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Motivazione apparente: Cassazione annulla sentenza

La Corte di Cassazione ha annullato una sentenza della commissione tributaria regionale per motivazione apparente. I giudici di merito avevano dichiarato nullo un avviso di accertamento basandosi su una contraddizione formale, senza però analizzare nel dettaglio le argomentazioni e le prove fornite dall’Agenzia delle Entrate. La Suprema Corte ha chiarito che una motivazione che non affronta i motivi d’appello e si limita a confermare la decisione precedente è giuridicamente inesistente.

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Pubblicato il 7 ottobre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Motivazione Apparente: perché la Cassazione può annullare una sentenza?

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre un importante spunto di riflessione su un vizio che può inficiare irrimediabilmente una sentenza: la motivazione apparente. Questo principio, fondamentale per garantire il diritto alla difesa e la trasparenza delle decisioni giudiziarie, impone ai giudici di spiegare in modo chiaro e comprensibile l’iter logico che li ha portati a una determinata conclusione. Quando ciò non avviene, la sentenza è nulla. Il caso in esame riguarda un contenzioso tributario, ma le sue implicazioni si estendono a ogni ambito del diritto.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine da un avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate a una società a responsabilità limitata. L’amministrazione finanziaria contestava l’indebita detrazione di costi e IVA relativi a fatture per operazioni ritenute “soggettivamente ed oggettivamente inesistenti” per l’anno d’imposta 2015, intercorse con due diversi fornitori.

La società contribuente impugnava l’atto impositivo e la Commissione Tributaria di primo grado accoglieva il ricorso. Successivamente, l’Agenzia delle Entrate proponeva appello, ma la Commissione Tributaria Regionale confermava la decisione di primo grado, rigettando l’appello. Il motivo? I giudici di secondo grado ritenevano fondata l’eccezione di nullità dell’avviso di accertamento per “carenza e contraddittorietà della motivazione”. Secondo la corte territoriale, qualificare le operazioni contemporaneamente come soggettivamente e oggettivamente inesistenti creava una contraddizione insanabile che rendeva impossibile comprendere le ragioni della pretesa fiscale.

L’Ordinanza della Cassazione e il vizio di motivazione apparente

L’Agenzia delle Entrate non si è arresa e ha presentato ricorso per Cassazione, lamentando, tra le altre cose, la violazione di legge e la presenza di una motivazione nulla, o appunto apparente, nella sentenza d’appello.

La Suprema Corte ha accolto questo secondo motivo, ritenendolo prioritario e assorbente rispetto agli altri. I giudici di legittimità hanno stabilito che la Corte territoriale era caduta in un grave errore: si era limitata a condividere la motivazione del giudice di primo grado, concentrandosi unicamente sul dato formale della duplice e presunta contraddittoria qualificazione delle operazioni, senza però esaminare nel merito gli argomenti e le prove documentali prodotte dall’Agenzia nel suo atto di appello.

In sostanza, la sentenza di secondo grado non spiegava perché le deduzioni dell’appellante fossero infondate. Si trattava, quindi, di una motivazione solo di facciata, una “mera formula di stile, disancorata dalla fattispecie concreta”, incapace di rivelare la ratio decidendi e di consentire un controllo sulla sua legittimità. Questo configura esattamente il vizio di motivazione apparente.

Le motivazioni

La Cassazione ha ribadito un principio consolidato, definito ius receptum: il vizio di motivazione meramente apparente si verifica quando il giudice, violando un preciso obbligo di legge (art. 132 c.p.c. e art. 36 D.Lgs. 546/1992), omette di esporre i motivi in fatto e in diritto della sua decisione. Il giudice deve illustrare l’iter logico seguito, specificando su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è giunto alla sua conclusione.

Nel caso specifico, i giudici d’appello avevano completamente ignorato le argomentazioni dell’Agenzia, la quale sosteneva che, al di là dell’impropria locuzione usata, dall’intero atto impositivo emergeva chiaramente che le operazioni contestate erano oggettivamente inesistenti e che la società fornitrice era una mera “cartiera”. La Corte territoriale, invece di analizzare questi elementi sostanziali, si è fermata a un cavillo formale, omettendo di svolgere il proprio ruolo di giudice del gravame, che consiste proprio nel riesaminare la controversia alla luce dei motivi di appello.

Le conclusioni

Per effetto di questa grave carenza, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado, in diversa composizione, affinché proceda a un nuovo esame che tenga conto di tutti gli elementi del caso.

La decisione sottolinea un principio cardine del nostro ordinamento: non basta che una sentenza abbia una motivazione; questa deve essere effettiva, concreta e deve confrontarsi con le argomentazioni delle parti. Una motivazione che si limita a riprodurre la decisione precedente o che ignora i motivi di appello è una non-motivazione, che viola il diritto di difesa e rende la sentenza nulla. Questo vale per i giudici, ma è anche un monito per le amministrazioni: gli atti impositivi, pur potendo contenere imprecisioni formali, devono essere fondati su una base probatoria e logica solida e comprensibile.

Che cos’è una motivazione apparente in una sentenza?
Si ha una motivazione apparente quando questa, pur essendo graficamente esistente, non permette di ricostruire il percorso logico-giuridico seguito dal giudice. Ciò accade, ad esempio, se la motivazione è meramente assertiva, contraddittoria, o si limita a confermare la sentenza precedente senza esaminare criticamente i motivi di appello.

Cosa succede se un giudice d’appello ignora i motivi del ricorso?
Se un giudice d’appello omette di esaminare e argomentare sui motivi specifici sollevati dalla parte appellante, la sua sentenza è viziata da motivazione apparente e, pertanto, è nulla. Come stabilito dalla Cassazione, il giudice ha l’obbligo di illustrare le ragioni per cui ha inteso disattendere i motivi di gravame.

Una terminologia imprecisa in un avviso di accertamento lo rende automaticamente nullo?
Non necessariamente. Secondo la Cassazione, bisogna guardare alla sostanza dell’atto. Se, nonostante una locuzione impropria (come “operazioni soggettivamente e oggettivamente inesistenti”), dall’intero contesto dell’avviso di accertamento e dalla documentazione allegata è possibile comprendere chiaramente la natura della contestazione e le prove a suo fondamento, l’atto non può essere annullato per un mero vizio formale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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