Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 9125 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 9125 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5627 -20 19 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, INDIRIZZO domicilia (PEC: EMAIL;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , NOME COGNOME rappresentate e difese dagli avv.ti NOME COGNOME COGNOME (PEC:
Oggetto: Dogane-Dazi antidumping-
EMAIL) ed NOME COGNOME (PEC: EMAIL), ed elettivamente domiciliate in Roma alla INDIRIZZO presso lo studio legale del predetto ultimo difensore;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
avverso la sentenza n. 4036/09/2018 della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, depositata il 26/09/2018; udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 29/01/2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. L’Amministrazione doganale:
-ricevuta una segnalazione degli organi esecutivi della Commissione per la lotta antifrode (OLAF) di cui al Reg. (CEE), 23 maggio 1999, n. 1073, non ancora culminata in un rapporto finale, da cui emergeva che la RAGIONE_SOCIALE negli anni 2011 e 2012 aveva importato prodotti (di viteria) realizzati a Taiwan e non nelle Filippine, come invece dichiarato negli atti di importazione, con conseguente inapplicabilità del dazio preferenziale applicato alle merci provenienti dalle Filippine;
rilevata , pertanto, la violazione da parte della RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE.a. del Reg. (CE) n. 771/2005, istitutivo del dazio antidumping provvisorio sulle importazioni di taluni elementi di acciaio inossidabile e di loro parti originari di alcuni paesi asiatici, tra i quali Taiwan, ed il Reg. (CE) n. 1890/2005 (come modificato dal reg. n. 768/2009), istitutivo del dazio antidumping definitivo;
provvedeva alla revisione su base documentale delle bollette doganali relative ai beni importati negli anni 2011 e 2012, e, quindi, ad emettere gli avvisi di rettifica dell’accertamento n. 33238 e n. 38790 e gli atti di irrogazione delle sanzioni n. 33239 e n. 38795 nei confronti dell’importatore RAGIONE_SOCIALE e dello spedizioniere doganale RAGIONE_SOCIALE, nonché l’avviso di rettifica
dell’accertamento n. 38798 e l’atto di irrogazione delle sanzioni. n. 38799 nei confronti della predetta società importatrice nonché della RAGIONE_SOCIALE
A seguito di impugnazione di detti atti da parte della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE, la CTP di Milano, riuniti i separati ricorsi proposti dalle società contribuenti, li accoglieva e la CTR della Lombardia, con la sentenza in epigrafe indicata , rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle dogane.
2.1. I giudici di appello sostenevano:
che l’amministrazione doganale, sul la quale incombeva il relativo onere probatorio, si era limitata a richiamare gli esiti degli accertamenti compiuti dall’OLAF in merito alla provenienza originaria delle merci non dalle Filippine, ma dalle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, aventi sede a Taiwan; a richiamare la revoca da parte delle autorità filippine dei certificati Form A precedentemente rilasciati alle esportatrici RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE; a produrre la nota del 19/07/2013 con cui il Bureau of Custom filippino segnalava l’accertata falsificazione della dichiarazione e del permesso di ammissione dei prodotti stranieri nella zona franca di Subic Bay attraverso la modifica del codice di sistema armonizzato originariamente indicato nella dichiarazione di importazione;
che l’amministrazione doganale non aveva però specificato i riscontri individuati dalle autorità filippine a sostegno dell’asserita falsità di detti codici;
che comunque non era stata provato che le società contribuenti fossero partecipi o, comunque, in qualche modo a conoscenza della frode;
che la documentazione prodotta dalle società contribuenti all’atto dello sdoganamento delle merci era stata redatta dai soggetti residenti nelle Filippine ed attestava la diversità dei codici
della merce in entrata nelle Filippine (beni semilavorati) rispetto a quelli dell’esportazione verso l’Europa, riportanti l’apposizione della sigla ‘W’ (worked – lavorati) nel campo 8 del certificato Form A;
che detta documentazione era idonea ad ingenerare un legittimo affidamento degli importatori europei in ordine alla veridicità delle dichiarazioni, che, pertanto, erano da considerarsi in buona fede attesa l’impossibilità di avvedersi di errori commessi dalle Autorità filippine nel rilascio dei certificati di origine delle merci, anche ponendo in essere la massima diligenza, in mancanza, peraltro, di prova che i ricorrenti fossero partecipi o, comunque, in qualche modo a conoscenza della frode.
Avverso tale statuizione l’Agenzia delle dogane propone va ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui le intimate replicavano con controricorso e ricorso incidentale condizionato, affidato ad un unico motivo, con contestuale richiesta di riunione del presente giudizio a quello iscritto al n. 2446/2016 R.G. di questa Corte.
Le società controricorrenti con atto del 3 marzo 2023 avanzavano istanza di sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 1, comma 197, della legge n. 197 del 2023 contestualmente manifestando l’intenzione di avvalersi della definizione agevolata delle controversie di cui alla predetta legge.
Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME depositava conclusioni scritte chiedendo il rigetto dell’istanza di sospensione.
Questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 20328 del 2023, adottata a seguito di altra ordinanza interlocutoria, n. 7319 del 2023, emessa ai sensi dell’art. 384, terzo comma, cod. proc. civ., disponeva la sospensione del processo.
Con istanza del 10 ottobre 2023 le ricorrenti, dando atto di non aver aderito alla definizione agevolata delle controversie di cui
alla legge n. 197 del 2022, chiedevano fissarsi l’udienza di discussione della causa.
Con ordinanza interlocutoria n. 20706 del 2024 veniva disposta l’acquisizione dei fascicoli dei gradi di merito .
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente rigettata la richiesta di riunione del presente giudizio a quello iscritto al n. 2446/2016 R.G. di questa Corte, in quanto definito con ordinanza n. 12385 del 2021.
Con il primo motivo di ricorso principale, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la difesa erariale censura la sentenza impugnata per « erronea valutazione sulla inammissibilità dei ricorsi sulle sanzioni per avvenuto pagamento in via agevolata. Violazione art. 16 D.Lgs 472/1997 » precisando che « La definizione della sanzione finanziaria estingue la relativa obbligazione e rende inammissibile ricorrere contro la relativa irrogazione ». Sostiene che i giudici di appello, ribaltando la decisione di inammissibilità di quei ricorsi adottata dai giudici di primo grado, erano caduti « nell’equivoco di considerare detta definizione agevolata come una sorta di solve et repete, citando normativa e giurisprudenza che consente al ricorrente di chiedere il rimborso di quanto versato » (ricorso, pag. 11).
2.1. Il motivo è inammissibile perché non si confronta con la sentenza d’appello in cui non si rinviene alcun riferimento alla questione dedotta nel motivo in esame, di intervenuta definizione agevolata delle sanzioni, ed alcuna statuizione di ammissibilità dei ricorsi delle società contribuenti avverso gli atti di irrogazione delle sanzioni, così come, peraltro, un ‘analoga statuizione non è dato rinvenire nella sentenza di primo grado, riprodotta nel ricorso, da cui risulta che la CTP aveva affermato che la fondatezza nel merito del ricorso delle società contribuenti consentiva « di superare l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità dell’impugnazione al
proposito mossa dall’Agenzia delle Dogane » in relazione alle sanzioni.
2.2. La ricorrente, pertanto, avrebbe dovuto dedurre il vizio di omessa pronuncia ex art. 112 cod. proc. civ. previa specifica indicazione, ex art. 366, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., della domanda avanzata al riguardo ai giudici di appello e sua localizzazione negli atti di merito.
2.3. A ciò aggiungasi che la ricorrente ha del tutto omesso di riprodurre nel ricorso o di allegare allo stesso o comunque di localizzare negli atti del giudizio di merito, la documentazione dalla stessa indicata come « ricevute Z20 nn. 20 e 21 del 04/04/2014 », che attesterebbero il pagamento delle sanzioni in misura ridotta ai sensi del citato art. 16.
Con il secondo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., la difesa erariale deduce l’inammissibilità del ricorso di primo grado proposto dalla RAGIONE_SOCIALE sia per l’ errata indicazione nell’atto di un soggetto (tale NOME COGNOME, quale legale rappresentante, diverso da quello (tale NOME COGNOME che aveva sottoscritto la procura alle liti (prima censura), sia perché la detta procura risultava essere stata rilasciata per l’impugnazione del solo «avviso di rettifica dell’accertamento 7 luglio 2014, n. 38790», e non anche dell ‘ «atto di contestazione sanzioni 7 luglio 2014, n. 38795, n. 278100-391-2014» , pure indicato nel ricorso (seconda censura).
Sulla questione posta con la prima censura del motivo in esame si è recentemente espressa il Supremo consesso (Cass., Sez. U, n. 12445 del 2022) che ha affermato il principio secondo cui «Nel caso in cui nell’intestazione di un atto giudiziario sia indicata una determinata persona quale rappresentante legale della società cui l’atto è riferibile e la procura alle liti rilasciata a margine o in calce all’atto stesso risulti
invece sottoscritta da un soggetto diverso, la discordanza configura un mero errore materiale che non incide sulla validità dell’atto, qualora si accerti che la procura è stata rilasciata da colui che riveste la qualità di legale rappresentante della società».
4.1. Nella specie, in considerazione di quanto sostenuto dalla controricorrente, di aver già precisato all’udienza davanti alla CTR che legale rappresentante era il soggetto che aveva rilasciato la procura alle liti e che nel corpo dell’atto era stato erroneamente indicato il nominativo di quello precedente, il motivo di ricorso, in assenza peraltro di qualsiasi contestazione da parte della ricorrente, deve ritenersi infondato.
Con riguardo alla seconda censura deve osservarsi che, in caso di indicazione nel corpo del ricorso di un atto diverso da quello per il quale era stata rilasciata procura al difensore per la relativa impugnazione giudiziale, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile relativamente a quell’atto impositivo e non al provvedimento per il quale era stata, invece, rilasciata procura per la relativa impugnazione.
5.1. D’altro canto, la parte che conferisce una specifica procura ad litem non può essere esposta al rischio del coinvolgimento in una controversia diversa da quella voluta, per effetto dell’autonoma iniziativa del proprio difensore, sicché l’inammissibilità, anche in parte qua del ricorso, deve essere rilevate e dichiarata d’ufficio, in quanto l’art. 83 c.p.c. configura come un obbligo del giudice quello della verifica dell’effettiva estensione della procura conferita (arg. da Cass. n. 31191 del 2021).
5.2. Nel caso di specie, dall’esame del ricorso di primo grado e della procura al difensore allo stesso allegato in calce, contenuto nel fascicolo di primo grado acquisito da questa Corte con l’ordinanza interlocutoria sopra indicata, emerge chiaramente la
fondatezza della censura in esame in quanto la detta procura risultava essere stata rilasciata per l’impugnazione del solo «avviso di rettifica dell’accertamento 7 luglio 2014, n. 38790», sicché va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti dell’atto di contestazione delle sanzioni n. 38795 del 7 luglio 2014.
Con il terzo motivo, dedotto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la difesa erariale deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2699 e 2700 cod. civ., 12 e 45 del Reg. CEE n. 515/1997 del 13/03/1997, 9 del Reg. CEE n. 1073/199 del 25/05/1999 e 11 del Reg. 883/13, sostenendo che la CTR aveva nella sostanza ritenuto di negare valenza probatoria ai rapporti OLAF così ponendosi in contrasto con il principio in materia di riparto dell’onere della prova, come invece sancito dalla giurisprudenza di legittimità in materia, per il quale spetta al contribuente che contesti il fondamento probatorio degli accertamenti doganali fondati sui predetti atti ispettivi, fornire la prova contraria.
6.1. Il motivo è fondato e va accolto.
6.2. Invero, in tema di tributi doganali, come chiarito da questa Corte (Cass. n. 12385 del 2021, in motivazione), gli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’OLAF ai sensi del Regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n 1073 del 1999, per la loro formazione ed il valore di atti pubblici ad essi attribuibile, hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria ( ex plurimis , Cass. sez. 5, 11/05/2018, n. 11441, Rv. 648020-01; Cass. sez. 5, 21/04/2017, n. 10118/, Rv. 644042-02, oltre che le precedenti Cass. sez. 5, 06/07/2016, n. 13770, Rv. 640616-01, Cass. sez. 5, 08/03/2013, n. 5892, Rv. 625397-01). Peraltro, in ragione della rilevanza nella fattispecie,
occorre precisare che ai fini della verifica della provenienza delle merci, l’art. 9, comma 2, del citato Reg. CE n. 1073/1999, considera equipollenti la relazione redatta dall’OLAF al termine delle indagini e le relazioni redatte dagli ispettori amministrativi dello Stato membro, tanto ai fini delle «regole di valutazione» applicabili quanto ai fini del «valore» riconoscibile secondo la disciplina legislativa dello Stato membro. Ne deriva l’assenza di alcuna limitazione in ordine alla utilizzabilità nei procedimenti amministrativi e giudiziari dello Stato membro anche di altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dall’OLAF, come è dato evincere dall’art. 9, comma 3, e dall’art. 10, comma 1, del medesimo regolamento, i quali prevedono la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di «ogni documento utile» acquisito e la comunicazione di «qualsiasi informazione» ottenuta nel corso delle indagini (Cass. sez. 5, 03/08/2012, n. 14036, Rv. 623913-01, oltre che la successiva conforme Cass. sez. 5, 30/01/2020, n. 2139, Rv. 656818-01). Ne consegue quindi l’utilizzabilità quali fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dall’OLAF anche dei documenti acquisiti e della comunicazione di qualsiasi informazione ottenuta nel corso delle indagini espletate, compresi, peraltro, i verbali delle operazioni di missione ( ex plurimis , Cass. sez. 5, 08/03/2013, n. 5892, Rv. 625397-01) non rilevando esclusivamente il rapporto finale che potrebbe anche mancare.
6.3. Nella specie, il Giudice di secondo grado non ha fatto corretta applicazione dei principi di cui innanzi, violando il detto riparto dell’onere probatorio, là dove ha affermato che l’Agenzia delle dogane «si è limitata a richiamare gli accertamenti compiuti dall’OLAF , la revoca da parte delle autorità filippine dei certificati Form A in precedenza rilasciati alle esportatrici RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, ed alla produzione della nota
del Bureau of Custom filippino» attestante la falsificazione dei codici indicati nelle dichiarazioni di importazione, in tal modo sostanzialmente disconoscendo valore probatorio agli accertamenti compiuti dall’OLAF, d a cui invece emergeva che le merci importante dalla RAGIONE_SOCIALE erano state interamente prodotte a Taiwan dalle società Tong RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, ed erano state introdotte nelle Filippine dalle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE con dichiarazioni riportanti falsi codici di importazione, ed erroneamente ponendo a carico dell’amministrazione doganale di indicare gli specifici riscontri individuati dalle autorità filippine a sostegno della asserita falsità dei codici indicati nelle dichiarazioni di importazione, nonostante gli accertamenti dell’ OLAF e la nota del Bureau of Custom filippino attestassero la produzione e la provenienza delle merci da Taiwan.
6.4. In buona sostanza, diversamente da quanto sostenuto nella sentenza impugnata, l’amministrazione doganale ai fini dell’emissione degli atti impositivi ben poteva limitarsi a riportarsi agli accertamenti compiuti dall’OLAF, stante il valore probatorio ad essi attribuito, ferma restando, in ogni caso, la sottoposizione dei rapporti redatti dall’OLAF alle regole di valutazione probatoria proprie del giudizio di merito, quindi anche di confronto con eventuali prove contrarie che avrebbe dovuto offrire la parte contribuente; valutazione che nella specie la CTR ha del tutto omesso di effettuare.
Con il quarto motivo, dedotto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la difesa erariale deduce la violazione dell’art. 220 C.D.C. di cui al Reg. CEE n. 2913/1992 censurando la sentenza d’appello per avere ritenuto nella specie sussiste nte la buona fede delle società appellanti sul presupposto che la documentazione prodotta dalle società all’atto dello sdoganamento delle merci era idonea ad ingenerare un legittimo affidamento di
queste ultime in ordine alla veridicità delle stesse, che, pertanto, erano da considerarsi in buona fede attesa l’impossibilità di avvedersi di errori commessi dalle autorità filippine nel rilascio dei certificati di origine delle merci, anche ponendo in essere la massima diligenza, in mancanza, peraltro, di prova che i ricorrenti fossero partecipi o, comunque, in qualche modo a conoscenza della frode.
7.1. Il motivo è fondato e va accolto.
7.2. In materia doganale e, più specificamente, in tema di imposizione fiscale delle importazioni, l’art. 220, comma 2, lett. b), del Reg. CEE n. 2913 del 1992 (cosiddetto Codice doganale comunitario), prevede un’ esenzione là dove preclude la contabilizzazione a posteriori dell’obbligazione doganale in presenza di un errore dell’autorità doganale e della buona fede dell’operatore.
7.3. Assume la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 15297 del 2008, richiamata da Cass. n. 26004 del 2013 e da Cass. n. 22647 del 2019), che l’esenzione in esame, che è diretta a tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la fondatezza degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare o meno i dazi, richiede per la sua applicazione un compiuto esame da parte del giudice sulla ricorrenza della buona fede che deve essere dimostrata dal soggetto che intende avvalersi dell’agevolazione, attraverso la prova della sussistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dalla norma perché resti impedito il recupero daziario, ed in particolare: a) un errore imputabile alle autorità competenti; b) un errore di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, ed in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; c)
l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente. Pertanto, le Autorità doganali devono procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi doganali, a meno che sussistano contemporaneamente tutte le condizioni poste dall’art. 220, n. 2, lett. b), del Regolamento CEE n. 2913/1992 del Consiglio del 12 ottobre 1992, come sopra richiamate; in particolare, detto errore non può consistere nella mera ricezione di dichiarazioni inesatte dell’esportatore, dato che l’Amministrazione non deve verificarne o valutarne la veridicità, ma richiede un comportamento attivo, perché il legittimo affidamento del debitore è protetto solo se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la sua fiducia, mentre la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli di comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (Cass. civ., n. 4022/2012). Inoltre, l’esenzione prevista dall’art. 220, comma 2, lett. b), del Codice doganale comunitario, che preclude la contabilizzazione a posteriori dell’obbligazione doganale in presenza di un errore dell’autorità doganale e della buona fede dell’operatore, presuppone la genuinità del certificato di origine, cioè la sua regolarità formale e sostanziale. Di conseguenza spetta all’importatore che intende usufruire dell’esenzione dimostrare l’origine della merce che importa e, in ogni caso, il suo stato soggettivo di buona fede, mediante la prova della sussistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dalla citata norma, mentre all’Autorità doganale incombe esclusivamente l’onere di dare dimostrazione delle irregolarità delle certificazioni presentate, atteso che qualsiasi certificato che risulti inesatto autorizza il recupero a posteriori, senza necessità di alcun procedimento intermedio che convalidi la non autenticità, provvedendo gli stessi organi dell’esecutivo comunitario a fornire tramite le disposte commissioni di inchiesta le conclusioni cui
debbono attenersi le Autorità nazionali (Cass. civ., n. 13680/2009). Va, inoltre, osservato che, ai fini della configurazione dell’errore attivo dell’autorità doganale del paese di esportazione, la non rilevanza della falsa informazione fornita dall’esportatore può essere presa in considerazione solo ove risulti, con evidenza, che la stessa era informata o doveva esserlo della non operatività dell’esenzione (così in Cass. n. 22647 del 2019).
7.4. Si è quindi affermato (Cass. n. 12719 del 2018) che «In tema di dazi doganali, ove venga accertata la falsità dei certificati di origine della merce, le autorità devono procedere alla contabilizzazione “a posteriori” dei dazi, salvo che l’importatore fornisca la prova delle condizioni richieste dall’art. 220, par. 2, lett. b), del cd. Codice doganale comunitario, senza che, rispetto allo stato soggettivo di buona fede, assuma rilevanza l’effettiva consapevolezza da parte dello stesso circa la veridicità delle informazioni fornite dall’esportatore alle autorità del proprio Stato, essendo, piuttosto, il debitore tenuto a dimostrare che, per tutta la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con la diligenza qualificata richiesta, in ragione dell’attività professionale di importatore svolta, ex art. 1176, comma 2, c.c., per verificare la ricorrenza delle condizioni per il trattamento preferenziale, mediante un esigibile controllo sull’esattezza delle informazioni rese dall’esportatore».
7.5. Cass. n. 33314 del 2019 ha, quindi, ribadito che «In tema di tributi doganali, lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore, richiesto dall’art. 220, paragrafo 2, lett. b), del regolamento CEE n. 2913 del 1992 a fini dell’esenzione della contabilizzazione “a posteriori”, non ha valenza “in re ipsa”, ma solo in quanto sia riconducibile a situazioni fattuali individuate dalla normativa comunitaria, tra le quali va annoverato l’errore incolpevole, ossia non rilevabile dal debitore in buona fede,
nonostante la sua esperienza e diligenza, e che, per assumere rilievo scriminante, deve essere in ogni caso imputabile al comportamento attivo delle autorità doganali, non rientrandovi quello indotto dalle dichiarazioni inesatte dello stesso operatore».
7.6. Tali principi si ispirano a quelli unionali secondo cui:
– l’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del codice doganale dev’essere interpretato nel senso che un importatore può invocare il legittimo affidamento, ai sensi di tale disposizione, al fine di opporsi ad una contabilizzazione a posteriori dei dazi all’ importazione, eccependo la propria buona fede, solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative. Occorre, anzitutto, che tali dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti medesime, quindi, che l’errore di cui trattasi sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede e, infine, che quest’ultimo abbia rispettato tutte le disposizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana. Tale legittimo affidamento non sussiste, in particolare, qualora un importatore, sebbene abbia evidenti ragioni per dubitare dell’esattezza di un certificato di origine «modulo A», si sia astenuto dall’informarsi, nella massima misura possibile, delle circostanze del rilascio di tale certificato per verificare se tali dubbi fossero giustificati. Un siffatto obbligo non significa tuttavia che un importatore sia tenuto, in generale, a verificare sistematicamente le circostanze del rilascio da parte delle autorità doganali dello Stato di esportazione di un certificato di origine «modulo A». Spetta al giudice del rinvio valutare, tenendo conto dell’insieme degli elementi concreti della controversia principale, se tali tre condizioni siano soddisfatte nel caso di specie (Corte di giustizia, sentenza 16 marzo 2017 nella causa C-47/16, Valsts ieņēmumu dienests; Corte di giustizia, sentenza 15 dicembre 2011 in causa C-409/10, Hauptzollamt Hamburg-Hafen).
7.7. In tema di buona fede in materia doganale, va poi ricordato il principio recentemente espresso da questa Corte con riferimento alla posizione del rappresentante indiretto, com’è nella specie la RAGIONE_SOCIALE
7.8. Si è affermato, infatti, che «In tema di dazi doganali, ai fini dell’irrogazione delle sanzioni nei confronti del rappresentante doganale indiretto, non rileva l’esimente della buona fede dell’importatore come codificata dall’art. 220 CDC, concernente il recupero dei dazi “a posteriori”, ma si applicano gli artt. 302 T.U. dogane, 5, 6 e 10 d.lgs. n. 472 del 1997, sicché, essendogli richiesta la diligenza qualificata secondo lo specifico parametro dell’art. 1176, comma 2, c.c., la negligenza del comportamento sanzionabile deve essere “indiscutibile” e l’erroneità della dichiarazione non deve derivare da colpa, sia essa endogena o esogena. (Nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso agenziale avverso la sentenza d’appello favorevole al CAD, nel rilievo che, agendo quale rappresentante indiretto, con la normale diligenza, non potesse essere a conoscenza dell’operato dell’importatore condannato per contrabbando aggravato – per il quale aveva presentato la dichiarazione sull’importazione della merce, scortata dal certificato FORM A, attestante l’origine cinese, e dalle corrispondenti fatture d’acquisto)».
7.9. Orbene, nel caso di specie, i giudici di appello non si sono attenuti ai predetti principi e, senza operare alcuna distinzione nell’accertamento della buona fede in capo alla rappresentante indiretta della società importatrice, con riferimento a quest’ultima , pur dando atto che la falsificazione dei codici indicati nelle dichiarazioni di importazione atteneva all’entrata delle merci nelle Filippine da Taiwan ad opera delle società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, hanno ritenuto sussistente la buona fede delle società senza aver evidenziato l’esistenza di un errore imputabile
alle competenti Autorità filippine e, quindi, in assenza di tale presupposto, peraltro ponendo erroneamente a carico dell’ Agenzia delle dogane l’onere di dimostrare la partecipazione delle società alla frode o la conoscenza della stessa, e senza adeguatamente accertare, sulla base anche delle risultanze delle indagini OLAF che muovevano i primi passi fin dal febbraio 2011 (come da Report citato in ricorso), se le società controricorrenti, anche per la protrazione ed intensificazione dei rapporti dell’import atrice con le società esportatrici e l’indubbio vantaggio fiscale che avrebbero conseguito, si siano limitate a recepire passivamente dichiarazioni doganali inveridiche.
Con il motivo di ricorso incidentale le controricorrenti deducono la carenza di legittimazione passiva della RAGIONE_SOCIALE e censurano la sentenza impugnata che ha dato per accertata la responsabilità solidale della predetta società, quale rappresentante indiretta della società RAGIONE_SOCIALE, per errata interpretazione del d.m. n. 549 del 1992 e violazione degli artt. 202 e segg. C.D.C.
8.1. La censura di difetto di legittimazione passiva della RAGIONE_SOCIALE è infondata e va rigettata alla stregua del principio giurisprudenziale secondo cui il soggetto che emette dichiarazioni doganali in rappresentanza indiretta, ossia in nome proprio, «deve essere considerato soggetto dichiarante ai sensi dell’art. 76 del Regolamento del Consiglio CEE n. 2913 del 12 ottobre 1992, con la conseguenza che è solidalmente responsabile con il mandante (ossia l’importatore delle merci) nei confronti dei terzi, comprese le pubbliche amministrazioni» (Cass. n. 5311 del 2019; in termini già Cass. n. 9433 del 2017 e Cass. n. 13890 del 2008) e come tale è anch’esso debitore dell’obbligazione doganale.
8.2. La seconda censura proposta con il motivo in esame è, invece, inammissibile per difetto di interesse, non risultando in
nessuna parte della sentenza impugnata, neppure per implicito, che i giudici di appello abbiano ritenuto sussistente in capo allo spedizioniere RAGIONE_SOCIALE una responsabilità oggettiva per le violazioni accertate in capo all’importatore delle merci.
8.3. Al riguardo va però ricordato che questa Corte, in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 17 novembre 2011, causa C-454/10), è ferma nel ritenere che in tema di dazi all’importazione, l’art. 202, comma 3, del codice doganale comunitario di cui al Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913/92, applicabile “ratione temporis”, qualifica come debitori per l’obbligazione doganale sorta in seguito all’irregolare introduzione di merce in ambito comunitario, oltre a colui o coloro che vi hanno proceduto anche le persone che ad essa hanno partecipato “sapendo o dovendo, secondo ragione, sapere che essa era irregolare”, con la conseguenza che tali soggetti rispondono, solidalmente con questi, dell’obbligazione doganale, quando si possa ragionevolmente presumere che sapessero o dovessero ragionevolmente sapere che l’introduzione era irregolare (Cass. n. 11181 del 2010; Cass. n. 5159 del 2013; Cass. n. 9433 del 2017).
8.4. Principi, questi, a cui dovrà comunque attenersi il giudice del rinvio in sede di riesame della vicenda processuale.
Le controricorrenti, infine, «richiamano le eccezioni assorbite» dai giudici di appello. Nel ricorso si fa riferimento alla « violazione dell’art. 12 dello Statuto del contribuente. Diritto al contraddittorio», a quella «Sulle sanzioni. Buona fede dell’esponente. Violazione art. 5 del d.lgs. 472 del 1997», sulla «Inapplicabilità dell’art.303 t.u.l.d. all’erronea indicazione d’origine», alla «violazione dell’art. 17 d.lgs. d.lgs. n. 472 del 1997 del 1997», sul « Contrasto con l’art. 21, reg. CE 450/08 e rim essione alla Corte di Giustizia della questione di compatibilità dell’art. 303 tuld con il principio comunitario della proporzionalità».
9.1. Trattasi di questioni su cui dovranno pronunciarsi i giudici di appello in sede di rinvio tenendo conto della dichiarata inammissibilità del ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti dell’atto di contestazione delle sanzioni n. 38795 del 7 luglio 2014.
10. Conclusivamente, vanno accolti la seconda censura del secondo motivo nonché il terzo e quarto motivo di ricorso principale, rigettati gli altri ed il motivo di ricorso incidentale. Conseguentemente la sentenza impugnata va cassata con riferimento ai motivi accolti e la causa rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche alla regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso principale, nei termini di cui in motivazione, rigettati gli altri ed il motivo di ricorso incidentale; dichiara l’inammissibilità del ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti dell’atto di contestazione delle sanzioni n. 38795 del 7 luglio 2014; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma in data 29 gennaio 2025