Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 34228 Anno 2025
REPUBBLICA ITALIANA Relatore: COGNOME NOME
Penale Sent. Sez. 3 Num. 34228 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Data Udienza: 08/07/2025
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta da
– Presidente –
VITTORIO PAZIENZA ANTONELLA DI STASI NOME COGNOME
SENTENZA
Sul ricorso proposto da: COGNOME NOME, nato a San Fior il DATA_NASCITA, avverso la sentenza del 13/12/2024 della Corte di appello di Bologna; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione;
udito l’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, del foro di Roma, difensore di fiducia di NOME COGNOME, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso, riportandosi, in subordine, alle conclusioni del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO, con conseguente richiesta di revoca della confisca.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 23/11/2023, il Tribunale di Bologna condannava NOME COGNOME alla pena di anni uno di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, perchØ, in qualità di legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE‘, ometteva di versare, entro il 27/12/2016 (termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo), l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione d’imposta 2015, per un importo di euro 835.115,00, applicando le pene accessorie di legge e disponendo confisca diretta nei confronti della società del profitto del reato pari ad euro 835.115,00 e, qualora la confisca diretta non sia possibile, la confisca per equivalente nei confronti dell’imputato fino alla concorrenza del predetto importo.
Con sentenza del 13/12/2024, la Corte di appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado, disponendo il dissequestro con restituzione all’imputato della somma di euro 161.786,08, eccedente rispetto all’importo del profitto quantificato in euro 835.115,00.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna, NOME COGNOME, tramite i difensori, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo, la difesa lamenta mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen. in ordine alla ritenuta configurazione dell’elemento soggettivo di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000.
Deduce la difesa che la Corte territoriale ha concluso configurando il dolo in capo al ricorrente sulla base di due argomenti: l’autoliquidazione del compenso di euro 60.000,00 per l’attività di amministratore e la piena consapevolezza della necessità di fare ricorso al
debito tributario, con l’intendimento di far ricadere sul successivo amministratore le conseguenze della sua mala gestio.
Tuttavia, la Corte di appello non ha spiegato i motivi per i quali l’ammontare di euro 60.000,00 rappresenterebbe un elemento ostativo al riconoscimento del difetto del dolo, essendo l’importo necessario per le esigenze familiari e corrispondendo detto importo al 7,18% del debito IVA ed al 4,38% del complessivo debito tributario, Non era stato considerato, inoltre, che il ricorrente aveva, nel tempo, destinato il proprio patrimonio personale al pagamento dei debiti tributari della società, che la nota integrativa al bilancio indicava la pendenza del debito tributario, sottolineando l’esigenza di onorarlo a mezzo di una procedura conciliativa, e che nel bilancio 2015 erano stati anche predisposti fondi rischi per imposte non pagate.
Per altro verso, la Corte territoriale non ha tenuto conto che la responsabilità del mancato pagamento dell’IVA 2015 rappresentava comunque una responsabilità del ricorrente, che manteneva la carica di amministratore alla data del 27/12/2016 di scadenza del pagamento dell’IVA 2015, nØ delle cause della crisi della RAGIONE_SOCIALE e delle concrete iniziative intraprese dal ricorrente.
Deduce, quindi, la difesa che le misure adottate dal ricorrente forniscono la prova che l’inadempimento dell’obbligo tributario sia derivato da fatti a lui non imputabili, richiamando recente giurisprudenza di legittimità (pronunce 30532 e 41238 del 2024) che ha rinvenuto un riscontro nel nuovo comma 3-bis dell’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000 che ha previsto una ulteriore causa di non punibilità per i reati di cui agli artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000 se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto, valorizzando la crisi non transitoria di liquidità e la non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi. Per cui la Corte territoriale avrebbe dovuto argomentare sulle condotte alternative esigibili che il ricorrente avrebbe dovuto tenere per arrivare all’adempimento dei debiti tributari oppure illustrare per quale motivo le azioni esperite fossero ritenute inadeguate allo scopo prefissato.
2.2. Con il secondo motivo, la difesa lamenta inosservanza o erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen. in merito al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 3-bis, d.lgs. n. 74 del 2000 e carenza della motivazione ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen.
Osserva la difesa che la Corte territoriale ha escluso il riconoscimento della invocata causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 3-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, nonostante la difesa avesse dimostrato che il mancato versamento dell’IVA era dipeso da una crisi di liquidità, dovuta ad una forte contrazione del mercato e alla riduzione del canale di credito bancario, nonchØ a crediti maturati e non riscossi che nel quinquennio 2011-2016 avevano raggiunto l’ammontare di euro 2.553.067,00, e che il ricorrente aveva posto in essere condotte destinate al salvataggio della società, adottando soluzioni gestionali e organizzative idonee a superare la crisi, compresa l’immissione di nuove risorse economiche tramite la società controllante RAGIONE_SOCIALE
Lamenta, pertanto, che la motivazione della Corte territoriale Ł del tutto carente in proposito, non tenendo in considerazione le argomentazioni difensive volte a dimostrare la concreta impossibilità di far fronte agli obblighi di versamento per la situazione di crisi dell’impresa.
2.3. Con il terzo motivo, la difesa lamenta inosservanza o erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen. in ordine al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui agli artt. 13, comma 3-ter, d.lgs. n. 74 del 2000 e 131-bis cod.
pen. e carenza della motivazione ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen.
Osserva la difesa che la Corte di merito ha rigettato la richiesta di riconoscimento della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 13, comma 3-ter, d.lgs. n. 74 del 2000, in ragione dell’ammontare del tributo evaso, senza considerare che la valutazione inerente all’entità del danno o del pericolo non Ł da sola sufficiente a fondare o escludere il giudizio di marginalità del fatto, dovendosi operare una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, in particolare della improvvisa e imprevedibile crisi di liquidità, dovuta ad una forte contrazione del mercato, alla riduzione del canale di credito bancario e alle perdite su crediti vantati nei confronti della propria clientela, nonchØ dei concreti ed effettivi tentativi di far fronte a detta crisi, attivando tutte le iniziative in suo potere, compresa l’immissione nella società di ingenti risorse economiche a titolo personale.
2.4. Con il quarto motivo, la difesa lamenta inosservanza o erronea applicazione della legge penale ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen. in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e all’applicazione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, lett. e), cod. proc. pen.
Osserva la difesa che la Corte territoriale ha individuato la pena base al di sopra del minimo edittale dando eccessivo e unico rilievo al criterio della entità del danno, senza attribuire alcun rilievo alla intensità del dolo e, soprattutto, alle modalità di condotta.
Aggiunge la difesa che la Corte di appello aveva negato il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, non essendo sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato, senza considerare che la richiesta di concessione poggiava non soltanto sullo stato di incensuratezza, ma anche sull’atteggiamento collaborativo tenuto dall’imputato nel corso del processo.
E’ pervenuta memoria contenente motivi nuovi con cui si chiede la revoca della confisca equivalente in conseguenza della estinzione del reato per intervenuta prescrizione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso Ł manifestamente infondato.
1.1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte in tema di reato di omesso versamento dell’IVA (Sez. 3, n. 23796 del 29/05/2019, Rv. 275967), la colpevolezza del contribuente non Ł esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrata la non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e non siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l’omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell’IVA per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo. L’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo generico richiesto dall’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, atteso che l’obbligo del versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore Ł riconducibile all’ordinario rischio di impresa (Sez. 3, n. 33430 del 16/06/2023, COGNOME, non mass.).
Dunque, sotto il profilo psicologico, secondo la giurisprudenza, nel reato di omesso versamento di Iva (art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000), ai fini dell’esclusione della colpevolezza, Ł irrilevante il mancato incasso dei crediti per inadempimento contrattuale e la conseguente crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e
che il mancato adempimento del debitore Ł riconducibile all’ordinario rischio di impresa, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi (Sez. 3, n. 27202 del 19/05/2022, Natale, Rv. 283347; Sez. 3, n. 6506 del 24/09/2019, dep. 2020, Rv. 278909; Sez. 3, n. 2614 del 21/01/2014, Rv. 258595).
Nella fattispecie, i giudici di merito, le cui decisioni si saldano in unico corpo motivazionale ricorrendo una ipotesi di doppia conforme, hanno, senza vizi logici, evidenziato, contrariamente a quanto rappresentato nei motivi di ricorso, che al ricorrente era ben nota la condizione di crisi finanziaria in cui versava la società e che tale condizione non fosse improvvisa ed imprevedibile o comunque determinata da eventi straordinari ed eccezionali, ma risaliva quantomeno al 2012, sicchŁ l’imputato aveva consapevolmente assunto i rischi derivanti dalle scelte imprenditoriali deliberate durante una crisi in essere da tempo, esponendosi al mancato pagamento dell’IVA, per di piø percependo, durante la crisi finanziaria, il compenso di amministratore pari a 60.000,00 euro annui, nØ documentando sufficientemente, nella tempistica e nella destinazione delle risorse finanziarie, i tentativi di porre rimedio, in particolare le garanzie prestate da società terza, per cui – conclude il giudice di primo grado – il differimento del pagamento del debito tributario, destinando ad attività d’impresa l’IVA riscossa, assumeva la chiara finalità di perpetuare l’operatività commerciale, confidando sulla lentezza del sistema di riscossione delle entrate erariali.
1.2. Risulta, infatti, che il ricorrente, consapevole della crisi finanziaria della società, aveva preferito la continuità aziendale, per poi dimettersi dalla carica di amministratore, lasciando tuttavia insoluti i debiti erariali relativi all’IVA, circostanza che la Corte di legittimità ha piø volte evidenziato che, oltre ad essere prova del dolo (Sez. 3, n. 30677 del 24/06/2021, COGNOME; Sez. 3, n. 12906 del 13/11/2018, COGNOME; Sez. 3 n. 43599 del 09/09/2015, COGNOME, Rv. 265262), Ł ostativa alla dimostrazione della sopravvenienza della impossibilità di soddisfare i crediti tributari: in tal modo, infatti, con la scelta di non pagare l’IVA dovuta, deve essere esclusa la forza maggiore, integrata da un evento imponderabile tale da annullare la signorìa del soggetto sui propri comportamenti, poichØ l’omesso versamento dell’imposta Ł riconducibile ad una precisa scelta di politica imprenditoriale che, così operando, non assolve all’onere di ripartirele residue risorse esistenti in modo da adempiere anche al proprio debito erariale (Sez. 3, n. 38801 del 19/09/2024, COGNOME, non mass.).
1.3. In buona sostanza, i giudici di merito hanno logicamente rilevato come il riferimento che l’imputato aveva fatto ad azioni poste in essere al fine di reperire risorse necessarie a finanziare la società non era stato sufficientemente documentato, mentre le risorse possedute rivelanti la capacità di regolare una parte delle proprie obbligazioni, non erano state devolute, nemmeno in parte, al pagamento del debito tributario, ma destinate a garantire l’attività di impresa, tra cui la percezione dei compensi di amministratore, così adoperando la pratica tipica delle imprese in crisi di liquidità di finanziarsi attraverso l’evasione delle obbligazioni fiscali, non aderendo ad alcuno strumento deflattivo e differendo il momento di avvio delle procedure concorsuali.
1.4. NØ la situazione così descritta può essere diversamente considerata alla luce di alcuni arresti della piø recente giurisprudenza di legittimità che, nel ribadire che l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso di crediti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, trattandosi di inadempimento riconducibile all’ordinario rischio di impresa, ha tuttavia subordinato l’affermazione alla
condizione che tali insoluti siano sopravvenuti e contenuti entro una percentuale da ritenersi fisiologica (Sez. 3, n. 31352 del 05/05/2021, COGNOME, Rv. 282237, la quale ha ritenuto non fisiologica una presenza di insoluti per circa il 43% del fatturato, cui era seguita una gravissima crisi di liquidità; v. anche Sez. 3, n. 19651 del 19/5/2022, COGNOME, non mass.; Sez. 3, n. 30532 del 15/07/2024, COGNOME, non mass.; Sez. 3, n. 41238 del 01/10/2024, COGNOME, non mass.); diversamente nel caso di specie, trattandosi di crisi aziendale che si protraeva, aggravandosi progressivamente, dall’anno 2012, dipendente dal calo delle commesse estere e dalla AVV_NOTAIO stretta creditizia (v. pag. 1 della sentenza di secondo grado).
2. Il secondo motivo di ricorso Ł manifestamente infondato.
A seguito delle modifiche normative introdotte dal d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87 (‘Revisione del sistema sanzionatorio tributario, ai sensi dell’articolo 20 della legge 9 agosto 2023, n. 111’), Ł stato modificato l’articolo 13 del d.lgs. n. 74 del 2000 mediante l’inserimento di un comma 3-bis, secondo cui «i reati di cui agli articoli 10-bis e 10-ter non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi».
La Corte territoriale ha, tuttavia, escluso, senza vizi logici, la sussistenza, nel caso di specie, dei presupposti affinchØ possa dedursi una crisi di liquidità quale causa di non punibilità dovuta alle cause normativamente indicate, sottolineando che l’art. 13, comma 3bis, d.lgs. n 74 del 2000 si era limitato a positivizzare i principi giurisprudenziali, richiamando la inoperatività della scriminante nel caso di omesso versamento IVA incassata e non accantonata, e rilevando infine che la circostanza dell’autoliquidazione del compenso di amministratore in piena crisi finanziaria, con cui il ricorso non operava un confronto, non era scalfita dalla deduzione del mancato incasso delle somme portate nelle fatture.
E, dunque, a fronte di un percorso argomentativo privo di incongruenze motivazionali e coerente con gli indirizzi ermeneutici elaborati in questa materia, non vi Ł spazio per l’accoglimento delle censure difensive, volte sostanzialmente a suggerire una non consentita rilettura degli elementi probatori, dovendosi ritenere invece adeguatamente argomentate la inoperatività della scriminante introdotta nel comma 3-bis dell’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000.
Del resto, il Collegio osserva come la norma da ultimo richiamata postuli una crisi di liquidità aziendale sopravvenuta alla effettiva disponibilità delle somme incassate a titolo di IVA, dipendente dalla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o dal mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi.
Il terzo motivo di ricorso Ł manifestamente infondato.
L’art. 131-bis cod. pen. prevede la «non punibilità del fatto quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, primo comma, anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa Ł di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale».
E, dunque, oltre allo sbarramento del limite edittale (la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena), la norma richiede (congiuntamente e non alternativamente, come si desume dal tenore letterale della disposizione) la particolare tenuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento (Sez. 3,
n. 5804 del 08/01/2025, Novelli; Sez. 3, n. 34151 del 18/06/2018, Foglietta)
Il primo degli ‘indici-criteri’ (così li definisce la relazione allegata al decreto legislativo che ha introdotto l’istituto) appena indicati, ossia la particolare tenuità dell’offesa, si articola a sua volta in due «indici-requisiti» (sempre secondo la definizione della relazione), che sono la «modalità della condotta» e «l’esiguità del danno o del pericolo», da valutarsi sulla base dei criteri indicati dall’articolo 133 cod. pen., (natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo ed ogni altra modalità dell’azione, gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato, intensità del dolo o grado della colpa, nonchØ alla luce della condotta successiva al fatto, a seguito della modifica introdotta dal d.lgs. n. 150 del 2022).
Si richiede pertanto al giudice di rilevare se, sulla base dei due «indici-requisiti» della modalità della condotta e dell’esiguità del danno e del pericolo, valutati secondo i criteri direttivi di cui al primo comma dell’articolo 133 cod. pen., sussista l’«indice-criterio» della particolare tenuità dell’offesa e, con questo, coesista l’«indice-criterio» della non abitualità del comportamento. Solo in questo caso si potrà considerare il fatto di particolare tenuità ed escluderne, conseguentemente, la punibilità.
Tanto premesso, la Corte territoriale chiarisce non irragionevolmente che l’ammontare del tributo evaso e la durata dell’inadempimento rendesse inapplicabile l’istituto invocato ex art. 131-bis cod. pen., rendendo insussistente l’«indice-criterio» della particolare tenuità dell’offesa, anche tenendo conto delle recenti modifiche di cui all’art. 13, comma 3-bis, d.lgs. n. 74 del 2000, per cui la doglianza deve considerarsi per questa parte meramente riproduttiva di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con argomenti giuridici corretti dalla Corte territoriale, non evidenzianti profili di illogicità della motivazione.
Deve, infatti, essere ricordato che, con riferimento ai reati tributari caratterizzati dalla soglia di punibilità, Ł stato ritenuto che il superamento della soglia in misura pari all’11%, ma anche lievemente inferiore al 10% dell’importo rilevante esclude l’applicabilità dell’art. 131bis cod. pen. (Sez. 3, n. 1227 del 20/11/2024, dep. 2025, COGNOME, Rv. 287465; Sez. 3, n. 16599 del 20/02/2020, COGNOME, Rv. 278946), con la conseguenza, in definitiva, che, solo in presenza di uno scostamento di poco superiore rispetto alla soglia, può procedersi alla valutazione dei restanti parametri (Sez. 3, n. 14212 del 17/12/2024, dep. 2025, COGNOME, non mass.).
Pertanto, anche alla luce del sopravvenuto art. 13, comma 3-ter, d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. f), n. 3, d.lgs. 14 giugno 2024, n. 87 («ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen., il giudice valuta, in modo prevalente, uno o piø dei seguenti indici: a) l’entità dello scostamento dell’imposta evasa rispetto al valore soglia stabilito ai fini della punibilità; b) salvo quanto previsto dal comma 1, l’avvenuto adempimento integrale dell’obbligo di pagamento secondo il piano di rateizzazione concordato con l’amministrazione finanziaria; c) l’entità del debito tributario residuo, quando sia in fase di estinzione mediante rateizzazione; d) la situazione di crisi ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera a), del codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, di cui al d.lgs. n. 14 del 2019»), deve ritenersi che lo scostamento significativo dalla soglia di punibilità di un debito tributario neanche in parte saldato precluda la configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, ove venga ritenuto motivatamente prevalente rispetto agli altri, come rilevato dalla sentenza impugnata. Di qui la manifesta infondatezza della doglianza sul punto.
Il quarto motivo di ricorso Ł manifestamente infondato.
La giurisprudenza di legittimità Ł ferma nel ritenere che, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi
indicati dall’art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente, sicchØ anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (ex plurimis, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269; Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Rv. 259899); nel qual caso tutti gli altri elementi si ritengono, anche implicitamente, disattesi o comunque superati da questo tipo di valutazione (Sez. 3, n. 1913 del 20/12/2018, dep. 2019, Rv. 275509).
In applicazione di tale premessa interpretativa, devono escludersi i vizi motivazionali e i profili di illegittimità evocati dalla difesa, avendo i giudici di merito sottolineato, in maniera non illogica, l’assenza di elementi meritevoli di positiva considerazione ai fini della mitigazione del trattamento sanzionatorio, non potendo ritenersi di per sØ tali la condizione di incensurato del ricorrente, stante la previsione di cui all’art. 62 bis comma 3 cod. pen., ed essendo stata ragionevolmente rimarcata la oggettiva gravità del fatto, in ragione dell’ammontare del debito tributario accumulato che impedisce di minimizzare il fatto di reato al quale l’imputato neppure successivamente al fatto ha cercato di rimediare.
Deve anche essere ricordato che la graduazione del trattamento sanzionatorio rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, che lo esercita, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen., sicchŁ nel giudizio di cassazione Ł comunque inammissibile la censura che miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 2, n. 39716 del 12/07/2018, Cicciø, Rv. 273819, in motivazione; Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, COGNOME, Rv. 271243; Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259142; Sez. 1, n. 24213 del 13/03/2013, COGNOME, Rv. 255825; da ultimo v. Sez. 2, n. 1929 del 16/12/2020, dep. 2021, COGNOME, non mass.), evenienza questa non ricorrente nel caso di specie, avendo la Corte distrettuale, non illogicamente, condiviso il procedimento di calcolo del giudice di primo grado, che aveva affermato la congruità di un trattamento sanzionatorio medio rispetto alla forbice edittale prevista dall’art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, sottolineando a tal fine il rilevante importo sottratto al fisco.
Pertanto, in presenza di un apparato argomentativo non irrazionale, nØ frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, ed in presenza di un trattamento sanzionatorio inferiore alla media edittale, non vi Ł spazio per l’accoglimento delle obiezioni difensive, che sollecitano differenti apprezzamenti di merito che non possono trovare ingresso in sede di legittimità.
5. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile a cagione della manifesta infondatezza di tutti i motivi ai quali Ł stato affidato. L’inammissibilità del ricorso impedisce l’instaurazione di un valido rapporto processuale, con la conseguenza che Ł preclusa la possibilità di rilevare la prescrizione del reato maturata dopo la sentenza di appello (Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 2017, Aiello, Rv. 268966).
Tenuto conto, infine, della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, e considerato che non vi Ł ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza ‘versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità’, si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 3.000 in favore della Cassa delle ammende, esercitando la facoltà introdotta dall’art. 1, comma 64, l. n. 103 del 2017, di aumentare oltre il massimo la sanzione prevista dall’art. 616 cod. proc. pen. in caso di inammissibilità del ricorso, considerate le ragioni dell’inammissibilità stessa come sopra indicate.
P.Q.M
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così Ł deciso, 08/07/2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente NOME COGNOME
NOME COGNOME