Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 30919 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 30919 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 03/12/2024
Sospensione del processo- artt. 295 e 337 cpc
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17480/2017 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del l.r.p.t., rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME in forza di procura in calce al ricorso, elettivamente domiciliata presso lo studio COGNOME ed associati in Roma alla INDIRIZZO;
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e presso la stessa domiciliata in Roma alla INDIRIZZO
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 441/2017 depositata in data 9/02/2017, non notificata; adunanza camerale del 4/10/2024
udita la relazione della causa nell ‘ tenuta dal consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
La società RAGIONE_SOCIALE ricorreva contro la cartella di pagamento emessa ai sensi dell’art. 36 -bis d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’anno di imposta 200 8, a fini Ires, con cui era disconosciuto il parziale riporto delle perdite dell’anno precedente .
La Commissione tributaria provinciale (CTP) di Roma accoglieva il ricorso.
La Commissione tributaria regionale del Lazio (CTR) accoglieva l’appello erariale; in particolare evidenziava che con altra sentenza della medesima CTR, la n. 3236/2016, sebbene non passata in cosa giudicata, era stata confermata la natura non operativa della società in quanto non aveva superato il test di operatività, fatto da cui conseguiva la perdita della facoltà di riportare le perdite negli anni successivi, tra cui quello in esame.
Contro tale decisione la società propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.
L ‘
Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
La causa è stata fissata per l’adunanza camerale de l 4/10/2024.
CONSIDERATO CHE
1 . Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4) cod. proc. civ., la società contribuente lamenta nullità della sentenza per carenza di motivazione, in violazione degli artt. 132 n. 4 cod. proc. civ., 118 disp. att. cod. proc. civ. e 36 d.lgs. n. 546 del 1992, per aver la CTR abdicato al proprio dovere di accertare i fatti di causa preferendo aderire alla sentenza non definitiva n. 3236/2016.
Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4) cod. proc. civ., deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 29 d.lgs. n. 546 del 1992 nonché dell’art. 295 cod. proc. civ., in quanto la CTR, pur avendo rilevato la sussistenza di una
pregiudizialità tra le due cause, non ha proceduto alla riunione dei procedimenti né alla sospensione del procedimento condizionato in attesa della risoluzione della causa pregiudiziale relativa al 2007.
Con il terzo motivo proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4) cod. proc. civ., deduce nullità della sentenza per omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per non aver la CTR statuito sulle eccezioni formulate dalla società, sia in diritto che nel merito, nei motivi ai nn. 1, 2, 3 e 4 delle controdeduzioni dell ‘appello dell’ufficio.
1.1. Occorre premettere che dalla intestazione della sentenza emerge che parte del giudizio di appello fosse anche RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE, cui il ricorso della società non è stato indirizzato né notificato.
Deve però, alla luce di quanto si dirà nello scrutinare i motivi di ricorso, farsi applicazione del principio, più volte affermato da questa Corte, secondo il quale il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 cod. proc. civ.) di evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano certamente quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio, da effettive garanzie di difesa e dal diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità, dei soggetti nella cui sfera giuridica l’atto finale è destinato ad esplicare i suoi effetti. Ne consegue che, in caso di ricorso prima facie infondato o inammissibile (come nella specie, per quanto appresso precisato), appare superflua, pur potendone sussistere i presupposti, la fissazione del termine per l’integrazione del contraddittorio ai predetti, ovvero per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente,
atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass. 8/02/2010, n. 2723; Cass., Sez. U., 22/03/2010, n. 6826; Cass. 13/10/2011, n. 21141; Cass. 17/06/2013, n. 15106; Cass., 21/05/2018, n. 12515).
Il primo motivo, con cui la ricorrente deduce la nullità della sentenza per motivazione apparente, non è fondato.
La mancanza della motivazione, rilevante ai sensi dell’art. 132 n. 4, cod. proc. civ. (e nel caso di specie dell’art. 36, secondo comma, n. 4, d.lgs. 546/1992) e riconducibile all’ipotesi di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, si configura quando la motivazione manchi del tutto – nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segue l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione ovvero… essa formalmente esista come parte del documento, ma le sue argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum . Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata (Cass., Sez. U., 7/04/2014, n. 8053; successivamente tra le tante Cass. n. 22598/2018; Cass. n. 6626/2022).
In particolare si è in presenza di una motivazione apparente allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi,
materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’ iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture.
In particolare, la motivazione di una sentenza può essere redatta per relationem rispetto ad un’ altra sentenza non ancora passata in giudicato, purché resti autosufficiente , riproducendo i contenuti mutuati e rendendoli oggetto di autonoma valutazione critica nel contesto della diversa, anche se connessa, causa, in modo da consentire la verifica della sua compatibilità logico – giuridica. La sentenza è, invece, nulla, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., qualora si limiti alla mera indicazione della fonte di riferimento e non sia, pertanto, possibile individuare le ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. 10/01/2022, n. 459).
Nel caso di specie, sotto un primo profilo la CTR invero fonda la sua decisione sulla efficacia della sentenza resa dalla medesima commissione sulla questione pregiudiziale, implicitamente facendo riferimento alla previsione dell’art. 337 cod. proc. civ.; in secondo luogo, comunque dà conto delle questioni oggetto di causa tanto da lasciar comprendere il percorso logico giuridico seguito.
Comunque, occorre anche precisare che la sentenza n. 3236/2016 della medesima CTR, richiamata dalla sentenza in questa sede impugnata, è oggetto del ricorso iscritto al n. 29210/2016 di questa Corte che, con ordinanza resa all’esito della medesima adunanza, ha rigettato il ricorso della società, con conseguente passaggio in giudicato della decisione sulla causa pregiudicante.
3. Il secondo motivo non è fondato
Tra la causa definita con la sentenza della CTR n. 3236/2016, richiamata dalla sentenza oggetto del ricorso in esame, e il giudizio in esame esiste un rapporto di pregiudizialità, come evidenziato nel corpo del motivo dalla stessa ricorrente, avendo la prima ad oggetto la natura di società non operativa della stessa per l’anno 2007, il cui accertamento determina la perdita della facoltà di riportare le perdite di tale anno nelle dichiarazioni del 2008, ai sensi dell’art. 3, comma 3, dell’art. 30 della l. n. 724 del 1994.
Alla luce di tale considerazione, la CTR non ha affatto violato l’art. 295 cod. proc. civ., in quanto tale disposizione è applicabile solo nel caso di giudizi pendenti in primo grado e non ove sia stata già emessa una sentenza, secondo consolidato orientamento della Corte.
Diversamente, come accade nel caso di specie, ove la stessa risulti già definita in secondo grado, non vi è spazio per la sospensione necessaria del giudizio pregiudicato, ma semmai per l’applicazione della sospensione facoltativa prevista dall’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., che appunto regola l’ipotesi in cui il suddetto rapporto riguardi una causa ormai pendente in sede d’impugnazione.
Ed infatti Qualora tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità, la sospensione ex art. 295 c.p.c. della causa dipendente permane fintanto che la causa pregiudicante penda in primo grado, mentre, una volta che questa sia definita con sentenza non passata in giudicato, spetta al giudice della causa dipendente scegliere se conformarsi alla predetta decisione, sciogliendo il vincolo necessario della sospensione, ove una parte del giudizio pregiudicato si attivi per riassumerlo, ovvero attendere la sua stabilizzazione con il passaggio in giudicato, mantenendo lo stato di sospensione (ovvero di quiescenza) attraverso però il ricorso all’esercizio del potere
facoltativo di sospensione previsto dall’art. 337, comma 2, c.p.c., ovvero decidere in senso difforme quando, sulla base di una ragionevole valutazione prognostica, ritenga che tale sentenza possa essere riformata o cassata (Cass. 23/03/2022, n. 9470; Cass. 24/06/2024, n. 17323; Cass. 29/03/2023, n. 8885)
Tale affermazione deriva dal principio per cui il diritto pronunciato dal giudice di primo grado, qualifica la posizione delle parti in modo diverso da quello dello stato originario della lite, giustificando sia l’esecuzione provvisoria, sia l’autorità della sentenza di primo grado (così Cass., Sez. U., 19/06/2012, n. 10027 confermata da Cass., Sez. U., 29/07/2021, n. 21763, che ha precisato altresì che nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati opera il disposto dell’art. 336, secondo comma, cod. proc. civ.; in tali sensi anche Cass. 04/01/2019, n. 80).
Trovando poi applicazione, come detto, il disposto di cui all’art. 337, cod. proc. civ., si configura un’ipotesi di sospensione facoltativa, che poggia non sull’autorità di giudicato ma sulla mera autorità della pronuncia, la quale, ancor prima e indipendentemente dal suo passaggio in giudicato, esplica una funzione di accertamento al di fuori del processo. Si deve in proposito chiarire che il mancato esercizio del potere discrezionale in questione non può essere in nessuna guisa equiparato alla violazione dell’obbligo di sospensione, di talché il motivo che deduce la violazione di quest’ultimo non può essere interpretato come ricomprendente anche la mancata sospensione facoltativa, che come detto ha ad oggetto una valutazione ben differente, basata sulla valutazione prognostica positiva negativa circa la fondatezza dell’impugnazione della pronuncia della cui autorità si tratta, come ricordato dalla giurisprudenza riportata (in tal senso la recente Cass. 25/03/2024, n. 7952, di questa Sezione).
Né una differente decisione poteva essere assunta dal giudice d’appello in virtù della specialità del processo tributario.
L’art. 39, comma 1 -bis , d. lgs. n. 546/1992, introdotto dal d.lgs. n. 156/2015, in vigore dal 1° gennaio 2016, riporta quasi letteralmente il testo dell’art. 295, cod. proc. civ., in precedenza applicabile direttamente in virtù del rinvio di cui all’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 546/1992. L’unica rilevante differenza letterale consiste nel fatto che ivi si configura la necessarietà della sospensione da parte della commissione, ove penda una controversia davanti alla stessa od altra commissione, e ciò in ogni altro caso, laddove l’aggettivo altro allude al caso di cui al comma 1, dal che potrebbe dedursi che, a differenza dell’ipotesi di cui all’art. 295 cod. proc. civ., la disposizione aggiunta trovi applicazione anche nell’ipotesi in cui la controversia penda davanti alla commissione regionale, dunque a fronte di un giudizio già definito in primo grado.
Siffatta conclusione è stata già esclusa da questa Corte (vedi in particolare le citate Cass. n. 7952/2024 e Cass. n. 17323/2014), coincidendo il campo di applicazione dell’art. 295, cod. proc. civ., con quello di cui all’art. 39, comma 1 -bis , d.lgs. n. 546/1992, nonché alla luce del generale rinvio di cui al già citato art. 1, d.lgs. n. 546/1992, che comporta che comporta l’applicabilità anche al processo tributario di quanto disposto dall’art. 337 cod. proc. civ.
In ogni caso, anche ove si accedesse a tale conclusione, l’ambito applicativo della norma non riguarderebbe la presente controversia, dal momento che pacificamente al momento della decisione d’appello, non vi era alcuna controversia che doveva essere decisa dalla stessa o altra commissione, visto che la CTR dà atto che quella pregiudicante era stata già decisa (Cass. 25/03/2024, n. 7968) il che, peraltro, rende infondato il motivo anche in riferimento alla dedotta violazione dell’art. 29 d.lgs. n. 546 del 1992 .
4. Il terzo motivo deduce omessa pronuncia su una eccezione di rito proposta in appello (inammissibilità dell’appello erariale per genericità dei motivi) e su alcuni originari motivi di ricorso, riproposti dalla società appellata (attinenti all ‘ inesistenza della notifica perché effettuata a mezzo posta, al difetto di motivazione dell’atto impugnato e al merito della vicenda).
Occorre premettere che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; tale vizio, pertanto, non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (Cass. 06/12/2017, n. 29191; Cass. 29/01/2021, n. 2151; Cass. 25/06/2024, n.17532; Cass. 13/10/2017, n. 24155).
Pertanto, in applicazione del principio, la S.C. ha in numerosi precedenti rigettato il motivo di ricorso denunciante l’omessa pronuncia sulla dedotta inammissibilità dei motivi d’appello, per difetto di specificità degli stessi, ove il giudice comunque abbia deciso il gravame nel merito (vedi ad es. la citata Cass. n. 2151/2021).
In merito alla omessa pronuncia sui motivi n. 2 (inesistenza della notifica della cartella opposta) e n. 3 (difetto di motivazione della cartella) valgono considerazioni analoghe (Cass. 6/11/2020, n. 24953; Cass. 24/05/2022, n. 16678; Cass. 8/06/2022, n. 18513), avendo la CTR direttamente affrontato il merito della lite, implicitamente disattendendoli.
Deve altrettanto escludersi l’omessa pronuncia sul motivo n. 4 delle controdeduzioni, attinente al merito della controversia, che
invero è stata decisa dalla sentenza della CTR mediante il richiamo e l’applicazione della precedente decisione sull’anno di imposta 2007.
Pertanto il ricorso va respinto.
Alla soccombenza segue condanna al pagamento delle spese di lite.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a pagare in favore dell’Agenzia delle entrate le spese di lite che liquida in euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2024.