Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 18968 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 18968 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13905/2020 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
AGENZIA RAGIONE_SOCIALE DIREZIONE PROVINCIALE I ROMA, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
Avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del LAZIO n. 7023/2019 depositata il 17/12/2019. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/04/2025
dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Commissione tributaria regionale del Lazio ( hinc: CTR), con la sentenza n. 7023/2019 depositata in data 17/12/2019, ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE contro la sentenza n. 19807/2018 con cui la Commissione tributaria provinciale di Roma aveva, a sua volta, respinto il ricorso proposto dalla società contribuente contro l’avviso di accertamento, con cui erano state fatte riprese a titolo di IRES, IRAP e IVA in merito all’anno d’imposta 2011 e irrogate sanzioni per infedele fatturazione di operazioni imponibili.
La CTR, in sintesi, ha:
-ritenuto infondata l’eccezione della contribuente relativa all’incompetenza territoriale dell’ufficio che ha emesso l’atto impositivo, rilevando che nel 2011 la società era domiciliata fiscalmente nella circoscrizione di competenza dell’ufficio accertato re (art. 31, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973);
-ritenuto infondata l’eccezione relativa alla mancanza del contraddittorio preventivo, considerato che, da un lato, l’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973 attribuisce all’ufficio la mera facoltà di chiedere al contribuente notizie e dati e che, l’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000 prevede un termine di sessanta giorni dalla data della consegna al contribuente del processo verbale di chiusura per comunicare osservazioni e richieste;
-ritenuto che l’amministrazione finanziaria avesse dimostrato che nell’anno d’imposta 2011 gli acquisti e le vendite effettuate dalla RAGIONE_SOCIALE si iscrivevano all’interno di una filiera fraudolenta,
composta a monte da due società cartiere e da una società filtro, di cui NOME COGNOME era amministratore di fatto. RAGIONE_SOCIALE non disponeva, nel 2011, di personale dipendente;
ritenuto che le fatture oggetto di contestazione riguardassero operazioni soggettivamente inesistenti. In particolare, per la fattura n. 1139 del 31/12/2011 risultava solo un pagamento esiguo, con versamenti anticipati (da settembre fino a dicembre 2011) e contenenti gli estremi di una fattura non ancora emessa. Tali pagamenti, consistiti in prelievi in contanti, apparivano comunque fittizi e nel 2012 non risultava alcun pagamento a saldo. Gli ingenti acquisti documentati dalla fattura non erano neppure possibili in mancanza di dipendenti. In relazione alla ricevuta di Euro 120.000 emessa da NOME (già dipendente del gruppo RAGIONE_SOCIALE e, in particolare, della società RAGIONE_SOCIALE) si trattava del compenso della provvigione per un acquisto da parte di RAGIONE_SOCIALE di attrezzature provenienti dalla Cina per oltre un milione di euro. Risultava, tuttavia, inverosimile che una dipendente potesse svolgere un’intermediazione specialistica per un importo così notevole per conto di RAGIONE_SOCIALE. Le fatture emesse nei confronti di RAGIONE_SOCIALE e da RAGIONE_SOCIALE -società riconducibili al gruppo RAGIONE_SOCIALE -riguardavano operazioni inesistenti, poiché tali società non avevano personale dipendente, strutture o mezzi per effettuare cessioni di tale grandezza. La società cinese RAGIONE_SOCIALE aveva emesso nei confronti di RAGIONE_SOCIALE fatture di materiale di illuminazione per un imponibile di Euro 1.856.190,75 e dalle indagini finanziarie era emerso che le provviste necessarie al pagamento dei materiali di illuminazione provenivano dalle società del gruppo RAGIONE_SOCIALE sopra richiamate.
Contro la sentenza della CTR la società contribuente ha proposto ricorso in cassazione con quattro motivi.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
…
RAGIONI DELLA DECISIONE
In via preliminare occorre disattendere la richiesta di riunione del presente fascicolo con quello iscritto a R.G. n. 29521/2019 e definito nella presente adunanza camerale con distinto provvedimento. Si tratta, infatti, di due fascicoli relativi a due diversi atti impositivi oggetto di impugnazione ad opera della contribuente nell’ambito di due distinti giudizi, conclusi in grado di appello da due diverse sentenze della CTR. La parte ricorrente fa, inoltre, riferimento a ragioni di connessione soggettiva (intuibili trattandosi della medesima società contribuente che ricorre, in entrambi i casi, in cassazione) e oggettive non meglio esplicitate.
Con il primo motivo è stata denunciata l’incompetenza dell’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale I di Roma a emettere l’avviso di accertamento impugnato; violazione e falsa applicazione degli artt. 31, comma 2, e 58 d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo c omma, n. 3, c.p.c.
2.1. La ricorrente rileva che, sebbene avesse sede ad Acilia, nel Comune di Roma e la competenza fosse della Direzione Provinciale II (con sede in INDIRIZZO) l’avviso impugnato era stato emesso dalla Direzione Provinciale I (con sede in INDIRIZZO). Ad avviso della parte ricorrente non si tratta di norme che riguardano l’organizzazione interna degli uffici, ma attengono all’attribuzione del potere impositivo vero e proprio nei confronti dei contribuenti, consentendo l’espletamento del diritt o al contraddittorio.
2.2. Dopo aver richiamato il contenuto degli artt. 31 e 58 d.P.R. n. 600 del 1973, la ricorrente evidenzia che, mentre fino al 13/02/2015 la società aveva la propria sede a Roma, INDIRIZZO (con la competenza della Dir. Prov. I),
successivamente la sede è stata spostata ad Acilia, INDIRIZZO con la conseguenza che la competenza spetta alla Dir. Prov. Roma II, tanto è vero che proprio nel 2017 quest’ultimo ufficio ha notificato un avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2014 (oggetto del contenzioso pendente di cui, supra, sub 1).
2.3. Il motivo è inammissibile, in quanto non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, che dà rilievo al fatto che la società contribuente, nel 2012, al momento della presentazione della dichiarazione per l’anno 2011 era domiciliata fiscalmente nella circoscrizione di competenza dell’ufficio accertatore. L’art. 31, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973 prevede, peraltro, che: « La competenza spetta all’ufficio distrettuale nella cui circoscrizione è il domicilio fiscale del soggetto obbligato alla dichiarazione alla data in cui questa è stata o avrebbe dovuto essere presentata. »
Il tenore letterale della disposizione appena richiamata, fa dipendere la competenza dal domicilio fiscale del contribuente alla data di presentazione della dichiarazione (o alla data in cui quest’ultima avrebbe dovuto essere presentata). Difatti, questa Corte ha precisato che la competenza territoriale degli uffici finanziari si determina tramite il criterio del domicilio fiscale o della residenza del contribuente inserita nella dichiarazione dei redditi, per cui, se quest’ultimo li ha indicati erroneamente, non può sfruttare l’errore in cui è incorsa l’Amministrazione finanziaria per eccepire l’invalidità per incompetenza territoriale dell’atto di accertamento compiuto dall’Ufficio finanziario del domicilio o della residenza da lui stesso dichiarato errato, con la conseguenza che, ai fini della competenza territoriale, rileva anche il domicilio fiscale o la residenza indicata erroneamente con la dichiarazione (Cass., 12/06/2024, n. 16408).
Con il secondo motivo è stata denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 41 della Carta di Nizza, dell’art. 24 Cost,
dell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 200 0 , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.; f alsa applicazione dell’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.; illegittimità dell’avviso di accertamento in quanto emesso in assenza di preventivo contraddittorio.
3.1. La ricorrente rileva che, tanto nel ricorso introduttivo che nell’atto di appello, ha eccepito la violazione del diritto al contraddittorio preventivo, fornendo la prova di resistenza (v. pag. 10-11 del ricorso della società). Era stato, in particolare, rilevato che l’accertamento notificato alla società fosse basato sull’esito di indagini, ispezioni e verifiche concluse con il PVC n. 24/2016 e, pertanto, non trattandosi di un accertamento a tavolino, il contraddittorio era sempre obbligatorio. Inoltre, il principale tributo richiesto dall’ufficio era l’IVA (per Euro 65.100) e, di conseguenza, un tributo armonizzato, per cui era obbligatorio, a pena di nullità, il contraddittorio preventivo.
3.2. La sentenza impugnata è illegittima , sia per l’inconferenza del richiamo all’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, sia per il rilievo dato al decorso del termine di sessanta giorni ex art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000, trattandosi di circostanza che non fa venir meno il diritto della contribuente a essere convocata.
3.3. Il motivo è infondato.
Trattandosi di avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2011 trova applicazione la versione originaria dell’art. 12, comma 7, legge n. 212 del 2000, il quale prevede che: « Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L ‘avviso di accertamento non può essere
emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza. »
Nel caso di specie l’avviso di accertamento è stato emesso secondo quanto si legge nella sentenza impugnata -una volta decorso il termine di sessanta giorni previsto dalla norma appena riportata, con la conseguenza che rimane assorbito anche il profilo relativo alla prova di resistenza. Giustappunto con la pronuncia indicata in ricorso (Cass. 15/01/2019, n. 701) , si è affermato l’indirizzo, successivamente più volte ribadito (v., fra varie, Cass. 11/9/2019, n. 22644), secondo cui ‘ l’art. 12, comma 7, della l. n. 212 del 2000 effettua, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio già operata dal legislatore, attraverso la previsione espressa di una nullità per mancato rispetto del termine dilatorio che già, a monte, ingloba la «prova di resistenza», sia con riferimento ai tributi armonizzati che in ordine a quelli non armonizzati (non effettuando la norma alcuna distinzione in merito alle conseguenze sanzionatorie)’ .
Con il terzo motivo è stata denunciata la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972 e dell’art. 109 t.u.i.r., nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.; illegittimità della sentenza di appello in relazione alla (solo) presunta registrazione di fatture per operazioni inesistenti.
4.1. La ricorrente con tale motivo ripercorre le contestazioni fatte dall’ufficio in merito alla fattura emessa da RAGIONE_SOCIALE per l’importo di Euro 310.000, ritenuta inesistente dalla CTR, in quanto la contribuente non aveva personale dipendente e perché la fattura sarebbe stata pagata solo in parte. Censura l’illegittimità della sentenza, in quanto il pagamento parziale
confermerebbe l’esistenza dell’operazione. Inoltre, la circostanza che RAGIONE_SOCIALE non avesse dipendenti nel 2011 non può avere rilievo, dal momento che si trattava di un grossista nel settore dei supporti registrati (audio e video) che acquistava la merce da fornitori esteri e la cedeva o la dava a noleggio senza farla transitare dalla propria sede operativa. Inoltre, dal Mod. 770/2012 risultava, comunque, che la società avesse tre collaboratori.
Con riferimento alla ricevuta emessa da NOME COGNOME per Euro 120.000 è stata censurata la conclusione della CTR che non ha ritenuto credibile che un’impiegata potesse svolgere un’intermediazione specialistica per un importo così notevole. NOME COGNOME operava, infatti, da anni nel settore, seguendo l’importazione dei beni dalla Cina e non era dipendente della RAGIONE_SOCIALE, con la conseguenza che poteva svolgere delle collaborazioni occasionali di intermediazione con la società contribuente, al fine di farle acquistare, tramite importazione dalla Cina, le attrezzature tecniche audio-video indicate nella fattura del 20/09/2011. Rileva che sono stati allegati al ricorso i contratti e le fatture per la fornitura delle merci importate dalla Cina (in particolare dalla società cinese RAGIONE_SOCIALE dove risulta evidenziata come referente la sig.ra COGNOME che si è occupata dell’intera trattativa. Richiama, infine, il mod. 770/2012 allegato all’atto di appello, da cui risulta la ritenuta fiscale di Euro 13.800 operata sul compenso.
4.2. Il motivo è inammissibile, in quanto il vizio di violazione di legge sottende una richiesta di rivalutazione dei fatti estranea al sindacato di legittimità. Secondo questa Corte, infatti, in tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa
interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme (Cass., 23/04/2024, n. 10927).
Con il quarto motivo è stata denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633 del 1973, nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.; illegittimità della sentenza di appello in relazione alla presunta emissione di fatture per operazioni inesistenti.
5.1. La ricorrente censura le affermazioni contenute nella sentenza impugnata che hanno ritenuto corretta la ripresa a tassazione in merito alle fatture emesse nei confronti di RAGIONE_SOCIALE e da RAGIONE_SOCIALE in quanto relative a operazioni inesistenti. Rileva, in particolare, di essere una società grossista nel settore dei supporti audio e video, che acquistava la merce dai rivenditori esteri, per ricederla o darla in noleggio, senza che dovesse, necessariamente, transitare alla sede operativa. L’amministratore della società era, infatti, in grado di gestire gli acquisti e le successive rivendite o noleggi tramite il semplice uso di mail o del telefono. Non essendo un commerciante al dettaglio svolgeva, quindi, operazioni di rapida intermediazione tra i fornitori/produttori dei beni e gli utilizzatori finali. A supporto di tali argomentazioni richiama la documentazione prodotta (Mod. 770/2012 relativo al versamento delle ritenute per tre collaboratori, estratto conto bancario, schede contabili, documenti relativi all’acquisto delle merci).
5.2. Ad avviso della ricorrente la CTR ha violato sia l’art. 21, comma 7, d.P.R. n. 633 del 1972 (richiedendo per la seconda volta il versamento dell’IVA ) , sia l’art. 2697 c.c. (avendo presunto, senza le necessarie prove e senza adeguata valutazione, la fittizietà delle operazioni e ritenuto non credibile che una società grossista che
operava con veloci intermediazioni telefoniche per la compravendita delle merci e con ben tre collaboratori potesse svolgere la sua attività senza una struttura imprenditoriale dotata di magazzini per lo stoccaggio e con tale personale). Non solo la contribuente ha provato, ex art. 2697 c.c., l’esistenza delle merci e delle sottese operazioni commerciali, ma l’ufficio non ha mai contestato la sussistenza dei pagamenti di tale merce. Infine, rileva che non ci sarebbe alcun vantaggio, dal momento che il ricavato delle vendite è stato regolarmente tassato e non contestato e l’IVA incassata sulle fatture attive è stata pacificamente versata.
5.3. Anche il quarto motivo di ricorso è inammissibile.
Anzitutto, quanto alle deduzioni concernenti la mancanza di vantaggio anche per l’affermata duplicazione di pretesa impositiva, va rilevato che la censura si pone in contrasto con la stessa ricostruzione dei fatti offerta in ricorso, che trova riscontro in controricorso (in cui si legge che ‘… l’Ufficio non ha richiesto per la seconda volta il pagamento dell’Iva, in quanto l’Ufficio ha unicamente applicato la sanzione per irregolare fatturazione ‘) : si legge difatti alle pagine 2 e 3 del ricorso per cassazione che ‘ l’Ufficio accertava minori ricavi deducibili di euro 430.000,00 (e cioè le due fatture passive indicate al punto I), da cui un’IRES dovuta di euro 118.250,00, oltre interessi, ed un’IRAP dovuta di euro 21.080,00, oltre interessi; ed ancora un’IVA indetraib ile di euro 65.100,00, oltre interessi ‘ , sempre concernente, quindi, le due fatture passive. Il tutto con l’irrogazione di sanzioni, ‘… di cui 304.260,08 per presunta infedele fatturazione di operazioni imponibili ‘.
Ciò posto, il motivo in realtà veicola una richiesta di rivalutazione di fatto che spetta al giudice di merito.
Alla luce di quanto sin qui evidenziato il ricorso è infondato e deve essere rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente.
…
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 29/04/2025.