Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 6846 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 6846 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/03/2025
AVVISO DI ACCERTAMENTO IRES-IRAP-IVA 2010.
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 26515/2016 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro-tempore, con sede in Napoli, INDIRIZZO rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale a margine del ricorso,
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore protempore, domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ex lege ,
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 3346/28/2016, depositata l’11 aprile 2016 ;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 novembre 2024 dal consigliere relatore dott. NOME COGNOME
dato atto che il Pubblico Ministero, in persona del sost. proc. gen. dott. NOME COGNOME ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
FATTI DI CAUSA
Con avviso di accertamento n. TF3030205437/2013, notificato il 4 dicembre 2013, emesso all’esito di verifica fiscale della Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate Direzione provinciale I di Napoli recuperava a tassazione, nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, per l’anno d’imposta 2010: a ) componenti positivi di reddito asseritamente non dichiarati per € 348.140,26, desunti sulla base di indagini finanziarie eseguite sui conti correnti della società e dei quattro soci (in particolare, con riferimento ai conti correnti dei soci COGNOME NOME e COGNOME NOME); b ) costi ritenuti non inerenti ex art. 109 d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (testo unico delle imposte sui redditi) per € 200.000,00 (oltre IVA) in relazione ad una fattura emessa dalla società RAGIONE_SOCIALE
Sulla base di tali rilievi, pertanto, l’Ufficio accertava un maggior reddito d’impresa per complessivi € 552.409,00, rideterminando le relative imposte IRPEF, IVA ed IRAP ed irrogando le relative sanzioni
La società contribuente impugnava l’avviso di accertamento in questione dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli la quale, con sentenza n.
29896/27/2014, depositata il 9 dicembre 2014, rigettava il ricorso, confermando la legittimità dell’avviso in oggetto.
Interposto gravame dalla società contribuente, la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con sentenza n. 3346/28/2016, pronunciata il 14 marzo 2016 e depositata in segreteria l’11 aprile 2016, rigettava l’appello, compensando le spese di lite.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE sulla base di tre motivi (ricorso notificato il 18 novembre 2016).
Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.
Con decreto del 15 luglio 2014 è stata quindi fissata la discussione del ricorso dinanzi a questa sezione per l’udienza pubblica del 27 novembre 2024.
A detta udienza è comparso l’Avvocato dello Stato, in rappresentanza dell’Agenzia delle Entrate, che ha concluso come da verbale in atti.
E’ intervenuto il Pubblico Ministero, in persona del sost. proc. gen. dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso in esame, come si è detto, è affidato a tre motivi.
1.1. Con il primo motivo di ricorso la RAGIONE_SOCIALE eccepisce violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 4), dello stesso codice.
Rileva, in particolare, che la C.T.R. aveva omessa di pronunciarsi sull’eccezione, dedotta in appello dalla
contribuente, relativa alla mancata produzione in giudizio del processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza del 4 dicembre 2012.
Il motivo è infondato.
Va innanzitutto rilevato che il p.v.c. risulta depositato in giudizio, come si evince dalla stessa sentenza impugnata, nella quale si legge (pag. 1) che l’Agenzia delle Entrate «resiste denunciando la infondatezza dell’appello ed allegando il pvc».
A pag. 2 della sentenza impugnata, inoltre, con riferimento alla questione dell’omessa esibizione dell’autorizzazione agli accertamenti bancari, si dà conto che nel p.v.c. (che quindi, evidentemente, è stato acquisito agli atti processuali) è specificamente indicato il provvedimento autorizzatorio del Comandante regionale della G.d.F.
Va rilevato, in ogni caso, che, avendo la Corte regionale rigettato l’appello nel merito, essa ha implicitamente rigettato anche il relativo motivo di appello riguardante l’omesso deposito in giudizio del processo verbale di constatazione.
E’ noto, infatti, che n on ricorre il vizio di omessa pronuncia ove la decisione comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione, da ritenersi ravvisabile quando la pretesa non espressamente esaminata risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia, nel senso che la domanda o l’eccezione, pur non espressamente trattate, siano superate e travolte dalla soluzione di altra questione, il cui esame presuppone, come necessario antecedente logico-giuridico, la loro irrilevanza o infondatezza
(da ultimo Cass. 26 settembre 2024, n. 25710; v. anche Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191).
La decisione nel merito dei rilievi formulati dall’Ufficio, pertanto, presuppone che la Corte territoriale abbia implicitamente ritenuto infondato il motivo di appello riguardante la mancata produzione in giudizio del p.v.c., che, comunque, come detto, almeno nel giudizio di appello risulta depositato, nel rispetto anche dell’art. 58 d.lgs. n. 546/1992 (che consentiva, nel testo vigente ratione temporis , di produrre nuovi documenti in appello).
Va rilevato, peraltro, che l’omesso deposito del p.v.c. non costituisce, di per sé, motivo di improcedibilità del ricorso, potendo, al più, indurre la corte territoriale ad attivare i propri poteri di integrazione probatoria ex art. 7 d.lgs. n. 546/1992 (in tal senso Cass. 11 maggio 2021, n. 12383).
Nel caso di specie, tuttavia, il ricorrente non lamenta carenze o vizi istruttori, ritenendo che il mancato deposito del p.v.c. determini, per sé solo, un vizio del procedimento: circostanza, questa, del tutto sfornita di fondamento, anche in considerazione del fatto che non viene indicato alcun concreto pregiudizio al diritto di difesa che la manca acquisizione avrebbe in concreto determinato.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente eccepisce violazione e falsa applicazione degli artt. 32 d.P.R. n. 600/1973 e 51 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Rileva, in particolare, che essa, nel corso del giudizio di merito, aveva documentato tutti i beneficiari (prenditori) degli assegni emessi e considerati quali operazioni di prelevamento
sul conto della socia COGNOME NOMECOGNOME per un importo di € 50.840,26 considerato quale reddito societario, e che la C.T.R. aveva erroneamente ritenuta tale prova non idonea a sperare la presunzione secondo cui tali operazioni di prelevamento sul conto del socio costituissero redditi non dichiarati della società.
Anche tale motivo è infondato.
In linea generale, in tema di onere probatorio del contribuente nei confronti delle presunzioni fiscali relative ai movimenti bancari, quando l’Agenzia delle Entrate o gli organismi di controllo determinano un’imposta indiretta basandosi sui prelevamenti e versamenti effettuati su conto corrente bancario, il contribuente ha l’onere di fornire una prova analitica e dettagliata per dimostrare che tali movimenti non sono riconducibili ad operazioni imponibili. La presunzione posta a carico del contribuente, infatti, implica che tutti i movimenti sui conti bancari siano riferiti all’attività economica del contribuente, con i prelevamenti considerati ricavi e i versamenti come corrispettivi per l’acquisto di beni e servizi. Tuttavia, per superare questa presunzione, il contribuente deve dimostrare in modo analitico e dettagliato che i singoli movimenti non sono imputabili ad operazioni soggette a imposizione fiscale (in tal senso, da ultimo, Cass. 18 settembre 2024, n. 25043; Cass. 17 settembre 2024, n. 25010). Inoltre, con riferimento a conti intestati a terzi (come nel caso di specie, in cui si controverte relativamente a movimenti del conto corrente personale della sig.ra COGNOME NOMECOGNOME socia della società ricorrente alla quale i ricavi presunti da tali movimentazioni sono stati imputati), è stato affermato
che «le operazioni effettuate dal contribuente su conti correnti intestati a terzi legittimamente confluiscono nell’accertamento induttivo puro, ai sensi dell’art. 39, comma 2, del citato d.P.R., con la conseguenza che l’Amministrazione non è gravata di alcun ulteriore onere probatorio in punto di riferibilità dei conti al contribuente e delle somme di cui alle suddette operazioni, spettando invece allo stesso contribuente l’onere di fornire rigorosa prova contraria» (così Cass. 19 marzo 2024, n. 7360; v. anche Cass, 31 gennaio 2024, n. 2928).
Orbene, ciò posto, al fine di superare la presunzione reddituale dei versamenti e prelevamenti bancari, non è sufficiente che il contribuente indichi il nominativo dei beneficiari dei pagamenti, occorrendo anche la dimostrazione dello specifico nesso tra il momento del prelevamento e l’effettività e doverosità del pagamento (ben potendo, altrimenti, il sistema probatorio avvantaggiarsi di documenti di comodo o simulati). Ne consegue, pertanto, che, nel caso di specie, oltre agli assegni la ricorrente avrebbe dovuto richiamare la documentazione contabile al fine di identificare la causale di tali assegni, onde verificare che realmente gli stessi fossero stati corrisposti per eseguire un pagamento realmente dovuto in favore dei beneficiari.
1.3. Con il terzo motivo la RAGIONE_SOCIALE lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 109 d.P.R. n. 917/1986, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Deduce, in particolare, che, con riferimento ai costi ritenuti non deducibili, la C.T.R. aveva violato le regole di ripartizione
dell’onere della prova in quanto, nell’ipotesi di contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate dell’inerenza di un costo documentato da regolare fattore, incombeva sull’Ufficio l’onere di fornire la prova dell’indeducibilità.
Anche tale motivo è infondato.
Ed invero, «in tema di imposte sui redditi delle società, la deducibilità di costi ed oneri richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità -anche solo potenziale ed indiretta -secondo valutazione qualitativa e non quantitativa, la cui prova, in caso di contestazion e dell’Amministrazione finanziaria, è a carico del contribuente, dovendo egli provare e documentare l’imponibile maturato e, quindi, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perché in correlazione con l’attività d’impresa e non ai ricavi in sé» (Cass. 18 agosto 2022, n. 24880; v. anche Cass. 21 novembre 2019, n. 30366; Cass. 17 luglio 2018, n. 18904(.
Consegue il rigetto del ricorso.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza della ricorrente, secondo la liquidazione di cui al dispositivo.
Ricorrono i presupposti processuali per dichiarare la ricorrente tenuta al pagamento di un importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in € 10.300,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il pagamento, da parte della ricorrente, di un importo pari al contributo unificato previsto per la presente impugnazione, se dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
Così deciso in Roma, il 27 novembre 2024.