei ricorrenti, così come l’insistenza con cui si afferma che quei profitti erano solo una mera supposizione dell’Agenzia delle entrate e che fosse errata la pretesa inattendibilità delle scritture contabili (profilo 2.1 della medesima censura).
Il motivo in definitiva va rigettato.
Con il terzo motivo i ricorrenti si dolgono della «violazione e/o falsa applicazione delle regole dettate dall’art. 112 c.p.c. correlato all’art. 115 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.) ».
La sentenza sarebbe erronea laddove, nel trattare delle operazioni soggettivamente inesistenti, il giudice d’appello aveva applicato la disciplina delle operazioni oggettivamente inesistenti, qualificando illecito il meccanismo dell’inversione contabile .
Il motivo è inammissibile perché non coglie nel segno, facendo affermazioni che esulano del tutto dal contenuto della pronuncia, così come dal significato delle contestazioni elevate dall’ufficio , secondo quanto emerge dalla motivazione della sentenza. Infatti, nessun passaggio della decisione impugnata richiama, anche solo indirettamente, il coinvolgimento della società in operazioni oggettivamente inesistenti, al contrario evidenziando costantemente la sola natura di inesistenza soggettiva delle suddette
Con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono della «violazione e/o falsa applicazione della previsione contenuta negli artt. 74 commi 7 e 8 del DPR 633/72 e della regola contenuta nell’art. 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 , n. 3 c.p.c.».
La sentenza sarebbe errata perché, sul l’erroneo presupposto del compimento di operazioni oggettivamente inesistenti, contesta una detrazione dell’Iva che in realtà non risulta mai applicata al caso di specie , per essere operazioni in esenzione iva, applicandosi pertanto le regole dell’inversione contabile ( reverse charge ).
Il motivo è altrettanto errato come il terzo. In realtà, intanto l’accertamento è indirizzato solo all a contestazione del coinvolgimento in operazioni soggettivamente inesistenti, il che svuota già di per sé l’oggetto della critica.
Peraltro, per mera completezza, è del tutto errato, in punto di diritto, l’affermazione secondo cui in regi me di reverse charge la partecipazione ad operazioni soggettivamente inesistenti implichi l’esenzione dall’iva mediante il regime dell’inversione contabile .
La giurisprudenza di legittimità ha innanzitutto rilevato che in tema di prova di operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno in una frode carosello, questa Corte ha affermato che qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attenga a tale tipo di operazioni, incombe sulla stessa l’on ere di provare non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza nel destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione d’imposta dimostrando, anche in via presun tiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto (Cass., 20 aprile 2018, n. 9851; 30 ottobre 2018, n. 27566; 20 luglio 2020, n. 15369).
Con riguardo poi al regime del l’ inversione contabile -con principi elaborati in riferimento al commercio di materiale ferroso, ma le cui
argomentazioni possono trovare applicazione per qualunque altra merce-, si è affermato che, in osservanza dei principi di diritto enunciati dalla Corte di giustizia della UE, il diritto di detrazione dell’imposta relativa ad un’operazione di cessione di beni non può essere riconosciuto al cessionario che, sulla fattura emessa per tale operazione in applicazione del suddetto regime, abbia indicato un fornitore fittizio allorquando, alternativamente, il medesimo cessionario: a) abbia egli stesso commesso un’evasione dell’IVA ovvero sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto di detrazione s’iscriveva in una simile evasione; b) sia semplicemente consapevole della indicazione in fattura di un fornitore fittizio e non abbia fornito la prova che il vero fornitore sia un soggetto passivo IVA (Cass., 10 febbraio 2022, n. 4250).
Si tratta di interpretazione ancora più rigorosa in termini di prova richiesta al cessionario (posizione nel cui alveo rientra ovviamente anche la nostra interposta, proprio per la fittizietà della cessione di materiale formalizzata nei suoi confronti).
Ebbene, si è avvertito che « 2.9. la Corte di giustizia (CGUE 11 novembre 2021, in causa C-281/20, COGNOME SL), che si è di recente occupata per la prima volta della disciplina del reverse charge in materia di operazioni soggettivamente inesistenti, ha stabilito che la direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28/11/2006 (direttiva IVA), letta in combinazione con il principio di neutralità fiscale, dev’essere interpretata nel senso che a un soggetto passivo va negato l’esercizio del diritto a detrazione dell’IVA relativa all’acquisto di beni che gli sono stati ceduti, qualora tale soggetto passivo abbia consapevolmente indicato un fornitore fittizio sulla fattura che egli stesso ha emesso per tale operazione nell’ambito dell’applicazione del regime dell’inversione contabile, se, tenuto conto delle circostanze di fatto e degli elementi forniti da tale soggetto passivo, mancano i dati necessari per verificare che il vero fornitore aveva la qualità di soggetto passivo o se è sufficientemente dimostrato che tale soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione s’iscriveva in una simile evasione; 2.9.1. è stato, altresì, evidenziato che, sebbene non sia in contrasto con il diritto della UE esigere che un operatore agisca in buona fede, non è necessario dimostrarne la malafede per negargli
il diritto di detrazione (CGUE in causa 281/20, cit., punto 58; conf., CGUE 14 aprile 2021, in causa C-108/20, Finanzamt Wilmersdorf, punti 30 e 31), 2.9.2. anzi, il fatto che il soggetto passivo che ha emesso la fattura vi abbia consapevolmente menzionato un fornitore fittizio «è un elemento rilevante tale da indicare che il soggetto passivo in questione era cosciente di partecipare a una cessione di beni che si iscriveva in un’evasione dell’IVA» (CGUE in causa C-281/20, cit., punto 53); 2.9.3. del resto, sul piano generale, l’esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA va negato se mancano i dati necessari per verificare che il fornitore del soggetto che lo invoca abbia la qualità di soggetto passivo (CGUE 9 dicembre 2021, in causa C-154/20, RAGIONE_SOCIALE, punto 41); 2.9.4. in piena coerenza con quanto affermato dalla Corte di giustizia, l’orientamento consolidato della S.C. è nel senso che l’IVA non è detraibile, ancorché risulti l’apparente osservanza dei requisiti formali, ove manchi la corrispondenza dell’operazione fatturata con quella in concreto realizzata; e ciò anche nel caso di applicazione del regime dell’inversione contabile (Cass. n. 16679 del 09/08/2016; Cass. n. 2862 del 31/01/2019; Cass. n. 3599 del 13/02/2020; Cass. n. 14853 del 13/07/2020; Cass. n. 16367 del 30/07/2020; Cass. n. 21677 del 08/10/2020; Cass. n. 9394 del 09/04/2021); 2.10.1. …, pertanto, non rileva tanto la (più generale) conoscenza della frode IVA ovvero la partecipazione o conoscenza di tale disegno cr iminoso da parte di , essendo, invece, rilevante la conoscenza, da parte della società contribuente, della inesistenza del soggetto passivo (fornitore) indicato in fattura e la mancanza di elementi idonei ad individuare l’effettivo fornitore quale soggetto passivo IVA » (Cass., n. 4250/2022 cit.).
Ebbene, nel caso ora al vaglio della Corte, a parte che non è dato evincere quale sia il passaggio della sentenza oggetto della censura nei termini illustrati in ricorso, l’elemento in ogni caso assorbente è che la contestazione indirizzata alla società era quella della partecipazione ad operazioni soggettivamente inesistenti, per le quali il meccanismo di neutralizzazione dell’iva non poteva trovare applicazione per le ragioni appena esposte.
Pertanto, ai fini della determinazione del debito complessivo contestato alla società, la difesa di quest’ultima resta del tutto avulsa dai principi giuridici così come dall’accertamento dei fatti.
Con il quinto motivo i ricorrenti si dolgono della «violazione e/o falsa applicazione e/o falsa interpretazione della normativa dettata dall’art. 40 I comma DPR 600/1973 in connessione all’art. 39 commi I e II (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.)».
Si tratta di un motivo con il quale il socio unico fa propri i motivi di ricorso della società, soprattutto qualora non accolto il primo.
Ne consegue che le ragioni con cui sono state rigettate le censure della società vanno ribadite ai fini del rigetto del quinto motivo, afferente alla sola posizione del RAGIONE_SOCIALE.
Il ricorso va in conclusione rigettato e all’esito del giudizio segue la soccombenza dei ricorrenti anche nelle spese di causa, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese di causa in favore della Agenzia delle entrate, che liquidano in € 5.900,00 a titolo di compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 26 giugno 2025