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Onere della prova frode IVA: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 17847/2025, ha chiarito la ripartizione dell’onere della prova nelle frodi IVA. In caso di operazioni soggettivamente inesistenti, una volta che l’Amministrazione Finanziaria dimostra che il fornitore è una ‘società cartiera’, spetta al contribuente provare la propria buona fede. Quest’ultimo deve dimostrare di aver adottato la massima diligenza per verificare la legittimità dell’operazione, non essendo sufficiente la mera assenza di un vantaggio economico diretto. La sentenza ha quindi cassato la decisione di merito che aveva erroneamente addossato l’intero onere probatorio all’Agenzia delle Entrate.

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Pubblicato il 6 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Onere della Prova nelle Frodi IVA: La Cassazione Chiarisce le Responsabilità del Contribuente

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione interviene su un tema cruciale del diritto tributario: l’onere della prova nelle frodi IVA in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti. Quando un’azienda si trova, consapevolmente o meno, a interagire con una cosiddetta ‘società cartiera’, chi deve dimostrare la buona o la cattiva fede? La Suprema Corte fornisce un’interpretazione rigorosa, delineando i confini della diligenza richiesta all’operatore economico per non vedersi negato il diritto alla detrazione dell’IVA.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda una società operante nel settore agroalimentare che aveva ricevuto avvisi di accertamento per gli anni 2010 e 2011, con cui l’Agenzia delle Entrate contestava la detrazione dell’IVA su fatture ricevute da un’altra società, risultata essere una ‘cartiera’. Le operazioni, pur essendo state effettivamente eseguite (consegna di legname), erano qualificate come ‘soggettivamente inesistenti’, poiché il fornitore indicato in fattura era un soggetto fittizio interposto nella transazione.

Mentre in primo grado i giudici tributari avevano dato ragione all’Agenzia, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) aveva ribaltato la decisione. Secondo la CTR, l’Agenzia non aveva fornito prove sufficienti a dimostrare la partecipazione o la consapevolezza della società acquirente nella frode. In particolare, i giudici d’appello avevano valorizzato l’assenza di prove circa un vantaggio economico diretto per l’acquirente (come la retrocessione di parte dell’IVA evasa) e il fatto che l’azienda acquistasse legname anche da altri fornitori esteri.

L’Onere della Prova nelle Frodi IVA Secondo la Cassazione

L’Agenzia delle Entrate ha impugnato la sentenza della CTR dinanzi alla Corte di Cassazione, lamentando una violazione delle norme sull’onere della prova frode IVA (art. 2697 c.c.) e sulla detrazione IVA. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, ritenendo il ragionamento della CTR palesemente errato.

Il punto centrale della decisione è la ripartizione dell’onere probatorio. La giurisprudenza, sia nazionale che europea, è consolidata nel ritenere che:

1. L’Amministrazione Finanziaria ha l’onere di provare l’esistenza del meccanismo fraudolento e gli elementi, anche presuntivi, che dimostrino che il cessionario (l’acquirente) sapeva o avrebbe dovuto sapere, usando l’ordinaria diligenza, che l’operazione si inseriva in un’evasione dell’IVA.
2. Il Contribuente, una volta che l’Amministrazione ha fornito tali elementi, ha l’onere di fornire la ‘prova contraria’, ossia dimostrare la propria assoluta buona fede e di aver adottato tutte le cautele esigibili da un operatore accorto per non essere coinvolto nella frode.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte ha specificato che la CTR ha errato su più fronti. In primo luogo, ha addossato all’Ufficio un onere probatorio non richiesto, quello di dimostrare un vantaggio economico diretto per l’acquirente. La giurisprudenza, al contrario, chiarisce che per negare la detrazione IVA non è necessario che l’acquirente abbia partecipato attivamente alla frode o ne abbia tratto un beneficio diretto; è sufficiente la ‘mera conoscibilità’ del fenomeno criminoso, che si sarebbe potuta acquisire con una specifica diligenza professionale.

In secondo luogo, la CTR ha interpretato erroneamente gli indizi. Il fatto che il fornitore fosse una ‘cartiera’ palesemente priva di una struttura operativa (la merce veniva consegnata direttamente ai clienti finali senza passare dai suoi magazzini, che di fatto non esistevano) costituiva già un quadro indiziario grave. La CTR ha invece attribuito un valore probatorio positivo a elementi irrilevanti o addirittura controproducenti, come gli acquisti da fornitori esteri, che semmai dimostravano l’esperienza della società acquirente, dalla quale ci si sarebbe dovuta attendere una maggiore diligenza nel verificare i propri partner commerciali.

I giudici di legittimità hanno sottolineato come la CTR abbia omesso completamente di valutare quali misure precauzionali la società avesse concretamente adottato per sincerarsi della natura e delle caratteristiche del proprio fornitore, soprattutto a fronte di prezzi definiti ‘oggettivamente convenienti’ che avrebbero dovuto far scattare un campanello d’allarme.

Conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio fondamentale: la buona fede non si presume, ma si deve dimostrare attivamente quando l’Amministrazione Finanziaria fornisce elementi oggettivi che inseriscono una transazione in un contesto fraudolento. Non basta operare passivamente, ma è richiesta una condotta proattiva di verifica e controllo sui propri fornitori. La decisione della Cassazione cassa quindi la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado dell’Umbria, che dovrà riesaminare il caso applicando correttamente i principi sull’onere della prova nelle frodi IVA, valutando se la società acquirente abbia effettivamente esercitato quella diligenza professionale adeguata al settore che le avrebbe permesso di non essere coinvolta in una frode.

In caso di fatture emesse da una ‘società cartiera’, su chi ricade l’onere di provare la buona fede?
Una volta che l’Amministrazione Finanziaria ha fornito elementi, anche presuntivi, per dimostrare che il fornitore è una società fittizia e che l’operazione si inserisce in un contesto fraudolento, l’onere della prova si sposta sul contribuente (l’acquirente), il quale deve dimostrare la propria buona fede.

Cosa deve fare concretamente un contribuente per dimostrare la sua buona fede?
Il contribuente deve provare di aver agito con la massima diligenza esigibile da un operatore economico accorto. Questo significa dimostrare di aver adottato tutte le misure precauzionali ragionevoli per assicurarsi che l’operazione non facesse parte di un’evasione IVA, verificando ad esempio la reale struttura operativa del fornitore.

L’assenza di un vantaggio economico diretto per l’acquirente è sufficiente a provare la sua estraneità alla frode?
No. La Corte di Cassazione chiarisce che l’assenza di un beneficio diretto, come la restituzione di parte dell’IVA, non è di per sé una prova sufficiente della buona fede. Ciò che rileva è se l’acquirente sapeva o, usando la normale diligenza professionale, avrebbe dovuto sapere che stava partecipando a un’operazione fraudolenta.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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