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Onere della prova: fatture false e presunzioni fiscali

Una società ha impugnato un avviso di accertamento per IRES, IRAP e IVA basato sull’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando che l’Amministrazione Finanziaria può basare il proprio accertamento su presunzioni gravi, precise e concordanti, invertendo così l’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.

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Pubblicato il 2 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Onere della Prova e Fatture Inesistenti: La Cassazione Conferma la Linea Dura

La gestione dell’onere della prova nelle controversie fiscali relative a fatture per operazioni inesistenti rappresenta un campo minato per molti contribuenti. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su questo tema cruciale, ribadendo la validità degli accertamenti basati su presunzioni gravi, precise e concordanti e chiarendo quando il fardello probatorio si sposta dall’Amministrazione Finanziaria all’azienda. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso: Una Rete di Transazioni Sospette

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento per IRES, IRAP e IVA notificato a una società a responsabilità limitata. L’Agenzia delle Entrate contestava l’utilizzo di fatture per operazioni ritenute oggettivamente inesistenti, relative all’anno d’imposta 2016.

Inizialmente, la Commissione Tributaria Provinciale aveva dato ragione alla società. Tuttavia, la Commissione Tributaria Regionale, accogliendo l’appello dell’Agenzia, ha ribaltato la decisione. Secondo i giudici di secondo grado, l’Amministrazione Finanziaria aveva fornito un quadro probatorio presuntivo solido, basato su diversi elementi:

* Anomali passaggi di denaro tra la società contribuente e le altre entità coinvolte, costituiti da bonifici di importo complessivamente simile che creavano un flusso circolare.
* Il legale rappresentante della società contribuente risultava essere anche dipendente di una delle ditte emittenti le fatture contestate.
* Un meccanismo fraudolento che permetteva di dedurre costi e detrarre l’IVA in modo flessibile, a seconda delle esigenze.

A fronte di questi elementi, la Commissione Regionale ha ritenuto che l’onere della prova si fosse spostato sulla società, la quale non era riuscita a fornire documentazione idonea a dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni commerciali.

Le Motivazioni del Ricorso in Cassazione

La società ha presentato ricorso in Cassazione, basandolo su tre motivi principali:

1. Violazione delle regole sull’onere della prova: La ricorrente sosteneva che la Commissione Regionale avesse illegittimamente invertito l’onere della prova, ponendolo a suo carico senza che l’Agenzia avesse fornito prove “certe” della frode.
2. Mancata detrazione dei ricavi fittizi: In subordine, la società lamentava che non le fosse stato consentito di detrarre dai costi i ricavi fittiziamente conseguiti.
3. Vizi di notifica: Infine, si contestava la nullità dell’atto impositivo per la mancata notifica alla società di un processo verbale di constatazione (PVC) relativo a terzi, menzionato nell’accertamento.

Le motivazioni

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, giudicando tutti i motivi infondati o inammissibili. Per quanto riguarda il primo motivo, il più rilevante, i giudici hanno ribadito un principio consolidato: in tema di accertamento tributario, la legge consente all’Ufficio di desumere l’esistenza di operazioni fittizie anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti. Il giudice di merito deve valutare tali elementi presuntivi e, solo se li ritiene dotati di questi caratteri, può considerare invertito l’onere della prova, passando a valutare la prova contraria offerta dal contribuente. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la Commissione Regionale avesse correttamente applicato questa regola, valutando in modo logico e circostanziato gli indizi forniti dall’Agenzia. La censura della società, secondo la Cassazione, si traduceva in un inammissibile tentativo di ottenere una nuova valutazione dei fatti.

Gli altri due motivi sono stati dichiarati inammissibili. Il secondo, relativo alla detrazione dei ricavi, è stato considerato una questione nuova, mai proposta nei precedenti gradi di giudizio. Il terzo motivo, relativo ai vizi di notifica, è stato respinto per difetto di specificità (la società non aveva allegato né trascritto gli atti rilevanti) e perché si poneva in contrasto con l’accertamento in fatto compiuto dalla Commissione Regionale, la quale aveva confermato che l’avviso era compiutamente motivato per relationem al PVC notificato alla società contribuente.

Le conclusioni

Questa ordinanza conferma la linea rigorosa della giurisprudenza in materia di operazioni inesistenti. Per le imprese, il messaggio è chiaro: di fronte a un accertamento basato su un quadro presuntivo solido e coerente, non è sufficiente contestare genericamente le conclusioni dell’Amministrazione Finanziaria. Diventa fondamentale fornire una prova contraria robusta e documentata, in grado di dimostrare senza ombra di dubbio la realtà e l’inerenza delle operazioni contestate. La decisione sottolinea inoltre l’importanza di rispettare i principi processuali, come quello di autosufficienza del ricorso e il divieto di introdurre nuove questioni in Cassazione, la cui violazione porta inesorabilmente all’inammissibilità delle censure.

In caso di accertamento per fatture false, chi deve provare l’inesistenza delle operazioni?
Inizialmente, l’onere di provare l’inesistenza delle operazioni spetta all’Amministrazione Finanziaria. Tuttavia, essa può adempiere a tale onere anche attraverso presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti.

Cosa succede se l’Agenzia delle Entrate fornisce prove presuntive gravi, precise e concordanti?
Se il quadro presuntivo fornito dall’Agenzia è ritenuto sufficiente dal giudice, l’onere della prova si inverte e passa al contribuente. A quel punto, spetta alla società dimostrare con prove contrarie l’effettiva esistenza e la realtà delle operazioni commerciali contestate.

È possibile presentare per la prima volta in Cassazione una nuova questione di diritto o di fatto?
No, la Corte di Cassazione ha stabilito che una censura proposta per la prima volta in sede di legittimità è inammissibile per novità, specialmente se la sua trattazione richiede accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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