Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 22156 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 22156 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/07/2025
ordinanza
sul ricorso iscritto al n. 3770/2021 R.G. proposto da
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, in persona dei liquidatori pro tempore , rappresentata e difesa dall’ avvocato NOME COGNOME in forza di procura speciale a margine del ricorso per cassazione
(PEC: EMAIL
-ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia n. 3326/10/2020, depositata il 19.06.2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 aprile 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Oggetto:
Tributi
La CTP di Messina rigettava il ricorso proposto da RAGIONE_SOCIALE avverso un avviso di accertamento relativo ad Ires, Irap, Iva ed altro, per l’anno d’imposta 2004;
con la sentenza indicata in epigrafe, la Commissione tributaria regionale della Sicilia rigettava l’appello proposto dalla società contribuente, osservando, per quanto qui ancora rileva, che:
-l’avviso di accertamento impugnato era stato legittimamente motivato poiché lo stesso richiamava per relationem il processo verbale di constatazione, ritualmente conosciuto dalla contribuente, la cui copia era stata prodotta nel giudizio dall’Agenzia delle Entrate;
-la prova dell’inerenza e dell’esistenza dei costi, che gravava sulla contribuente, in quanto soggetto onerato di dimostrare l’imponibile maturato, non era stata, nella specie, fornita;
la contribuente non aveva giustificato i costi relativi alle fatture contestate dall’Amministrazione finanziaria; il legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, alla quale si riferivano le fatture, aveva dichiarato di non conoscere la contribuente, i dipendenti della RAGIONE_SOCIALE avevano dichiarato di non avere effettuato i lavori fatturati in favore della contribuente e fra i documenti contabili della RAGIONE_SOCIALE non era stato rinvenuto alcun elemento riconducibile a dette fatture;
-la contribuente si era limitata ad affermare che l’effettivo gestore della RAGIONE_SOCIALE e l’unico interlocutore dei dipendenti era tale NOMECOGNOME senza supportare tali affermazioni da idoneo riscontro probatorio;
-la RAGIONE_SOCIALE in liquidazione impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi;
l ‘Agenzia delle Entrate resisteva con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 42 d.P.R. n. 600/1973 e 56 d.P.R. n. 633/1972, in relazione dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per avere il Collegio ritenuto validamente motivato l’avviso di accertamento, sebbene non vi fosse stato allegato il PVC e la documentazione relativa alle indagini svolte dalla Guardia di Finanza nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e, in particolare, le dichiarazioni rese dai soggetti sentiti durante tali indagini;
– il motivo è infondato;
con riferimento alla disciplina introdotta dal c.d. Statuto dei diritti del contribuente, ratione temporis applicabile, si è statuito che, in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (art. 7, l. n. 212 del 2000) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione finanziaria, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone l’art. 3, terzo comma, legge 7 agosto 1990, n. 241, nel senso che il contribuente ha diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perché ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto;
pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata
nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione (Cass. 16.12.2020, n. 28756; Cass. 15.05.2018, n. 11866);
-dalla sentenza impugnata si evince che l’avviso di accertamento era ‘ legittimamente motivato, richiamando per relationem il processo verbale di constatazione ritualmente conosciuto dalla contribuente ‘;
la ricorrente, invece, oltre a non impugnare specificatamente la statuizione secondo la quale il PVC era ‘ ritualmente conosciuto dalla contribuente ‘, non ha spiegato, in concreto, le ragioni specifiche per le quali avrebbero dovuto essere allegati ulteriori atti o documenti, indicando in quale modo tale eventuale omissione avrebbe leso il suo diritto di difesa, limitandosi ad esporre generiche doglianze in relazione ad atti non conosciuti;
-in realtà, col motivo si sovrappone al piano dell’allegazione quello della prova, dovendosi, invece, distinguere il piano della motivazione dell’avviso di accertamento da quello della prova della pretesa impositiva e, corrispondentemente, l’atto a cui l’avviso si riferisce dal documento che costituisce mezzo di prova (Cass. n. 8016 del 2024); – con il secondo motivo, deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 39 d.P.R. n. 600/1973, 54 e 55 d.P.R. n. 633/1972, 109, comma 2, d.P.R. n. 917/1986, 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per non avere la CTR rilevato che la prova dell’inesistenza dei costi doveva essere fornita dall’Amministrazione finanziaria che si era avvalsa, invece, delle cd. ‘presunzioni a catena’, per di più fondate su dichiarazioni non provate e rese da terzi, senza considerare la contabilità e la documentazione fiscale della contribuente, nonché la tracciabilità dei pagamenti effettuati, riferibili alla contribuente e destinati alla RAGIONE_SOCIALE Europa; rileva che la contestazione sembra riguardare operazioni soggettivamente inesistenti, non essendo mai stata contestata l’effettiva consegna dei beni e la effettuazione dei lavori, e sotto tale
profilo non può essere imputata alcuna responsabilità alla contribuente per fatti eventualmente commessi da terzi;
il motivo è infondato;
come ha più volte precisato questa Corte, ‘In tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili. A tal fine non è sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa’ ( ex plurimis , Cass. n. 13300 del 2017);
anche in tema di IVA, questa Corte ha condivisibilmente affermato che, ai fini della detrazione di un costo, la prova dell’inerenza del medesimo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente, in quanto soggetto gravato dell’onere di dimostrare l’imponibile maturato (Cass. n. 18904 del 2018);
sebbene il principio sopra richiamato, nel caso in cui si contesti l’inesistenza del costo, debba essere raccordato con quello enunciato in tema di fatture per operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, in relazione alle quali spetta all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare che l’operazione oggetto della fattura non è stata posta in essere, tale prova potrà essere fornita anche mediante presunzioni; pertanto, se provata presuntivamente l’inesistenza dell’operazione, graverà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate , non
assumendo rilievo, a tal fine, la regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. n. 28628 del 2021; Cass. n. 24471 del 2022);
-dalla sentenza impugnata si evince che l’Amministrazione finanziaria ha ritenuto ingiustificati detti costi, perché sia il rappresentante legale della società RAGIONE_SOCIALE (società che avrebbe effettuato i lavori fatturati) sia i dipendenti della stessa avevano dichiarato di non conoscere la società contribuente e di non avere mai effettuati i lavori oggetto delle fatture contestate; le dichiarazioni erano riscontrate dal mancato rinvenimento, nelle scritture contabili della RAGIONE_SOCIALE, di documenti a sostegno delle fatture utilizzate dalla contribuente per giustificare la deducibilità dei relativi costi;
a fronte di tale composito quadro presuntivo la contribuente non aveva offerto alcun elemento contrario, seppure fosse tenuta a dimostrare che l’operazione, come descritta in fattura, era effettiva ed era realmente avvenuta, anche se, in ipotesi, tra soggetti diversi da quelli indicati nel documento (cfr. Cass. n. 28628 del 2021);
-una volta contestata e dimostrata dall’Ufficio l’inesistenza oggettiva delle operazioni, infatti, incombe sul contribuente dimostrare che: a) le operazioni erano solo soggettivamente inesistenti perché in realtà le stesse (i.e. delle operazioni omogenee a quella fittizie e ad esse specificamente riconducibili) erano avvenute con un terzo; b) i costi indicati nelle fatture false corrispondono ai costi effettivamente sostenuti nella diversa reale operazione; c) sussistevano gli altri requisiti riconducibili all’art. 109 TUIR (Cass. n. 24456 del 2024, in motivazione); – dalla sentenza impugnata, peraltro, si evince che la contestazione riguardava non solo l’inesistenza delle prestazioni fatturate, ma anche
la mancanza di inerenza dei relativi costi;
con il terzo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 67 d.P.R. n. 600/1973 e 163 d.P.R. n. 917/1986, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., per non avere la CTR rilevato che l’ Agenzia delle entrate non aveva tenuto conto del maggior reddito accertato con altro, separato avviso di accertamento; – con il quarto motivo deduce la violazione degli artt. 112 cod. proc. civ. e 36 d.lgs. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., per non essersi la CTR pronunciata sul motivo di appello relativo alla censurata doppia imposizione di cui al precedente terzo motivo di ricorso;
-occorre premettere che, sebbene la CTR abbia omesso di pronunciarsi sul motivo di appello suindicato, secondo l’indirizzo ormai costante di questa Corte, ‘Alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111, comma 2, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di gravame, la Suprema Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con quel motivo risulti infondata, di modo che la statuizione da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto’ ( ex plurimis , Cass. 28.06.2017, n. 16171);
-ciò posto, il terzo e il quarto motivo, che vanno esaminati congiuntamente per connessione, riguardando entrambi la censura sulla doppia imposizione, sono inammissibili per la novità della questione;
la ricorrente ha eccepito la violazione del principio di doppia imposizione, facendo leva sul diverso processo verbale di constatazione, ‘ redatto in data 16/4/2008 (in dipendenza del quale l’agenzia delle entrate ha notificato separato avviso di accertamento, n. NUMERO_DOCUMENTO ‘ , ed evidenziando pretese incongruenze tra le pagine 3 e 4 dell’avviso di accertamento impugnato;
al riguardo occorre rammentare che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio (Cass. n. 17041 del 2013; Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 20712 del 2018);
con riferimento alla suindicata censura la ricorrente richiama solo il motivo di appello, senza riportare la sua rituale deduzione nel ricorso introduttivo, non essendovi alcuna traccia di tale proposizione nella sentenza impugnata;
dal ricorso per cassazione si evince, al contrario, che la suddetta doglianza non è stata formulata in primo grado, posto che a p. 3 e ss. di detto atto di impugnazione si afferma che: « Per avversare tutto l’avviso di accertamento, la società ricorrente eccepiva, sinteticamente, la nullità e/o illegittimità dell’atto impugnato: 1) vizio di motivazione, mancata allegazione del P.V.C.; 2) infondatezza nel merito. Più specificatamente, (pag. 4 del ricorso di primo grado) l’istante lamentava che “In particolare, l’art. 7 L. 212/2000 dispone che: Gli atti dell’amministrazione Finanziaria sono motivati secondo quanto prescritti dall’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente la motivazione dei provvedimenti amministrativi, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione. Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”, riferendosi, in particolare al processo verbale di constatazione ed ai suoi allegati, nonché al processo verbale di verifica e/o di constatazione redatto nei confronti della Società RAGIONE_SOCIALE e delle dichiarazioni dei dipendenti, non noti alla società, né ad alcuno degli amministratori. Nel merito, si rilevava la mancanza di dei presupposti di fatto e di diritto per formulare l’accertamento, in particolare, si osservava che, nel caso di specie, “l’avviso di
accertamento impugnato è insufficientemente motivato, lacunoso ed incompleto. In particolare a pagina 3 dell’avviso di accertamento impugnato si precisa: “Visto che è stato riscontrato che la “RAGIONE_SOCIALE” ha emesso fatture per operazioni inesistenti stante la mancanza di mezzi, attrezzature e dipendenti, come ampiamente descritto ai fogli 4, Se 6 del P.V.C. Invero, al foglio 4 del p.v.c. dell’ 11 dicembre 2009 i verbalizzanti così precisavano: “Le indagini svolte hanno permesso di evidenziare che la società oggetto di controllo verifica non possedeva mezzi né attrezzature di alcun genere per lo svolgimento della propria attività. Tuttavia sul libro matricola e paga risultavano iscritti n. 17 dipendenti i quali, sentiti a sommarie informazioni, nella quasi totalità dei casi hanno dichiarato di non conoscere la RAGIONE_SOCIALE bensì di lavorare per il suddetto CREA NOME“. Pertanto, non è chi non veda una serie di paradossi! Primo Paradosso: Si sarebbe in presenza di una società operante nel settore dell’edilizia (RAGIONE_SOCIALE) che non possiederebbe né mezzi né attrezzature ma, tuttavia, sul libro paga risulterebbero ben 17 (diciassette) dipendenti. Per vero, se i militari si fossero imbattuti in una società fittizia, costituita al solo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti (tanto a parere dei verbalizzanti), non avrebbero trovato né mezzi, né attrezzature né, in particolare, dipendenti. Ancora, i dipendenti sentiti a sommarie informazioni non avrebbero dichiarato di lavorare per il Sig. Crea NOME, bensì o di lavorare per la RAGIONE_SOCIALE o addirittura di trovarsi nei luoghi casualmente. Secondo paradosso! Sempre al foglio 4 del verbale de quo, i verbalizzanti precisavano: “In merito a/l’attività esercitata, si pone in evidenza che la stessa, di fatto gestita dal CREA NOME, è stata utilizzata principalmente per emettere fatture per operazioni inesistenti e marginalmente, come tra l’altro più volte dichiarato dall’amministratore in carica Sig. COGNOME è stata utilizzata dallo stesso per eseguire piccoli lavori di edilizia. Tanto sarebbe già sufficiente! Le fatture presuntivamente emesse per operazioni inesistenti sono le seguenti: fattura n. 19 imponibile € 7.500,00 oltre iva; fattura n. 20 -imponibile € 7.500,00 oltre iva fattura n. 21 -imponibile€ 7.500,00 oltre iva; fattura n. 22 -imponibile€ 7.500 00 oltre iva. Pertanto, l’esiguità dell’importo delle singole fatture dimostra che, in realtà, si trattava di piccoli lavori di edilizia (così come dichiarato dal Tavilla). Terzo paradosso! Al foglio 5 del verbale redatto in data 11 dicembre 2009 i verbalizzanti pongono a fondamento della loro tesi accusatoria i seguenti motivi: 1) Il Sig. COGNOME) ha dichiarato di non conoscere la RAGIONE_SOCIALE né il suo legale rappresentante e di non aver effettuato allo stesso alcuna cessione o prestazione; 2) La RAGIONE_SOCIALE, all’epoca dei fatti non disponeva di mezzi e attrezzature. (..); 3) Tra la documentazione della RAGIONE_SOCIALE (…) non sono stati rinvenuti documenti di trasporto e/o altra documentazione (..). Al punto 1) errano gli accertatori nel porre a fondamento le dichiarazioni del Signor COGNOME n.q. di amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE poiché lo stesso COGNOME dichiara che la società era di fatto gestita dal Sig. COGNOME COGNOME Infatti i dipendenti, sentiti a sommarie informazioni, dichiarano di svolgere la propria attività alle dipendenze del COGNOME, disconoscendo di fatto il COGNOME. Del punto 2) si è già ampiamente detto. Per vero, appare opportuno ribadire in tale sede la “confusione societaria” (della RAGIONE_SOCIALE) così come emerge dalle dichiarazioni dei singoli soggetti
chiamati a rispondere dai verbalizzanti. Infatti, nessuno conosce nessuno! I dipendenti non conoscono la RAGIONE_SOCIALE, il Tavilla (probabilmente estraneo alla conduzione societaria della RAGIONE_SOCIALE) non conosce la RAGIONE_SOCIALE. Sorprende, in realtà, come non venga richiesto dai militari al Sig. NOME (da tutti individuato come il soggetto dal quale “dipende la vita” della società) di chiarire la natura dei rapporti intercorsi con la società RAGIONE_SOCIALE. Punto 3) La “confusione societaria” della RAGIONE_SOCIALE, come emerge dalla semplice lettura dei verbali redatti dagli accertatori, non può riverberare effetti negativi sulla Società ricorrente. Inoltre altro particolare di non poco momento è rappresentato dal verbale redatto in contraddittorio con il Sig. COGNOME COGNOMEn.q. di legale rappresentante della società ricorrente congiuntamente al Sig. COGNOME COGNOME in data 25 marzo 2009. Nel corpo del verbale de quo (foglio n. 4), infatti, i militari precisavano che: “ll pagamento delle fatture n. 19 e 20 risulta effettuato con assegno n. 072 tratto sul c/c 10754.4 MPS, mentre le fatture 21 e 22 risultano pagate con assegno n. 78 tratto sul citato conto corrente. Quanto precede è stato rilevato sia sul libro giornale di contabilità generale sia sui partitari contabili”. Quante tracce per un pagamento di fatture emesse per prestazioni inesistenti! Invero, la ricorrente, considerata l’esiguità delle somme, avrebbe potuto semplicemente “pagare per cassa” e non registrare alcunché. Pertanto, così svolto, motivato e trascritto l’accertamento e per l’effetto l’avviso di accertamento, posto a base della pretesa tributaria avanzata dall’ Agenzia, appare oltremodo lacunoso. Inoltre, appare opportuno precisare che l’emissione di fatture per operazioni inesistenti non può fondarsi esclusivamente su dichiarazioni rese da dipendenti che non riconoscono neppure la società per la quale operano. Inoltre, l’avvalersi di fatture presuntivamente emesse per operazioni inesistenti richiede un particolare elemento soggettivo rappresentato dalla volontà del soggetto di sottrarre all’imposizione elementi attivi. In realtà, l’elemento soggettivo rileva in una prova certa e documentata e pertanto, giammai in una prova incerta e presuntiva Per vero, nel caso che ci occupa l’incertezza e l’opinabilità della prova sono talmente elevati da renderla priva di valore probatorio e, pertanto, inutilizzabile!»;
– poiché il divieto di proporre domande nuove in appello, previsto dall’art. 345, comma 1, c.p.c. (e nel rito tributario dall’art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992), è posto a tutela di un interesse di natura pubblicistica, la relativa violazione è rilevabile in sede di legittimità anche d’ufficio, senza che possa spiegare alcuna influenza l’accettazione del contraddittorio (cfr. per il rito civile ordinario Cass. Sez. U. n. 157 del 2020 e Cass. n. 12633 del 2024; per il giudizio tributario Cass. n. 5204 del 2023; Cass. n. 23070 del 2024, in motivazione);
quanto riportato nel ricorso per cassazione viene confermato dal contenuto dell’allegato ricorso introduttivo, dal quale si evince che la contribuente ha proposto nel giudizio di primo grado solo le seguenti censure: a) mancata semplificazione del procedimento tributario (con cui si duole della notifica dello stesso avviso di accertamento a due soggetti diversi e, cioè, sia alla RAGIONE_SOCIALE che a COGNOME NOME); b) nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione e per carenza di prova (con il quale si limita a censurare la carente motivazione dell’atto impositivo affermando quanto poi riportato a pp. 3 e ss. del ricorso per cassazione, come sopra trascritto);
-solo con l’atto di appello (pp. 7 e ss.) , pure allegato al ricorso per cassazione, la contribuente ha proposto la doglianza sulla presunta doppia imposizione, ammettendo di averla formulata per la prima volta in tale sede (‘ Solo per mera completezza difensiva, si eccepisce che l’avviso di accertamento è errato nella liquidazione delle imposte…’) e lamentando l’erroneo inserimento, da parte dell’Agenzia delle entrate, nell’avviso di accertamento di cui si discute della somma di € 25.272,00, che costituiva il reddito che sarebbe stato già rettificato da altro avviso di accertamento, notificatole in precedenza;
la stessa Agenzia delle entrate ha eccepito, nelle controdeduzioni depositate nel giudizio di appello (anche queste allegate dalla contribuente al ricorso per cassazione), la novità della questione sulla doppia imposizione (pp. 2 e 3 delle controdeduzioni);
quanto al diverso principio di concordanza degli accertamenti pure evocato dalle censure in questione, con riguardo alla ripresa per Irap e iva, occorre rammentare che ‘è legittimo l’avviso di accertamento contenente rettifica della base imponibile ai fini IRPEG ancorché analoga rettifica non sia stata operata ai fini IVA, atteso che il
principio della concordanza degli accertamenti, posto dall’art. 10, comma 2, n. 2, della l. n. 825 del 1971, recante delega al governo della Repubblica per la riforma tributaria, ha carattere tendenziale e non comporta che l’inerzia dell’ufficio competente per una imposta possa precludere l’accertamento da parte dell’ufficio competente per un’altra’ (Cass. n. 23384 del 2017);
– in conclusione, il ricorso va rigettato e la ricorrente va condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che si liquidano in euro 4.300,00, oltre alle spese prenotate a debito;
dà atto, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 29 aprile 2025 .