Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 771 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 771 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/01/2024
ORDINANZA
ha pronunciato la seguente sul ricorso n. 22864/2016 proposto da:
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
COGNOME
– intimato –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA, n. 1912/16, depositata in data 1 marzo 2016, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22 novembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria provinciale di Napoli, con sentenza n. 29648 del 4 dicembre 2014, aveva rigettato, previa riunione, i tre ricorsi presentati da NOME COGNOME, esercente attività di agente di commercio per conto della società RAGIONE_SOCIALE aventi ad oggetto tre avvisi di accertamento, relativi agli anni di imposta 2007, 2008 e 2009, con i quali erano stati accertati maggiori redditi non dichiarati, a fronte di provvigioni corrisposte ad agenti di commercio per la conclusione di contratti che venivano accreditate su conti correnti esteri o, qualora registrate, considerate come operazioni non imponibili perché connesse ad operazioni relative agli scambi internazionali di cui all’art. 9, comma primo, del d.P.R. n. 633 del 1972.
La Commissione tributaria regionale ha accolto parzialmente l’appello proposto da NOME COGNOME limitatamente all’applicazione dell’Iva, per la mancanza del requisito della territorialità di cui all’art. 1 del d.P.R. n. 633 del 1972.
I giudici di secondo grado, in particolare, hanno affermato che la stessa Agenzia delle Entrate, con risoluzione n. 7/E del 9 gennaio 2008, esprimendosi in un caso similare, aveva rilevato che l’art. 7 del d.P.R. n. 633 del 1972, in conformità all’art. 44 della Direttiva n. 2006/112CE, aveva dettato le nuove regole in materia di prestazioni di intermediazione a decorrere dal 1 gennaio 2007, rilevando che le intermediazioni effettuate da un soggetto che agiva in nome e per conto di terzi (intermediario con rappresentanza), erano soggette all’IVA in Italia quando l’operazione principale cui l’intermediazione si
riferiva era effettuata in Italia e che, qualora il committente fosse stato un soggetto passivo identificato in un altro Stato membro dell’Unione Europea, la prestazione di intermediazione si considerava territorialmente rilevante in tale Paese, mentre si consideravano effettuate in Italia le prestazioni di intermediazione rese a soggetto di imposta identificato ai fini IVA in Italia; nel caso di specie, era evidente che l’agente operava come mandatario con rappresentanza, producendosi gli effetti della propria attività direttamente in capo al committente, soggetto risiedente in un Paese terzo e, pertanto, le prestazioni rese non erano territorialmente rilevanti in Italia ai fini IVA.
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a quattro motivi.
NOME non ha svolto difese.
CONSIDERATO CHE
Il primo mezzo deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per extrapetizione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.. La parte non aveva mai dedotto in primo grado, nel contestare il regime IVA applicatole, che i beni ceduti grazie alle sue prestazioni di agente si trovassero fuori dal territorio nazionale, né lo aveva affermato in appello, dove si era limitata (comunque del tutto ex novo ) a dare atto che la merce si trovava in un deposito in Italia, come del resto già affermato dal p.v.c., senza precisare se la merce fosse stata o meno già importata, dicendo solo che « non vuol dire che lo fosse» e per il solo caso negativo, «perfezionandosi l’importazione con l’acquisto e dunque a seguito dell’ordinativo prodotto dall’agente di commercio», il che pure non risultava affatto chiarificatore, non risultando indicato di che tipo di deposito si trattasse, né la struttura dei contratti conclusi e il contenuto dei poteri di controparte come agente.
1.1 Il motivo è infondato.
1.2 Nel caso in esame, il contribuente, come si legge a pag. 3 della sentenza impugnata, con i ricorsi introduttivi del giudizio di primo grado aveva lamentato anche la non applicabilità dell’Iva, in base al principio della territorialità di cui all’art. 7 de l d.P.R. n. 633 del 1972, perché in presenza di prestazioni rese ad un soggetto avente la propria sede in un Paese extracomunitario e la Commissione tributaria regionale, in risposta a tale censura, ha ritenuto fondato l’appello.
1.3 Non sussiste, dunque, il vizio dedotto di ultrapetizione o extrapetizione, che ricorre quando il giudice del merito, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri gli elementi obiettivi dell’azione («petitum» e «causa petendi») e, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa, emetta un provvedimento diverso da quello richiesto («petitum» immediato), ovvero attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso («petitum» mediato) (Cass., 21 marzo 2019, n. 8048; Cass., 11 aprile 2018, n. 9002).
Il secondo mezzo deduce la violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, del decreto legislativo n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.. La sentenza conteneva una motivazione meramente apparente, ma in realtà inesistente, là dove aveva ricopiato i contenuti della risoluzione n. 7/E del 9 gennaio 2008 sulla base di un’affermazione, del tutto generica e priva di ogni analisi, della «analogia» del caso qui in esame a quello ivi trattato. L’ affermazione della Commissione tributaria regionale che il ruolo di rappresentante dell’agente fosse «nel caso di specie… evidente», e pertanto i beni fossero fuori dal territorio italiano, appartenevano non meno «evidentemente» ad altra fattispecie.
Il terzo mezzo deduce la violazione degli artt. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, nonché degli artt. 2696, 2700 e 2727 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.. La sentenza, là dove
aveva affermato che le cessioni procacciate si sarebbero concluse fuori dal territorio nazionale perché ivi si trovavano i beni, risultava anche lesiva del valore fidefaciente delle attestazioni dei verbalizzanti, i quali avevano espressamente dichiarato che «la merce fornita… veniva spedita da magazzino sito in Italia» (come da foglio 8 p.v.c.): ciò rendeva il dato certo fino a querela di falso, e rendeva logicamente ricavabile da esso la presunzione che si trattasse di merce già importata. La sentenza, inoltre, nell’accogliere tesi favorevoli alla parte ma da questa mai provate, l’aveva anche sostanzialmente sollevata dall’onere probatorio che le incombeva, qualora si fosse affermata una situazione diversa, quale ad esempio la giacenza delle merci in un «deposito IVA».
4. Il quarto mezzo deduce la violazione dell’art. 7, comma terzo, del d.P.R. n. 633 del 1972 e falsa applicazione dell’art. 7, quarto comma, lett. f quinquies , del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.. La sentenza aveva fatto erronea ed illegittima applicazione della seconda norma in epigrafe, avendo considerato senz’altro effettuate fuori dal territorio dello Stato ed escluse da IVA prestazioni di intermediazione per cui non vi era alcuna prova dell’attinenza a cessioni concluse al di fuori di detto territorio, mentre vi era prova per atto pubblico che i beni coinvolti provenissero da magazzino sito in Italia, da cui era desumibile la legittima presunzione che quindi essi fossero stati già importati, e nulla era stato dedotto né provato dalla parte quanto a caratteristiche del suo rapporto con il preponente o dei contratti procacciati che potessero incidere sul luogo di conclusione delle operazioni intermediate. Sulla base di tali premesse, doveva invece applicarsi l’art. 7, terzo comma, del d.P.R. n 633 del 1972, in base al quale le prestazioni di servizio si consideravano effettuate nel territorio dello Stato (ed erano
pertanto imponibili) se erano rese da soggetti ivi residenti o che avevano il domicilio fiscale nel territorio dello Stato.
4.1 L’esame delle esposte censure porta all’accoglimento del secondo motivo, con assorbimento del terzo e del quarto motivo.
4.2 E’ orientamento consolidato di questa Corte ritenere che gli estremi della dedotta doglianza di nullità processuale della sentenza, per motivazione totalmente mancante o motivazione apparente, siano integrati nell’ipotesi di « assenza » della motivazione, quando cioè « non sia possibile individuare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione », non configurabile nel caso di « una pur succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione impugnata » (cfr. Cass., 15 novembre 2019, n. 29721) ovvero nel caso di « motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado » (cfr. Cass., 25 ottobre 2018, n. 27112) ovvero (è quello che rileva in questa sede) qualora la motivazione « risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione » (Cass., 25 settembre 2018, n. 22598; ipotesi ravvisata anche in caso di « contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, che rendono incomprensibili le ragioni poste a base della decisione », Cass., 25 giugno 2018, n. 16611).
4.3 Inoltre, secondo il costante orientamento di questa Corte, anche a sezioni unite, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento,
di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (v. tra le tante, Cass., 9 agosto 2017, n. 17477; Cass., Sez. U., 27 dicembre 1997, n. 13045).
4.4 Tanto premesso, nel caso in esame, l’impugnata decisione si mostra palesamente afflitta dal vizio qui lamentato, poiché essa ha inteso «accogliere» l’appello proposto dal contribuente, senza illustrare, tuttavia, il percorso logico – argomentativo seguito; la motivazione, in verità, laddove afferma che « Nel caso di specie, è evidente, a parere di questo Collegio, che l’agente opera come mandatario con rappresentante, producendosi gli effetti della propria attività direttamente in capo al committente, soggetto risiedente in un Paese terzo » risulta fondata su una mera formula di stile, disancorata dalla fattispecie concreta e sprovvista di riferimenti specifici, del tutto inidonea dunque a rivelare la ≪ ratio decidendi ≫ e ad evidenziare gli elementi che giustifichino il convincimento del giudice e ne rendano dunque possibile il controllo di legittimità; inoltre, con riguardo alle statuizioni richiamate, non risulta dotata della concisa esposizione sia delle ragioni di fatto della decisione (descrizione sintetica della fattispecie esaminata) sia delle ragioni di diritto delle decisioni stesse,
cioè di una esposizione logica e adeguata al caso di specie che consente di cogliere l’ iter logico-giuridico seguito e di comprendere se le tesi prospettate dalle parti siano state tenute presenti nel loro complesso. Ciò anche in ragione del fatto che, come emerge dalla ricostruzione dei fatti, operata dalla Guardia di Finanza nel pvc n. 3428 del 6 giugno 2012, le somme percepite dal contribuente a titolo di provvigioni, negli anni 2007, 2008 e 2009, erano state corrisposte da una società, la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALEche poi aveva assunta diverse denominazioni) con sede dichiarata in San Marino alla verifica rivelatasi estero-vestita (cfr. pag. 2 del ricorso per cassazione, nella parte in cui trascrive il contenuto del pvc n. 3428 del 6 giugno 2012, foglio 2, righe 6-9). I giudici di secondo grado, inoltre, hanno affermato, attraverso un percorso motivazionale ancora una volta poco chiaro, che « poiché le prestazioni di intermediazione in esame afferiscono a cessioni di beni che devono considerarsi realizzate nel luogo in cui si trovano materialmente all’atto di cessione e, cioè, al di fuori del territorio nazionale, le prestazioni medesime non sono territorialmente rilevanti ai fini Iva », così non spiegando sulla base di quali elementi abbiano tratto la conclusione che i beni oggetto della attività di intermediazione afferivano a cessioni di beni realizzate al di fuori del territorio nazionale, rilevando ancora una volta che secondo quanto accertato dalla Guardia di Finanza gli agenti italiani procacciavano la vendita di prodotti della società di San Martino a clienti sempre nazionali e che la merce fornita veniva spedita a un magazzino sito in Italia (cfr. pag. 2 del ricorso per cassazione, nella parte in cui trascrive il contenuto del pvc n. 3428 del 6 giugno 2012, foglio 8, righe 34-36 e 43-44).
4.5 Deve, dunque, concludersi che dall’esame dei passi della motivazione sopra riportati ed oggetto della censura emerge che la motivazione, sia pure esistente, non è articolata in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne il percorso logico, tenuto
soprattutto conto dei fatti (del tutto obliterati dai giudici di secondo grado) esposti nel giudizio dall’Ente impositore.
Per le ragioni di cui sopra, va accolto il secondo motivo, rigettato il primo ed assorbiti il terzo e il quarto; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo, rigetta il primo e dichiara assorbiti il terzo e il quarto; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Campania, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 22 novembre 2023.