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Operazioni inesistenti: come si prova la frode fiscale?

Una società si è vista negare la deducibilità di costi a seguito di un avviso di accertamento per operazioni inesistenti. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2160/2024, ha confermato la decisione, ribadendo che, a fronte di gravi indizi di frode forniti dall’Amministrazione Finanziaria, non sono sufficienti per il contribuente la mera esibizione delle fatture, la loro registrazione contabile e la prova dei pagamenti per dimostrare l’effettività delle prestazioni. La Corte ha sottolineato che tali elementi formali sono spesso parte integrante del meccanismo fraudolento.

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Pubblicato il 26 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Operazioni inesistenti: come si prova la frode fiscale?

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 2160 del 22 gennaio 2024, è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale del diritto tributario: la prova delle operazioni inesistenti. La decisione chiarisce che, di fronte a un quadro indiziario solido che suggerisce una frode, la mera apparenza formale non è sufficiente per il contribuente a dimostrare la realtà delle prestazioni. Fatture, registrazioni contabili e pagamenti tracciabili possono, infatti, essere essi stessi parte di un disegno fraudolento.

I fatti di causa

Una società si è vista recapitare un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione Ires, Iva e Irap per l’anno 2003. Il motivo era il disconoscimento dei costi relativi a fatture emesse da un’altra società per presunti servizi di intermediazione.

Secondo le indagini della Guardia di Finanza, la società fornitrice faceva parte di un complesso gruppo societario creato al solo scopo di attuare un progetto fraudolento. Il sistema prevedeva l’emissione di fatture per operazioni fittizie, supportate da movimenti bancari circolari tra società italiane ed estere per dare una parvenza di legittimità ai flussi di denaro. In sostanza, si creavano costi fittizi per abbattere l’imponibile fiscale delle società clienti.

La difesa del contribuente e le decisioni di merito

La società contribuente si è opposta all’accertamento, sostenendo la realtà delle prestazioni e portando come prove la regolare tenuta dei registri IVA e le movimentazioni bancarie (bonifici) a saldo delle fatture. Inizialmente, la Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso del contribuente.

Tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale, in sede di appello, ha ribaltato la decisione, ritenendo legittimo l’atto dell’Amministrazione Finanziaria. I giudici di secondo grado hanno considerato che gli elementi formali addotti dalla società non fossero idonei a smentire il solido quadro probatorio presuntivo costruito dall’Agenzia, che dimostrava l’inserimento dell’operazione in un più ampio schema di frode fiscale.

Operazioni inesistenti e onere della prova

Il cuore della questione, affrontato dalla Corte di Cassazione, riguarda la ripartizione dell’onere della prova in materia di operazioni inesistenti. La Corte ha ribadito un principio consolidato: spetta all’Amministrazione Finanziaria fornire la prova che l’operazione non è mai avvenuta. Tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni, ossia elementi indiziari gravi, precisi e concordanti.

Una volta che l’Ufficio ha fornito tali elementi (ad esempio, dimostrando che la società emittente è una ‘cartiera’ o parte di una frode carosello), l’onere della prova si sposta sul contribuente. Quest’ultimo deve dimostrare l’effettiva esistenza della prestazione. E qui sta il punto cruciale della sentenza.

Il valore della prova presuntiva nel contenzioso tributario

La Cassazione ha rigettato i motivi di ricorso del contribuente, confermando la validità del ragionamento presuntivo seguito dai giudici d’appello. La Corte ha chiarito che i tradizionali elementi probatori formali, come la fattura, la sua contabilizzazione e il relativo pagamento, perdono la loro efficacia probatoria quando si inseriscono in un contesto fraudolento.

Le motivazioni della Corte

La Suprema Corte ha specificato che la regolare tenuta della contabilità e l’esistenza di flussi finanziari tracciabili non sono elementi conclusivi, ma anzi, spesso rappresentano proprio gli accorgimenti utilizzati per mascherare l’operazione fittizia e darle un’apparenza di realtà. Il giudice di merito aveva correttamente valutato questi aspetti come non sufficienti a superare gli elementi indiziari forniti dall’Agenzia, tra cui le dichiarazioni del rappresentante legale della società contribuente, che non era stato in grado di fornire dettagli precisi sui clienti procurati tramite l’asserita intermediazione.

I giudici di legittimità hanno ritenuto inammissibili le censure della società ricorrente relative a una presunta errata valutazione delle prove e a un’omessa considerazione di fatti decisivi. La Corte ha ribadito che il suo ruolo non è quello di riesaminare i fatti, ma di controllare la corretta applicazione delle norme di diritto, inclusa quella sulla prova presuntiva (art. 2729 c.c.). Nel caso di specie, il ragionamento dei giudici di appello è stato ritenuto logico, coerente e sufficientemente motivato, senza cadere in vizi di legittimità.

Conclusioni

La sentenza n. 2160/2024 rafforza un orientamento giurisprudenziale fondamentale: nel contrasto alle frodi fiscali basate su operazioni inesistenti, la sostanza prevale sulla forma. Per le imprese, questo si traduce in un monito importante: non è sufficiente assicurarsi di avere la documentazione contabile in ordine. È essenziale esercitare una dovuta diligenza nella scelta dei propri partner commerciali e fornitori, per evitare di essere inconsapevolmente coinvolti in schemi fraudolenti. Quando l’Amministrazione Finanziaria fornisce prove presuntive solide riguardo a una frode, il contribuente deve essere in grado di fornire prove concrete e sostanziali dell’effettiva esecuzione della prestazione, andando ben oltre la mera esibizione di documenti formali.

In caso di accertamento per operazioni inesistenti, a chi spetta l’onere della prova?
Inizialmente, l’onere spetta all’Amministrazione Finanziaria, che deve provare, anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, che l’operazione non è mai stata posta in essere. Una volta fornita questa prova, l’onere si sposta sul contribuente, che deve dimostrare l’effettiva esistenza e realtà della prestazione ricevuta.

La regolare registrazione delle fatture e l’effettivo pagamento sono sufficienti a dimostrare l’esistenza di un’operazione commerciale?
No. Secondo la sentenza, la mera regolarità formale delle scritture contabili e l’esistenza di mezzi di pagamento tracciabili non sono sufficienti a integrare la prova contraria a carico del contribuente. Questo perché tali elementi sono spesso parte integrante del meccanismo fraudolento, utilizzati proprio per dare un’apparenza di realtà a un’operazione fittizia.

Come può difendersi un contribuente da un’accusa di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti?
Il contribuente deve andare oltre la prova formale (fatture e pagamenti) e fornire elementi concreti e sostanziali che dimostrino l’effettiva esecuzione della prestazione. Questo può includere, a seconda del caso, contratti dettagliati, corrispondenza commerciale, report di attività, prove di consegna, testimonianze o qualsiasi altro elemento idoneo a dimostrare che l’operazione economica ha avuto una sua reale e tangibile consistenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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