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Onere probatorio: fatture e accertamento fiscale

La Corte di Cassazione ha stabilito che, in un accertamento fiscale, le fatture non contabilizzate scoperte presso i clienti di un’impresa sono sufficienti a creare una presunzione di ricavi non dichiarati. Di conseguenza, l’onere probatorio si sposta sull’Agenzia delle Entrate al contribuente, il quale deve dimostrare che tali operazioni non sono mai avvenute o non hanno generato reddito. La Corte ha cassato la decisione di merito che aveva erroneamente richiesto all’Amministrazione Finanziaria prove aggiuntive.

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Pubblicato il 22 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Onere probatorio: fatture non contabilizzate bastano per l’accertamento

L’onere probatorio negli accertamenti fiscali è un tema cruciale e spesso dibattuto. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: le fatture non registrate, scoperte dall’Amministrazione Finanziaria presso i clienti di un contribuente, sono sufficienti a far scattare una presunzione di evasione, invertendo così l’onere probatorio. Sarà quindi il contribuente a dover dimostrare l’infondatezza della pretesa erariale, e non l’Agenzia a dover fornire ulteriori prove.

I fatti di causa

Il caso ha origine da un avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate al titolare di una ditta individuale. L’Amministrazione, sulla base di controlli incrociati effettuati presso i clienti dell’impresa, aveva rinvenuto fatture emesse ma non contabilizzate, relative all’anno d’imposta 2007. Di conseguenza, aveva proceduto a rettificare il reddito d’impresa, il valore della produzione netta e il volume d’affari ai fini IRPEF, IRAP e IVA, recuperando a tassazione quelli che riteneva essere ‘ricavi in nero’.

Il contribuente ha impugnato l’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale, che ha accolto il ricorso annullando l’accertamento. L’Agenzia delle Entrate ha proposto appello, ma la Commissione Tributaria Regionale ha confermato la decisione di primo grado, respingendo il gravame. La motivazione dei giudici regionali si basava su un punto specifico: l’Ufficio non aveva fornito elementi idonei a dimostrare che le prestazioni indicate in quelle fatture fossero state effettivamente eseguite e avessero quindi generato un reddito per il contribuente.

Il ricorso in Cassazione e l’onere probatorio

Contro questa sentenza, l’Agenzia delle Entrate ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, articolando due motivi. Il primo, relativo a un presunto vizio di motivazione della sentenza, è stato respinto. La Corte ha ritenuto che la motivazione, seppur sintetica, fosse chiara e avesse raggiunto il cosiddetto ‘minimo costituzionale’.

Il secondo motivo, invece, è stato accolto. L’Agenzia lamentava la violazione delle norme sull’onere probatorio (art. 2697 c.c.) e sulle presunzioni (artt. 2727 e 2729 c.c.), sostenendo che la Commissione Regionale avesse erroneamente negato valore presuntivo ai documenti raccolti presso terzi, ossia le fatture non contabilizzate. Secondo l’Agenzia, tali elementi erano più che sufficienti per spostare sul contribuente l’onere di dimostrare la non veridicità delle operazioni contestate.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha pienamente condiviso la tesi dell’Amministrazione Finanziaria, definendo ‘giuridicamente erronee’ le argomentazioni della sentenza impugnata. Gli Ermellini hanno riaffermato un orientamento ormai consolidato: una volta che l’esistenza di attività non dichiarate viene acclarata, anche attraverso presunzioni semplici come quelle derivanti da accertamenti presso terzi, si innesca un meccanismo probatorio a favore del Fisco.

Le motivazioni

La Corte ha spiegato che gli elementi indiziari raccolti dall’Ufficio, come le fatture trovate presso i clienti, generano una presunzione di condotta evasiva. A questo punto, l’onere probatorio si inverte: non è più l’Amministrazione a dover fornire ulteriori prove, ma spetta al contribuente, in conformità con l’art. 2697 c.c., dimostrare fatti impeditivi, modificativi o estintivi della pretesa tributaria. In altre parole, è il contribuente che deve provare che quelle fatture sono false, che le operazioni non sono mai avvenute o che, per qualsiasi motivo, non hanno prodotto reddito.

La Commissione Tributaria Regionale, invece, aveva commesso un ‘error in iudicando’ ponendo a carico dell’Agenzia delle Entrate l’onere di fornire ‘ulteriori elementi probatori’ a sostegno della pretesa, ignorando che gli indizi già raccolti avevano determinato l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.

Le conclusioni

In definitiva, la Corte di Cassazione ha accolto il secondo motivo di ricorso, cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Abruzzo in diversa composizione. Il nuovo collegio dovrà riesaminare la controversia attenendosi al principio di diritto secondo cui le fatture acquisite presso terzi, documentanti operazioni commerciali non contabilizzate, costituiscono prova presuntiva sufficiente a spostare sul contribuente l’onere probatorio della loro infondatezza. Questa ordinanza rafforza gli strumenti accertativi a disposizione del Fisco e chiarisce, ancora una volta, le regole sulla ripartizione dell’onere della prova nel processo tributario.

Le fatture non registrate trovate presso i clienti di un’impresa sono sufficienti per un accertamento fiscale?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, tali documenti sono sufficienti a creare una presunzione legale di ricavi non dichiarati, giustificando l’accertamento da parte dell’Amministrazione Finanziaria.

A chi spetta l’onere probatorio in caso di contestazione di fatture non contabilizzate?
Una volta che l’Agenzia delle Entrate presenta come prova le fatture non contabilizzate, l’onere probatorio si inverte e spetta al contribuente dimostrare che tali operazioni non sono mai avvenute, sono false o non hanno prodotto reddito.

Cosa significa che la motivazione di una sentenza ha raggiunto il ‘minimo costituzionale’?
Significa che il ragionamento del giudice, anche se molto breve, è comunque esistente, comprensibile e non palesemente illogico o contraddittorio. Questo è sufficiente per considerare la sentenza valida dal punto di vista formale, anche se le conclusioni giuridiche possono essere errate.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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