Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 19794 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 19794 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1142/2019 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende -ricorrente- contro
NOME
RAGIONE_SOCIALE
-intimata- avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DELLA BASILICATA n. 294/2018 depositata il 25/05/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10/04/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, l’Agenzia delle Entrate -Ufficio Locale di Potenza emetteva avviso di accertamento n. TC303T201420/2013 con cui accertava induttivamente un maggior reddito pari ad euro 6.774,00, relativo all’anno d’imposta 2008, nonché un maggior volume d’affari per euro 43.074,00 con corrispondente Iva dovuta per euro 8.615,00 ed indebita detrazione Iva per euro 143.578,00.
La contribuente impugnava l’avviso di accertamento dinanzi alla CTP di Potenza evidenziando che dal processo verbale di accesso redatto dai funzionari dell’Agenzia si evinceva che la società avesse effettuato due acquisti intracomunitari di veicoli, eccepiva l’illegittimità e infondatezza dell’atto impositivo emesso in violazione degli artt. 12, legge 212/2000 e 21, legge 241/1990, nonché l’omessa e/o erronea valutazione degli elementi posti a fondamento dell’avviso.
La CTP adita, con sentenza n. 782/2016 pronunciata in data 16/12/2015 e depositata in data 16/10/2016, accoglieva il ricorso sul presupposto della violazione dell’art. 12 legge 212/2000.
Avverso tale sentenza l’Ufficio proponeva appello dinanzi alla CTR della Basilicata che, con sentenza n. 294/2/2018 del 22/05/2018 e depositata in data 22/05/2018, rigettava l’appello erariale e compensava le spese.
L’Ufficio propone ricorso per cassazione affidato a due motivi.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 43 R.D. 267/1942 e dell’art. 14 D.lgs. 546/1992, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., per aver la CTR dichiarato la legittimazione della società in luogo del curatore alla riassunzione del giudizio nonostante la mancata prova dell’inerzia degli organi fallimentari previa comunicazione della pendenza del giudizio.
Con il secondo motivo di ricorso si adombra la violazione e falsa applicazione degli artt. 12 l. 212/2000, 53 e 54 del D.P.R. 917/1986, in relazione all’art. 360, comma 1 n. 3) cod. proc. civ., per aver la CTR ritenuto nullo l’accertamento induttivo per omessa instaurazione preventiva del contraddittorio con la parte contribuente, ritenendolo obbligatorio in presenza di qualunque tipologia di accertamento anche se conseguente ad una verifica fiscale presso gli uffici finanziari; nonché per non aver tenuto conto che a norma delle disposizioni in rubrica l’accertamento fondato sul confronto dei dati contabili emergenti dalla dichiarazione dei redditi con la documentazione fornita dal contribuente, a seguito di specifico invito, soddisfa i requisiti del preventivo contraddittorio non essendo necessaria alcuna redazione di verbale conclusivo delle operazioni di verifica.
Il primo motivo è fondato.
La CTR sull’eccezione dell’erario finalizzata a rimarcare la carenza di legittimazione attiva in capo al fallito, resosi parte diligente nel riassumere il giudizio tributario in seguito alla sua sospensione per sopravvenuta dichiarazione di fallimento della contribuente, ha svolto le seguenti argomentazioni: ‘ è bene preliminarmente evidenziare come risulti pacifico che il fallimento non attragga nel suo ambito la definizione dei giudizi tributari ‘; ‘ la problematica attiene a fattispecie impositiva il cui presupposto si è verificato in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento ‘; ‘ la responsabilità per il pagamento delle maggiori imposte dovute a seguito di rettifica da parte dell’Amministrazione finanziaria è pacificamente imputata al fallito nonostante gli adempimenti tributari riguardanti tale periodo siano posti dalla legge a carico del curatore’; ‘il fallito la propria veste di contribuente durante la procedura per cui è dotato di attitudine giuridica ad agire nei confronti dell’erario’ ; ‘ va riconosciuto al fallito l’esercizio della propria azione processuale, anche al di là delle ipotesi di inerzia del curatore fallimentare ‘.
Nell’approccio alle questioni è prodromica la disamina delle conseguenze primarie prodotte dal fallimento.
Da esso non scaturisce un effetto ablatorio della titolarità dei rapporti patrimoniali compresi nella procedura, che continuano a far capo al debitore. Costui soffre solo la sottrazione, a far data dall’apertura del concorso, della disponibilità del suo patrimonio, la cui amministrazione transita in mano al curatore.
Il c.d. ‘spossessamento’ ex art. 42, co. 1, L.fall. (art. 142 CCII) si risolve nell’apprensione alla massa degli averi dell’insolvente, con l’assegnazione contestuale al curatore, in forza dell’art. 31 L.fall. (art. 128 CCII), del potere di gestirli in via esclusiva.
Il meccanismo può essere riguardato da due convergenti angolazioni.
Per un verso, la perdita da parte del fallito della prerogativa di disporre di beni e rapporti e il contestuale conseguimento di essa da parte del curatore delineano una fattispecie di scissione tra titolarità e legittimazione, riconducibile ad una vera e propria sostituzione dell’organo concorsuale al debitore, operante ex lege (Cass. 4676 del 1993).
Per altro verso, ad innescarsi è una segregazione di beni e rapporti all’interno di un patrimonio che non vede mutare l’identità del proprio titolare, ma soltanto quella del suo gestore, che prende in carico il compendio dei beni in funzione eminentemente liquidatoria, quindi attuativa della garanzia patrimoniale generica di cui all’art. 2740 c.c. (Cass. n. 18002 del 2016). Vale la trasposizione nel diritto concorsuale del principio fondante l’espropriazione dei beni del debitore ad opera dei creditori di cui all’art. 2910 c.c. In quest’ottica, il curatore conserva materialmente e giuridicamente il patrimonio, lo ricostruisce recuperando anche giudizialmente le risorse che ad esso appartengono, ne monetizza le componenti in vista della distribuzione del ricavato fra i creditori.
Il fenomeno segregativo ha una dimensione transitoria, essendo destinato ad esaurirsi in coincidenza con la chiusura del procedimento concorsuale, allorché l’insolvente vede riespandersi a pieno le facoltà dominicali su ciò che residua, se del caso, del patrimonio fallimentare.
L’art. 43, co. 1, L.fall. (art. 143, co. 1, CCII) fa da pendant processuale all’art. 42, co. 1, L.fall ., consegnando al curatore una legittimazione processuale attiva e passiva riservata, in riferimento a tutte le controversie relative ai rapporti patrimoniali che è chiamato ad amministrare, quand’anche già instaurate nel momento in cui viene inaugurato il concorso formale e sostanziale fra i creditori.
L’apertura del fallimento (quindi della liquidazione giudiziale che ne aggiorna l’archetipo) determina l” interruzione del processo ‘ (co. 3 art. 43 L.fall. e art. 143 CCII): da lì in avanti il fallito perde la disponibilità dei propri beni e rapporti ed è coerentemente privato, in parallelo, della capacità di stare in giudizio nelle cause che li concernono.
Il curatore, in forza di un congegno di sostituzione processuale , si avvicenda al soggetto insolvente nei giudizi promossi ante procedura, tanto da doverli riassumere; egli deve rendersi, nel mentre, parte diligente nel promuovere i processi volti al recupero di beni o crediti alla massa fallimentare.
Il fallito, in ragione del costrutto sostanziale e processuale descritto, rimane abilitato a fare ingresso nei soli giudizi dai quali possa derivargli un’imputazione per bancarotta e nei ristretti casi di intervento previsti dalla legge (co. 2 artt. 43 L.fall. e 143 CCII) (Cass. n. 7448 del 2012; Cass. n. 4448 del 2012; Cass. 14624 del 2010).
Il soggetto insolvente non è, invece, legittimato, a concorso in itinere , all’assunzione di iniziative giudiziali, quand’anche urgenti perché orientate a scongiurare un pregiudizio a proprio carico. Pure
nelle situazioni all’apparenza indifferibili, il debitore è tenuto a chiamare in soccorso il curatore fallimentare, senza attivarsi in supplenza, poiché nel contesto del sistema è proprio l’organo concorsuale a massimizzare la tutela degli interessi, contemperando quello della massa e quello del debitore, sotto l’egida delle finalità pubblicistiche della procedura.
La legitimatio dell’ente fallito è esclusa in ciascun giudizio in cui sia parte il curatore, a prescindere dalla plausibilità della condotta adottata in concreto dall’organo concorsuale nel processo, potendosi ipotizzare per il fallito l’ammissibilità di un intervento adesivo autonomo nei limiti in cui ricorra la già riferita fattispecie del secondo comma dell’art. 43, dunque in relazione ai soli giudizi comprensivi di questioni da cui possa trarre impulso un procedimento penale per bancarotta a detrimento dell’insolvente.
Fuori da questa ipotesi, le incursioni del fallito nelle cause in cui sia parte il curatore sono configurabili, al più, sub specie di intervento adesivo dipendente, essendo inibita al debitore l’opportunità di contrastare in giudizio la sentenza che definisce il processo, indipendentemente dall’eventuale impugnazione proposta dall’organo concorsuale (Cass. n. 4597 del 2018).
L’art. 43 L.fall., letto in controluce, esibisce una seconda eccezione. Dall’alveo del limite in punto di capacità processuale del fallito rimangono avulsi i rapporti non compresi nel fallimento e, come tali, non costituenti oggetto di spossessamento. Un’ulteriore deroga, nella medesima ottica, concerne i rapporti di carattere personale (art. 46 L.fall., art. 146 CCII), che rimangono ontologicamente esterni al fenomeno ablativo (Cass. n. 12264 del 2019). Altra deroga inerisce i giudizi di reclamo ex art. 18 L.fall. avverso la dichiarazione di fallimento, salvo non sia stato il fallito stesso a domandare l’accertamento della propria insolvenza (c.d. ‘autofallimento’). Di fianco a queste situazioni positivizzate, la giurisprudenza ha enucleato un’ultima valvola di sicurezza
derogatoria, riconoscendo al fallito una legittimazione processuale di rimessa nell’ipotesi dell’inerzia, da parte del curatore, rispetto a rapporti e situazioni giuridicamente rilevanti.
A venire in rilievo sono le controversie afferenti rapporti patrimoniali, acclusi sì nel fallimento, ma per i quali finisca per emergere un radicale disinteresse degli organi della procedura ancorché consti una tutela giurisdizionale astrattamente invocabile (Cass. n. 31843 del 2019; Cass. n. 31313 del 2018).
La legittimazione del soggetto insolvente ad impugnare l’atto impositivo nell’evenienza dell’inattività del curatore è principio sancito plurime volte dalla giurisprudenza di legittimità, tanto da assurgere oramai a postulato (Cass. n. 26506 del 2021; Cass. n. 2910 del 2010).
È, peraltro, la mera inattività del curatore in quanto tale a far gemmare la legittimazione occasionale del fallito, non essendo imprescindibile che detta inattività non costituisca l’espressione, perentoria e invalicabile, di una scelta della curatela. La legittimazione scaturisce dal semplice disimpegno, non presupponendo che quest’ultimo non costituisca lo scalo finale di una deliberata scelta dell’organo concorsuale nei confronti del rapporto o della res in iudicium deducta .
Giova rilevare che la soggettività tributaria nel fallimento e i suoi corollari nel formante giurisprudenziale mostrano una mappa dogmatica sufficientemente nitida.
L’ente debitore sottoposto ad una procedura liquidatoria concorsuale ‘ non è privato, a seguito della dichiarazione di fallimento, della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario ‘ (Cass. n. 4235 del 2006). Esso rimane, quindi, esposto alle ripercussioni sanzionatorie connesse alla definitività dell’atto impositivo.
Lo ‘spossessamento’ del patrimonio da liquidare è, d’altronde, ancillare ad una finalità espropriativa e liquidatoria, che ne segna
l’estensione e l’orizzonte; il fenomeno non rileva, pertanto, sul piano dell’imposizione fiscale.
L’ablazione prevista dall’art. 42 L.fall. non lambisce, in effetti, l’identità del soggetto giuridico cui è riferibile l’obbligazione tributaria, che è e rimane quella dell’ente insolvente. Sebbene quest’ultimo sia privato dell’amministrazione del suo patrimonio, la circostanza non esclude che le norme fiscali seguitino a incardinare su di esso il presupposto d’imposta.
A cambiare volto, nel fallimento (e ora nella liquidazione giudiziale), non è, in definitiva, il soggetto passivo del rapporto tributario, ma soltanto quello legittimato ad occuparsi, in costanza di procedura, degli adempimenti fiscali.
Nel perseguimento delle finalità concorsuali e nell’adempimento della propria funzione pubblicistica, il curatore rimpiazza il fallito nell’esecuzione degli obblighi tributari gravitanti sui beni e rapporti della massa che è chiamato ad amministrare, venendo a svolgere il compito quale soggetto legittimato ope legis a compiere atti suscettibili di spiegare effetti in una sfera patrimoniale altrui, quella del soggetto insolvente.
L’organo concorsuale, nel prendere in carico gli impegni burocratici con l’erario, rimane sfornito al pari, com’è ovvio, della procedura in sé -di un’autonoma soggettività tributaria.
Il tratto è congruente rispetto al sistema, dal momento che la declaratoria fallimentare non cagiona il venir meno dell’impresa e della società che ne costituisce l’involucro, comportando soltanto una perdita di legittimazione sostanziale e processuale, con riferimento ai rapporti dell’impresa stessa, da parte del relativo titolare, nella cui posizione viene a collocarsi temporaneamente -per superiori istanze e con un munus minuziosamente definito -il curatore.
Ne deriva che gli atti del procedimento tributario posti in essere antecedentemente all’apertura del concorso, benché intestati al
soggetto contribuente, sono opponibili alla curatela, mentre quelli compiuti posteriormente a tale momento possono (e debbono) indicare come destinataria l’impresa sottoposta alla procedura concorsuale, individuandone la mera rappresentanza legale in capo al curatore.
La circostanza che il curatore sia titolare, a tenore dell’art. 31 L.fall. (ora art. 128 CCII), dell’amministrazione del patrimonio della massa pone, d’altronde, l’organo concorsuale nell’uffizio di salvaguardare, da un lato, l’interesse dei creditori concorrenti, dall’altro e coevamente -quello del soggetto fallito a non ereditare, a valle del fallimento definito, pretese creditorie che sarebbero state passibili d’esser confutate a monte, con una più oculata e sollecita gestione ad opera del curatore (Cass. n. 3667 del 1997).
Vi sono situazioni, in altri termini, che attingono in via immediata la sfera giuridica ed economica del debitore, tanto da suggerire razionalmente di dotarlo di una legittimazione a difendersi. È proprio su questa premessa, che dev’essere ritenuta sussistente una legittimazione processuale compensativa del soggetto fallito rispetto all’atto impositivo in ipotesi di inerzia degli organi fallimentari, condizione, questa, riscontrabile già nell’omesso esercizio, da parte del curatore -quale che ne sia la motivazione alla base -del diritto alla tutela giurisdizionale verso l’atto impositivo. In siffatta situazione di inattività, il soggetto debitore è eccezionalmente abilitato a reclamare esso stesso la tutela in discorso, alla luce di un’interpretazione sistematica, che è imperniata sul combinato disposto degli art. 43 L.fall. e dell’art. 21 D.Lgs. n. 546 del 1992 e che appare conforme al principio di difesa, costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost. (Cass. n. 3020 del 2007; Cass. n. 4113 del 2014).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno condivisibilmente chiarito che a rilevare è il ‘ comportamento oggettivo di pura e
semplice inerzia ‘ del curatore, ‘ indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l’abbiano determinato ‘ (Cass., Sez. Un., n. 11287 del 2023).
In buona sostanza, il dissidio fra le pronunce che si limitavano ad esigere una mera e oggettiva inattività del curatore (v. anche Cass. 3094 del 1995) e quelle che circoscrivevano la legittimazione debitoria al recinto delle ipotesi in cui la curatela avesse dichiarato ‘inequivocabilmente di voler disinteressarsi del rapporto tributario in contestazione’ (Cass. n. 3321 del 1993), è stato risolto dalle Sezioni Unite in senso favorevole alla prima delle due opzioni ricostruttive. Pertanto, il mancato compimento tout court di un’attività giudiziale astrattamente possibile da parte del curatore vale a radicare la legittimazione della società fallita e dei suoi amministratori, a prescindere dalla sussistenza di una ponderata e consapevole astensione dell’organo concorsuale dall’iniziativa processuale in linea di principio praticabile. È il mero dato oggettivo dell’omesso ricorso alla tutela giudiziale a fondare, in definitiva, la legittimazione vicaria dell’ente fallito.
In linea con la pronuncia delle Sezioni Unite prima evocata (Cass., Sez. Un., n. 11287 del 2023 cit.), questa Corte, ancor più di recente, ha affermato che ‘In tema di fallimento, con riferimento ai rapporti d’imposta i cui presupposti si siano formati prima della declaratoria fallimentare, la ‘mera inerzia’ assunta dal curatore nei confronti dell’atto impositivo è sufficiente a far sorgere la legittimazione processuale straordinaria della società fallita, quindi dei suoi amministratori, ad impugnarlo ‘ (Cass. n. 21333 del 2024).
Giova, del resto, considerare che il contribuente fallito ha un interesse accentuato a contrastare la pretesa erariale. In effetti, le sanzioni sono escluse dall’ambito dell’istituto dell’esdebitazione di cui all’art. 142 L.fall. (e dell’art. 278 CCII), salvo che non siano accessorie ad un debito d’imposta estinto. Ciò comporta due
conseguenze: che qualora le sanzioni non abbiano la caratteristica dell’accessorietà e non ineriscano un debito integralmente pagato non sono suscettibili di estinguersi; che l’obbligazione tributaria ‘madre’ esige d’essere, comunque, onorata per intero anche dopo la chiusura del fallimento.
Tanto premesso, nella specie la CTR ha -come evincibile dagli stralci di motivazione sopra riportati -riconosciuto la legittimazione attiva del soggetto fallito a prescindere -ossia ‘ anche a di là ‘ -dell’inerzia, che, pertanto, ha trascurato di accertare.
In tal senso, la CTR si è posta in contrasto con il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, a tenore del quale ‘ In caso di apertura del fallimento, l’interruzione del processo è automatica ai sensi dell’art. 43, comma 3, l. fall., ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall. per le domande di credito, decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario ‘ (Cass., Sez. Un., n. 12154 del 2021).
Nella specie, il giudice d’appello ha solo valorizzato la riassunzione immediata a cura della debitrice, senza curarsi di appurare la conoscenza in capo all’organo concorsuale in ordine alla pendenza del processo tributario e il disinteresse da parte sua a proseguirlo.
Il motivo va, in definiva, accolto, affinché nel procedere ad un nuovo esame il giudice di rinvio s’incarichi di accertare anche queste circostanze, verificando -in altri termini -che il processo tributario non si sia celebrato all’insaputa del curatore, rimasto inattivo, in quanto nemmeno informato.
Il secondo motivo rimane assorbito.
In ultima analisi il ricorso va accolto in relazione al primo motivo, assorbito il secondo. La sentenza d’appello deve essere pertanto cassata e la causa rinviata per un nuovo esame per la regolazione delle spese del giudizio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, per un nuovo esame e per la regolazione delle spese del giudizio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata.
Così deciso in Roma, il 10/04/2025.