Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 20183 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 20183 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 22/07/2024
Oggetto: accertamento
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. R.G. 22095/2022 R.G. proposto da: NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’ AVV_NOTAIO COGNOME (PEC: EMAIL)
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore pro tempore rappresentata e difesa come per legge dall’ RAGIONE_SOCIALE dello RAGIONE_SOCIALE con domicilio in RomaINDIRIZZO INDIRIZZO (PEC: EMAIL);
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia n. 2341/02/2022 depositata in data 02/09/2022;
Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 29/05/2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
Rilevato che:
–NOME COGNOME ricorreva avverso l’avviso di accertamento notificatogli per IRPEF ed IRAP oltre ad addizionali, sanzioni e interessi per l’anno 2012;
la CTP accoglieva in parte il ricorso, in particolare ritenendo -per quanto qui interessa -che non potevano ritenersi componenti positivi del reddito d’impresa le anticipazioni su fatture che corrispondono alla prassi commerciale del contratto di sconto per euro 123.837,00 nei versamenti per euro 10.771,00 corrispondenti ad assegni in precedenza rimasti insoluti, nonché l’importo di euro 31.941,51 che era riferito a introiti per fatture di annualità pregresse;
appellava l’Ufficio;
con la sentenza qui impugnata il giudice dell’appello ha riformato la sentenza di primo grado ritenendo non provata l’operazione di sconto su fatture, in ogni caso escludendo che con il contratto di sconto, anche se esistente, si sarebbe realizzato -nel presente caso – uno scambio tra liquidità attuale e liquidità futura;
il giudice di merito ha poi escluso che dalla documentazione esibita emergesse che i versamenti di cui si è detto fossero relativi ad assegni già rimasti insoluti e che gli incassi oggetto di rilievo fossero effettivamente riferiti a fatture di anni precedenti;
ricorre a questa Corte il contribuente con atto affidato a due motivi e illustrati da memoria;
resiste con controricorso l’Amministrazione Finanziaria;
Considerato che:
il primo motivo censura la pronuncia impugnata per violazione ed erronea applicazione dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e del TUIR in tema di determinazione del reddito di impresa; per violazione dell’art. 2697 c.c. in relazione alla prova documentale e per violazione dell’art.
109 TUIR in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. per avere il giudice dell’appello erroneamente ritenuto che la nota informativa bancaria dell’ 1 agosto 2016, in cui sono disciplinati e menzionati gli ‘anticipi su fatture’ nonché regolamentate tali operazioni, possa costituire prova solo generica -quindi inidonea – dell’operazione di sconto su fattura; da ciò deriva secondo parte ricorrente l’erronea qualificazione come ricavo del finanziamento della banca quale anticipo fatture;
il motivo ritiene poi sotto un secondo profilo affetta da violazione di legge la sentenza impugnata con riguardo alla motivazione in merito ai criteri di legge posti a base degli avvisi di accertamento; la CTR -secondo tale prospettazione – non avrebbe considerato che spettava all’Ufficio dimostrare che le movimentazioni erano attinenti all’attività di imprese esercitate che si riferivano ai redditi sottratti all’imposizione;
le censure non trovano accoglimento;
quanto al primo profilo, lo stesso risulta inammissibile sia in quanto privo di collegamento con la ratio decidendi , sia in quanto costituente censura di merito;
invero, la CTR ha ritenuto che ‘l’operazione di sconto su fatture non risulta ex actis adeguatamente comprovata, mancando infatti il contratto di sconto con la banca e rinvenendosi la sola relativa nota informativa con decorrenza 1.8.2016 e gli estratti del conto corrente bancario dai quali emerge, tuttavia, la generica dizione «anticipo su Pres. Fatture», formula francamente non univoca e che ben potrebbe essere indicativa di un semplice acconto erogato dal soggetto committente della prestazione’;
nel concreto, quindi, va dapprima rilevato che la decisione impugnata non si fonda unicamente sulla documentazione relativa alla nota informativa ma anche sulla ulteriore circostanza di fatto, accertata e non contestata né più suscettibile di revisione in questa sede di legittimità, secondo la quale la parte contribuente non ha prodotto agli atti il contratto di sconto con la banca mancando quindi di provare la concreta
stipulazione del contratto di sconto, circostanza posta base delle difese svolte dal contribuente stesso;
secondariamente, la censura in concreto sollecita questa Corte ha una revisione dell’accertamento in fatto operato dal giudice del merito che è operazione non ammissibile di fronte a questa Corte;
il ricorso infatti insiste nel ritenere sussistente la prova dell’esistenza del contratto di sconto, affermazione che cozza contro l’accertamento in fatto operato dalla CTR che ha escluso essersi raggiunta sia la prova dell’esistenza del contratto di cui sopra, sia la prova del rapporto di conto corrente con la banca;
in ogni caso, poi, la doglianza risulta priva di fondamento in quanto in concreto il contribuente sostiene la irrilevanza ai fini impositivi di quanto incassato, e ciò sino all ‘ integrale soddisfazione della banca (vale a dire sino al pagamento di ogni somma dovuta da parte del debitore). Secondo tale prospettazione, dunque, non fera tenuto a dichiarare quanto anticipato a lui con lo sconto. Ciò è inesatto, poiché, se è vero che
(così l’ art 1858 c.c . ), è altrettanto vero che quanto effettivamente anticipato dalla banca al cliente costituisce elemento positivo di reddito del cliente, come tale rilevante ai fini impositivi;
Cons. Est. NOME COGNOME – 4 – al di là delle considerazioni giuridiche, il giudizio espresso dal collegio d’appello sulla prova del contratto costituisce un fatto e, come è noto, (si veda per tutte la recente Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 10927 del 23/04/2024) proprio in tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che
riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme;
-ancora, si è specificato che (in argomento si veda Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 32505 del 22/11/2023) nel giudizio di cassazione il ricorrente per cassazione non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione;
ebbene, il motivo nel concreto non denuncia un errore in tema di governo dei principi in tema di onere della prova, errore che si avrebbe ove la CTR avesse gravato dell’onere della prova un soggetto diverso da quello in capo al quale esso incombe: esso critica l’avere la sentenza impugnata ritenuto mancante la prova della stipula del contratto di sconto, dall’esistenza del quale deriva il fondamento delle difese del contribuente, profilo che non può essere oggetto di esame di fronte a questo Giudice della Legittimità;
quanto poi alla censura diretta al mancato riconoscimento dei costi ‘per materie prime’ per euro 9.726,00, il motivo risulta inammissibile; – esso, infatti, anche in questo caso, non scalfisce l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito, secondo il quale la deducibilità è stata esclusa in forza della ‘assoluta mancanza di documentazione contabile a supporto dei costi de quibus’ mentre, per alcuni specifici costi riferiti
alle fatture n. 2/2012 e 6/2012, ‘difettano invece all’evidenza elementi descrittivi adeguati nelle relative causali’;
– tali affermazioni sono poi coerenti con i principi dettati da questa Corte in tema di inerenza (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24880 del 18/08/2022) secondo i quali la deducibilità di costi ed oneri richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità – anche solo potenziale ed indiretta – secondo valutazione qualitativa e non quantitativa, la cui prova, in caso di contestazioni dell’amministrazione finanziaria, è a carico del contribuente, dovendo egli provare e documentare l’imponibile maturato e, quindi, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perché in correlazione con l’attività di impresa e non ai ricavi in sé;
Cons. Est. NOME COGNOME – 6 – quanto alla regola di riparto, tra l’Amministrazione finanziaria e il contribuente, dell’onere della prova dell’inerenza, in vista della deduzione/detrazione di un componente negativo, con riferimento alle imposte sui redditi, l’onere di dimostrare i presupposti dei costi deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, incombe sul contribuente, anche in base al canone della vicinanza della prova (Cass. 17/09/2014, n. 19600; 8/10/2014, n. 21184; 26/05/2017, n. 13300; 30/05/2018, n. 13589; 21/11/2019, n. 30366; 19/12/2019, n. 33915). Analogamente, in tema di IVA, questa Sezione tributaria (Cass.17/07/2018, n. 18904, n. 30366/2019, cit., n. 33915/2019) ha affermato che, ai fini della detrazione di un costo, la prova dell’inerenza del medesimo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di
inerenza, incombe sul contribuente in quanto soggetto gravato dell’onere di dimostrare l’imponibile maturato;
nel presente caso, la mancanza di documentazione contabile a supporto della fattura è stata correttamente ritenuta elemento essenziale per disconoscere l’inerenza del costo il quale – in quanto documentato esclusivamente dalla fattura che comprova solo il pagamento dello stesso ma non la sua relazione con l’attività d’impresa che ben poteva dimostrarsi per mezzo di altra documentazione correttamente è stato ritenuto indeducibile;
ad analoga conclusione correttamente la sentenza di merito è pervenuta con riguardo ai costi documentati da fatture che ha ritenuto ‘generiche’, dal momento che la descrizione del costo priva di adeguata precisione, sia pure con riferimento al caso concreto, non ne consente la riconduzione certa all’esercizio dell’attività d’impresa e pertanto ne esclude la deducibilità per difetto di inerenza;
tali conclusioni sono quindi coerenti con la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 21980/15, n. 21446/14, n. 24426/13, n. 9108/12, n. 5748/10), secondo la quale sia in tema di imposizione diretta sia in tema di Iva, la fattura costituisce elemento probatorio a favore dell’impresa solo se redatta in conformità ai requisiti di forma e di contenuto prescritti dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, ed idonea a rivelare compiutamente natura, qualità e quantità delle prestazioni attestate. La parte contribuente può comunque integrare il contenuto della fattura con elementi di prova idonei a dimostrare la deducibilità dei costi (cfr. Cass. n.1147/2010). E’ altresì consolidato il principio secondo cui sia ai fini della deduzione dei costi in tema di imposte dirette sia ai fini di detrazione Iva, incombe sul contribuente l’onere di provare l’inerenza del bene o del servizio acquistato all’attività imprenditoriale, intesa come strumentalità del bene o del servizio all’esercizio dell’attività medesima (cfr. Cass. n. 13300/17, Cass. n. 18475/16, Cass. n. 21184/14, Cass. n.16853/13);
– si è ulteriormente chiarito che in tema di accertamento delle imposte sui redditi l’onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina di cui al D.P.R. n. 597 del 1973, che del d.P.R. n. 917 del 1986, incombe al contribuente (cfr. Cass.n.23626/2011). Quest’ultimo è tenuto altresì a dimostrare la coerenza economica dei costi sostenuti nell’attività d’impresa, ove – come nel caso di specie – sia contestata dall’Amministrazione finanziaria anche la congruità dei dati relativi a costi esposti, in difetto di tale prova essendo legittima la negazione della deducibilità di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (cfr. Cass. nn. 4454/10, 26480/10, 7701/13, 6972/2015, Cass. n. 11235/2015). L’orientamento da ultimo ricordato si arricchisce di ulteriori precisazioni svolte da questa Corte per le ipotesi di fatture, il contenuto delle quali viene messo in discussione dall’Ufficio. – si è sul punto evidenziato che spetta al contribuente l’onere della prova dell’esistenza, dell’inerenza e, ove contestata dall’Amministrazione finanziaria, della coerenza economica dei costi deducibili con l’attività d’impresa. Non è dunque sufficiente che la spesa sia stata contabilizzata dall’imprenditore, occorrendo anche che esista una documentazione di supporto da cui ricavare, oltre che l’importo, la ragione e la coerenza economica della stessa, risultando legittima, in difetto, la negazione della deducibilità di un costo (cfr. Cass.n.21184/2014);
con riguardo poi al secondo profilo del ricorso, esso risulta al limite della inammissibilità, poiché solo in tesi censura l’utilizzo -ai fini dell’accertamento -di elementi di prova sforniti di valenza presuntiva; in concreto tende a chiedere una vera e propria rivalutazione del materiale probatorio in atti, che è evidentemente preclusa a questa Corte di Legittimità;
Cons. Est. NOME COGNOME – 8 – va infatti ricordato che qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere
probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili e sono prive di rilevanza fiscale (Cass. nn. 22179/2008, 18081/2010, 15857/2016, 4829/2015); ciò vale anche in tema di IVA, al fine di superare la presunzione di imponibilità delle operazioni confluite nelle movimentazioni bancarie posta a carico del contribuente dall’art. 51, secondo comma, numero 2, del d.P.R. n.633 del 1972 (Cass. sent. n.21303/2013; Cass. Sez.5, Sentenza n. 10249 del 2017). Tanto la presunzione, stabilita dall’art. 51, secondo comma, n. 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n.633, in tema di accertamento dell’IVA, quanto la presunzione di cui alla analoga norma dell’art. 32, primo comma, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973, dettata in materia di imposte sui redditi – che peraltro hanno portata generale essendo applicabili, non solo al reddito di impresa, ma anche al reddito da lavoro autonomo e professionale (Cass. n. 14041 del 2011; n. 11750del 2008, n. 430 del 2008, n. 4601del 2002)- presentano un contenuto complesso, consentendo di riferire tutti i movimenti bancari rilevati dal conto all’attività economica svolta dal contribuente, qualificando gli “accrediti” come ricavi, e gli “addebiti” egualmente come manifestazione di ricchezza in quanto considerati spese per corrispettivi versati per acquisti di beni e servizi reimpiegati nella produzione di maggiori ricavi di ammontare non inferiore agli importi prelevati: la presunzione legale “juris tantum” può essere vinta dal contribuente soltanto se offre la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti e gli addebiti registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all’uopo che vengano indicati e dimostrati dal contribuente la provenienza e la destinazione dei singoli
pagamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti attivi e passivi, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti e dei prelievi (Cass. n.26692 del 2005; n. 20199 del 2010; n. 16650 del 2011; n. 26173 del 2011 – con riferimento all’art. 32 Dpr n. 600/73, in materia di imposte sui redditi; n. 15217 del 2012; n. 1418 del2013; n. 6595 del 2013; n. 21303 del 2013; n. 20668 del 2014; n. 26111 del 2015; n. 30376/2018; n. 11762 del 2019). La presunzione legale in questione ha superato il vaglio di costituzionalità in relazione agli artt.3 e 53 Cost. come chiarito dalla sentenza Corte cost. n. 225 del 2005 (cfr. Cass. n. 13036 del 2012. Vedi Corte cost. ord. n. 260 del 2000; Corte cost. ord. n. 173 del 2008; Corte cost. n. 228 del 2014);
– inoltre, questa Corte, a sezioni unite, ha poi affermato in tema che «per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 11 6c.p.c.» (Cass. Sez. U, n. 20867 del 30/09/2020; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 16016 del 09/06/2021). Peraltro, la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, e non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. (tra le altre, Cass. Sez. L., Sentenza
17313 del 19/08/2020; Cass. 23518 del 2018; Cass. n. 571 del 2017; n. 19064 del 2006, n. 15107 del 2013);
il contribuente, quindi, pur prospettando una violazione degli artt. 2697 e seguenti c.c., ha in realtà inammissibilmente denunciato un’indebita valutazione da parte del giudice di appello del materiale probatorio prodotto in atti;
in conclusione, quindi, il ricorso è rigettato;
le spese sono regolate dalla soccombenza;
p.q.m.
rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore di parte controricorrente che liquida in euro 5.800,00 oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 dei 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della i. n. 228 del 2012, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, il 29 maggio 2024.