Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19130 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 19130 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 4154/2016 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME giusta procura a margine della memoria con nomina di nuovo difensore (pecEMAIL
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore.
– resistente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA, n. 10532/2015, depositata in data 24 novembre 2015, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25 giugno 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria regionale ha accolto l ‘appello proposto dall ‘Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE operante nel settore del commercio all’ingresso di prodotti per la saldatura industriale, avente ad oggetto due avvisi di accertamento, relativi all’anno d’imposta 2007, con i quali erano stati rideterminati maggiori redditi per euro 70.485,00 ed era stata accertata l’omessa ritenuta sui maggiori utili distribuiti a favore dei soci, COGNOME NOME e COGNOME NOME, titolari di partecipazione di quote non qualificate ( l’altro socio COGNOME NOME, pure legale rappresentante della società contribuente, era titolare della quota del 70% del capitale sociale).
I giudici di secondo grado hanno affermato che: « La condotta del contribuente, società RAGIONE_SOCIALE è in palese contrasto con i normali criteri di economicità dell’attività imprenditoriale, con il comune buon senso e con le regole basilari della ragionevolezza e tali comportamenti se non perseguono i fattori produttivi finiscono per essere privi di una giustificazione razionale che non sia quella di eludere il precetto tributario. Quindi in presenza di rilevanti indizi di evasione come nella fattispecie l’Ufficio ha il dovere di rideterminare l’imponibile. Tale impostazione è unanimemente accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, infatti sono numerose le pronunce in cui è ribadito il principio secondo il quale l’Ufficio è legittimato all’accertamento induttivo in presenza delle gravi anomalie come riscontrate nel caso di specie. Il contribuente non ha documentato l’esistenza di maggiori costi rispetto a quelli considerati e quindi le rilevanti discrasie legittimano la ricostruzione operata dall’Ufficio ».
La società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a cinque motivi e, in data 11 febbraio
2025, ha depositato memoria di costituzione con nomina di nuovo difensore.
L ‘Agenzia delle Entrate si è costituita al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ai sensi dell’art. 370, primo comma, c.p.c..
CONSIDERATO CHE
1. Il primo motivo del ricorso principale deduce la violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. La conferma della legittimità della rettifica, decisa dalla CTR, era sorretta da una motivazione solo apparente, che non aveva tenuto conto delle puntuali argomentazioni contrarie e delle prove offerte dalla società contribuente. In particolare, la motivazione della CTR si esauriva nell’affermazione dell’antieconomicità della gestione imprenditoriale della ricorrente senza spiegare le ragioni per le quali la condotta doveva essere considerata irragionevole e senza tenere in alcun conto le argomentazioni e le prove addotte dalla società contribuente, le quali, pure, potevano risultare decisive ai fini del ribaltamento del giudizio di antieconomicità. La CTR non aveva spiegato come poteva conciliarsi, nel caso di specie, il giudizio di antieconomicità con la congruità dei dati reddituali rispetto allo studio di settore, né aveva contribuito ad individuare gli indici di bilancio medi della Regione che la contribuente non avrebbe rispettato, i quali, all’esito di due gradi di giudizio, restavano un’entità misteriosa e, ciò nonostante, rappresentavano i pilastri su cui reggeva la pretesa tributaria. Infine, non si conciliava l’assioma della scarsa redditività rispetto alle esigenze di sostentamento dei soci con la circostanza (dimostrata e mai contestata in giudizio) che gli stessi soci, nel loro insieme familiare, avevano tratto dalla gestione aziendale, per il solo 2007, un reddito di euro 54.823,00 (tra compensi, stipendi e canoni), oltre ad utili pari ad euro 11.038,00.
2. Il secondo motivo deduce l’omesso esame di fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., e relativi alla congruità del reddito dichiarato nell’anno accertato rispetto allo studio di settore e ai redditi ottenuti dai soci per la loro partecipazione all’attività economica con particolare riferimento alla giustificazione delle loro concrete possibilità di sostentamento. In particolare, la CTR non aveva considerato che il socio di maggioranza aveva percepito un compenso di euro 21.126,00, a titolo di amministratore e che sua moglie aveva goduto di una retribuzione, quale dipendente della società, di euro 15.697,00 e non aveva nemmeno considerato che la famiglia COGNOME aveva percepito un canone di euro 18.000,00 per la locazione dell’immobile di proprietà alla società. Si trattava di fatti decisivi per il giudizio, in quanto essi attestavano che i soci, nel loro insieme familiare, avevano tratto dalla gestione aziendale, per il solo 2007, un reddito di euro 54.823,00 (tra compensi, stipendi e canoni), oltre ad utili per euro 11.038,00.
3. Il terzo motivo deduce la violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e dell’art. 39, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.. La sentenza impugnata, sulla base di un utile considerato modesto, aveva ritenuto antieconomica la gestione dell’impresa, ma tale conclusione era smentita dal fatto che i redditi dichiarati dalla società, negli anni presi in esame dall’Ufficio, erano risultati congrui e coerenti rispetto agli studi di settore. La società ricorrente aveva dichiarato che lo scostamento dell’incidenza del costo della produzione dichiarato rispetto ai ricavi era pari al 93% e, pertanto, di soli 3 punti percentuali maggiore rispetto alla forbice considerata dall’Ufficio (75-90%), con la conseguenza che lo scostamento accertato non raggiungeva quel livello di abnormità e/o di irragionevolezza, superato il quale, si poteva parlare di condotta antieconomica. Inoltre, i soci, nel 2007, avevano tratto dalla
partecipazione alla gestione societaria redditi pari ad euro 54.823,00 (tra compensi, stipendi e canoni), oltre ad utili per euro 11.038,00. Infine, la società ricorrente aveva dimostrato che il reddito dichiarato era pari all’88% del patrimonio netto, così sconfessando l’assunto di una scarsa redditività del capitale investito. La sentenza impugnata, dunque, aveva violato i principi in tema di sindacato della condotta antieconomica delle imprese.
Il quarto motivo deduce la violazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c. e degli artt. 39, primo comma, e 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.. La sentenza impugnata, nel ritenere provata una rideterminazione dei ricavi basata sull’applicazione di mere medie di settore, nemmeno indicate e documentate dall’Ufficio, aveva fatto malgoverno dei principi in tema di motivazione degli atti impositivi e di riparto degli oneri probatori. In particolare, l’Ufficio, come dedotto in primo grado e replicato in sede di appello, aveva fatto riferimento, per il giudizio di antieconomicità e per la rideterminazione dei ricavi, agli indici di bilancio medi della Regione Campania, non indicando, tuttavia, quali erano gli indici di bilancio della società che risultavano incoerenti e gli indici medi ritenuti attendibili.
Il quinto motivo deduce la violazione dell’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n.4, c.p.c., in quanto la CTR non aveva rilevato l’inammissibilità dell’appello dell’Ufficio per la genericità dei motivi, che era stata eccepita dalla società contribuente con il proprio atto di controdeduzioni di secondo grado.
Il quinto motivo, la cui trattazione è prioritaria, è inammissibile.
6.1 Ed invero, il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte, trova applicazione anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali siano contestati errori da parte del giudice di merito, con la conseguenza che, ove il
ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i motivi formulati dalla controparte e il contenuto dell’atto di appello di cui lamenta l’inammissibilità non rilevata dai giudici di secondo grado (Cass., 29 settembre 2017, n. 22880).
Ed infatti, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un «error in procedendo», presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, proprio per assicurare il rispetto del principio di autosufficienza di esso (Cass., 6 settembre 2021, n. 24048; Cass., 23 dicembre 2020, n. 29495).
6.2 Nel caso di specie, la società ricorrente, pur avendo trascritto a pag. 19 del ricorso per cassazione, il contenuto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle Entrate, sollevata dalla stessa in sede di controdeduzioni, non ha trascritto il contenuto dell’atto di gravame dell’Ufficio, così non consentendo a questa Corte di valutare l’ammissibilità e la fondatezza della censura formulata.
per difetto di autosufficienza della censura, nella parte in cui la società ricorrente non riporta il contenuto degli avvisi di accertamento in contestazione, neppure riassunti nel loro specifico contenuto, non consentendo così a questa Corte di esprimere il suo giudizio in proposito alla ammissibilità della censura proposta di vizio di motivazione (cfr. Cass., 19 dicembre 2022, n. 37170; Cass., 28 giugno 2023, n.18418, in motivazione).
7.1 Occorre rammentare, infatti, che nell’ipotesi in cui il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria sotto il profilo della motivazione di un avviso di accertamento, che non è atto processuale ma amministrativo (Cass., 3 dicembre 2001, n. 15234), è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo ( ex multis , Cass. 13 febbraio 2014, n. 3289).
L’esame dei restanti motivi porta all’accoglimento del primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo e del terzo motivo.
8.1 Come questa Corte ha più volte affermato, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232, citata; Cass., 15 giugno 2017, n. 14927; Cass., 23 maggio 2019, n. 13977; Cass., 20 ottobre 2021, n. 29124). Invero, si è in presenza di una tipica fattispecie di «motivazione apparente», allorquando la motivazione della sentenza impugnata, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente e, talora, anche contenutisticamente sovrabbondante, risulta, tuttavia, essere stata costruita in modo tale da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio, e quindi tale da non attingere la soglia del « minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. (tra le tante: Cass., 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., 25 marzo 2021, n. 8400; Cass., 7 aprile 2021, n. 9288; Cass., 13 aprile 2021, n. 9627).
8.2 La motivazione, dunque, è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo , quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., 5 luglio 2022, n. 21302; Cass., 1 marzo 2022, n. 6758).
8.3 In tale grave forma di vizio incorre la sentenza impugnata che deve ritenersi del tutto insufficiente sul piano della logica giuridica, in quanto i giudici di appello, hanno accolto il gravame dell’Ufficio sostanzialmente affermando che l’attività imprenditoriale era in contrasto con i normali criteri di economicità e che sussistevano rilevanti indizi di evasione, ritenendo che la società contribuente non aveva documentato l’esistenza di maggiori costi rispetto a quelli considerati, con la conseguenza che le rilevanti discrasie legittimavano la ricostruzione operata dall’Ufficio. Con ciò non evidenziando in che cosa consisteva la ritenuta antieconomicità dell’attività imprenditoriale e senza spiegare quali erano le «gravi anomalie», pure riscontrate nel caso di specie, che avevano giustificato l’accertamento induttivo (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).
8.4 E’ utile precisare, in proposito, che questa Corte ha affermato che « l’antieconomicità della gestione di un’impresa non può verificarsi solo quando essa concluda il proprio esercizio annuale con una perdita, ma anche quando chiuda il bilancio con un utile talmente esiguo, a fronte di ingenti investimenti sostenuti, da far ritenere senz’altro sconveniente il rischio d’impresa sopportato in rapporto al risultato conseguito » (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31814, in motivazione) e ciò sul presupposto, condivi so anche dalla dottrina, che l’attività produttiva è condotta con metodo economico quando è diretta al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi utilizzati mediante lo
svolgimento con modalità tali da consentire, nel lungo periodo, la copertura dei costi con i ricavi, assicurando in tal modo l’autosufficienza economica. Così questa Corte ha qualificato come condotte antieconomiche, con la conseguente possibilità di rideterminazione del reddito imponibile del contribuente sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il sostenimento di spese per opuscoli informativi, per un ammontare pari a circa il 13% dell’intero ammontare dei ricavi annui, ad un costo unitario altrettanto elevato e senza produrre alcuno studio o un piano industriale da cui potesse emergere l’utilità in futuro dell’acquisto degli o puscoli (Cass., 2 febbraio 2022, n. 2224); la presenza di perdite rilevanti per quattro esercizi consecutivi, senza che la contribuente avesse fornito le ragioni che avevano inciso negativamente sulla propria attività, limitandosi, invece, ad elencare i costi sostenuti (Cass., 22 gennaio 2021, n. 1282); l’uso di percentuali di ricarico inferiori alla media del settore unita ad una persistente perdita di esercizio negli anni di riferimento, da un reddito di esercizio negativo e non idoneo a remunerare il lavoro dei soci, da un elevatissimo costo del lavoro, peraltro progressivamente aumentato in modo inversamente proporzionale al trend degli utili, tendente al ribasso (Cass., 14 ottobre 2020, n. 22185); l ‘abnormità della percentuale di ricarico e lo spropositato divario esistente tra la percentuale di ricarico applicata dalla società contribuente (3.3%) e quella applicata dall’Ufficio (Cass. , 24 settembre 2020, n. 20068); la presenza di utili di esercizio irrisori per cinque annualità consecutive accompagnati ad un ricarico sulle vendite pari ad un quinto di quello normalmente applicato, con contestuale apertura di numerosi punti vendita in zone prestigiose della città di Roma (Cass., 27 maggio 2020, n. 9901); una evidente sproporzione tra risultato economico dell’impresa e costo dei fattori produttivi e specificamente del costo del lavoro dipendente (Cass., 14 maggio 2020, n. 8925).
8.5 Ed ancora, in tema di accertamento induttivo, giova richiamare la giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che, ai sensi dell’art. 39, comma secondo, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, la determinazione del reddito di impresa può essere compiuta dall’amministrazione finanziaria prescindendo dalle presunzioni dotate dei caratteri della gravità, precisione e concordanza, quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica; si tratta, dunque, di una metodologia di controllo che può essere attivata dall’Amministrazione finanziaria soltanto al ricorrere di precise condizioni caratterizzate da irregolarità estreme o comunque gravissime ed è in tali circostanze che i verificatori hanno facoltà di prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili nei casi in cui siano esistenti e di utilizzare, oltre che prove dirette, anche elementi indiziari connotati da una valenza dimostrativa non particolarmente pregnante, vale a dire presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, c.d. presunzioni semplicissime; in questo contesto, il discrimine tra l’accertamento condotto con il metodo analitico induttivo e con il metodo induttivo puro va ricercato nella parziale od assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili; ed invero, nel primo caso, la incompletezza, falsità od inesattezza degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, essendo legittimato l’Ufficio accertatore a completare le lacune riscontrate utilizzando ai fini della dimostrazione della esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati ovvero della inesistenza di componenti negativi dichiarati anche presunzioni semplici rispondenti ai requisiti previsti dall’art. 2729 cod. civ.; nel secondo caso, invece, le omissioni o le false o inesatte indicazioni risultano tali
da inficiare la attendibilità -e dunque la utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), con la conseguenza che in questo caso l’Amministrazione finanziaria può prescindere in tutto od in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 cod. civ.; si tratta, infine, di una questione che attiene alla corretta sussunzione nel paradigma normativo della norma censurata della fattispecie in esame e non di una valutazione di merito (Cass., 18 dicembre 2019, n. 33604, in motivazione).
8.6 R
Per le ragioni di cui sopra, va accolto il primo motivo di ricorso, dichiarati inammissibili il quarto e il quinto motivo ed assorbiti i restanti; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa deve essere rinviata alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibili il quarto e il quinto motivo di ricorso ed assorbe i restanti motivi; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte di Giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 25 giugno 2025.