Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 26340 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 26340 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11956/2018 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA C/O STUDIO TRIBUTARIO RAGIONE_SOCIALE INDIRIZZO, rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DEL LAZIO n. 5808/2017 depositata il 10/10/2017.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/04/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
In data 30.09.2013, la società RAGIONE_SOCIALE inviava il modello UNICO per l’anno di imposta 2012, a cui seguiva, in data 27.12.2013, l’invio di una dichiarazione integrativa per il medesimo anno di imposta, mediante la quale veniva richiesto il rimborso della somma di € 30.154,00 (a titolo di IRAP nel rigo IR29) e di € 190.195,00 (a titolo di IRES nel rigo RX 01 003).
Con tale dichiarazione integrativa, la società riduceva l’ammontare delle imposte indeducibili da € 984.913,00 (importo esposto nella prima dichiarazione) ad € 293.293,00. A tanto procedeva sul presupposto dell’asserita piena deducibilità della maggiore IVA versata all’Erario, a seguito del perfezionamento della procedura di accertamento con adesione, in relazione agli avvisi di accertamento IVA notificati alla società (per gli anni di imposta 2007, 2008 e 2009) ed afferenti a operazioni soggettivamente inesistenti. Gli avvisi di accertamento in questione, si legge in sentenza, concernevano « … fatture relative ai compensi erogati dalla RAGIONE_SOCIALE alle cooperative di lavoro asseritamente impiegate nel rifornimento dei distributori automatici di alimenti gestiti dalla società e nel prelievo dei relativi incassi, rivelatesi essere, in realtà, entità fittizie. Tali fatture erano state poi utilizzate dal contribuente con la consapevolezza del carattere fraudolento dell’operazione ».
In particolare, la società aveva sottoscritto l’atto di adesione n. TK7A30200713/2012, relativo all’anno di imposta 2007, con il quale le parti, a fronte di un iniziale disconoscimento della detraibilità dell’IVA pari ad € 215.273,00, avevano concordato un’imposta dovuta di € 19,672,72.
Con un ulteriore atto di adesione n. TK7A30200715/2012, relativo all’anno di imposta 2008, le parti avevano concordato la ripresa a tassazione dell’intera IVA dovuta pari ad € 285.586,04 e, contestualmente, la società aveva rinunciato, per gli anni 2008 e 2009 al rimborso IVA richiesto per un importo pari a quello non concesso in sede di adesione e a cui conseguiva la compensazione della maggiore IVA dovuta (per operazioni soggettivamente inesistenti) con IVA a credito rinunciata dalla società.
Infine, era stato sottoscritto l’atto di adesione n. TK7A30200716/2012, relativo all’anno di imposta 2009, con il quale le parti avevano concordato la ripresa a tassazione dell’intera IVA dovuta pari ad € 383.293,81 e, contestualmente, la società aveva rinunciato, per gli anni 2008 e 2009, al rimborso IVA richiesto per un importo pari a quello non concesso in sede di adesione, a cui conseguiva la compensazione della maggiore IVA dovuta (per operazioni soggettivamente inesistenti) con l’IVA a credito rinunciata dalla società.
Successivamente, in data 07/03/2014, la società presentava istanza all’Ufficio Territoriale di Roma DP III di Roma, sollecitando il rimborso delle imposte ivi indicate.
Avverso il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso citata, la società proponeva ricorso dinanzi la CTP di Roma, sostenendo la legittima deduzione dell’IVA indetraibile derivante dalle operazioni accertate come soggettivamente inesistenti.
La CTP di Roma, con sentenza n. 15275/54/16 depositata in data 22/06/2016, accoglieva il ricorso della società ritenendo fondata l’istanza del la contribuente e deducibili i costi riportati nella dichiarazione integrativa.
Avverso tale sentenza l’Ufficio proponeva appello dinanzi alla CTR del Lazio che, con sentenza n. 5808/2017 del 21/09/2017, depositata in data 10/10/2017, accoglieva il gravame e
condannava la società al pagamento delle spese dell’intero giudizio, liquidandole in € 4.500,00.
La contribuente propone ora ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resiste l’Agenzia con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si contesta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 99 D.P.R. 917/1986 , degli artt. 109 e 110 del medesimo D.P.R., nonché dell’art. 19 D.P.R. 633/1972 e dell’art. 14 comma 4bis L. 537/1993, in relazione all’art. 360 comma 1 n.3 cod. proc. civ., per aver la CTR erroneamente escluso la deducibilità dell’IVA versata dalla contribuente al fornitore in ragione dell’indetraibilità della stessa in quanto correlata ad operazioni accertate come soggettivamente inesistenti.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4) c.p.c., per aver la CTR omesso di pronunciarsi in merito alla possibilità di considerare l’I VA versata all’Erario e non recuperabile nei confronti delle società cooperative, un credito esigibile che aveva generato una sopravvenienza passiva legittima, giustificata e pertanto deducibile.
Il primo motivo è infondato, il secondo motivo rimane assorbito.
Giova evidenziare che la CTR, nell’accogliere l’appello dell’Agenzia, ha escluso la deducibilità della maggiore IVA versata, perché indebitamente detratta, a seguito del perfezionamento della procedura di accertamento con adesione in riferimento ad avvisi di accertamento concernenti operazioni risultate soggettivamente inesistenti, del carattere fraudolento delle quali era emerso che la contribuente fosse consapevole.
Ora, attraverso la censura in esame, nel contestare la violazione dell’art. 99 Tuir, è la stessa ricorrente a porre in luce che l’IVA in
questione è quella corrisposta al fornitore, e resasi indetraibile a seguito degli accertamenti subiti.
Emerge, d’altronde, dalla narrativa del controricorso che gli accertamenti con adesione avevano riguardato l’IVA ritenuta dovuta perché indetraibile per gli anni d’imposta 2007 -2009 per operazioni soggettivamente inesistenti, compensata con IVA a credito. In particolare, il supero dell’IVA a credito è stato fatto oggetto di rinuncia da parte della società proprio in sede di adesione. Gli accertamenti sono divenuti definitivi in virtù dell’adesione nel 2012.
In questo quadro, non trova spazio concreto di applicazione il nuovo testo dell’art. 60, ult. co., d.P.R. n. 633 del 1972, come modificato con l’art. 93 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 24 marzo 2012 a norma del quale « Il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione », per quanto ratione temporis applicabile. La norma prevede difatti l’esercizio della detrazione da parte del cessionario o del committente a seguito della rivalsa operata in fattura dal cedente o dal prestatore che abbia effettivamente pagato all’Erario l’imposta accertata, le sanzioni e gli interessi, al fine di scongiurare l’ingiusto arricchimento che il cessionario o committente conseguirebbe se detraesse l’imposta senza provvedere al suo effettivo pagamento (in termini, Cass. n. 8372 del 2023).
Nella specie, invece, l’IVA versata al fornitore, concernente operazioni soggettivamente inesistenti, è stata considerata (definitivamente) indetraibile e il relativo debito è stato assolto mediante compensazione con l’IVA a credito corrispondente. E questo assetto è scaturito dalla sottoscrizione degli atti di accertamento con adesione.
Si palesa, pertanto, singolare che dapprima si sia assolta l’IVA dovuta perché indetraibile e in seguito -eccentricamente -si sia invertita la rotta, mirando a recuperare l’imposta mediante il meccanismo della deduzione, sebbene i predetti atti siano destinati a regolare definitivamente il rapporto d’imposta tra l’amministrazione e il contribuente, salvo che quest’ultimo non versi nei termini l’importo dovuto, ritornando così il rapporto ad essere regolato solo dagli atti impositivi originari (in termini, tra le più recenti, Cass. n. 26618 del 2024), in osservanza dell’art. 2, terzo comma, d.lgs. 218/97.
In realtà, proprio perché l’IVA versata al fornitore è definitivamente indetraibile in virtù di quegli atti, in quanto afferente a operazioni soggettivamente inesistenti del carattere fraudolento delle quali la contribuente, come si è visto, è risultata consapevole, è in radice da escludere che essa possa configurare un costo.
Sul punto questa Corte ha già di recente affermato che ‘ A fronte di fatture emesse per operazioni soggettivamente inesistenti, l’IVA indetraibile – in quanto corrisposta al soggetto interposto anziché all’effettivo cedente di beni o prestatore di servizi- non è deducibile tra i costi d’impresa ai fini della determinazione delle imposte dirette (IRES e IRAP), in quanto configura un esborso non inerente allo svolgimento della specifica attività economico-produttiva essendo, piuttosto, espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da interrompere il cd. nesso di inerenza’ (Cass. n. 1682 del 2024 non massimata).
In effetti, sono inerenti i costi riferiti all’attività da cui derivano i ricavi e i proventi che concorrono a formare l’imponibile aziendale, purché appartenga all’attività produttiva l’evento generatore del decremento che viene in considerazione dal punto di vista fiscale (in questi termini, Cass. n. 31930 del 2021; Cass. n. 17194 del 2022). Su tale traccia, la giurisprudenza di questa Corte ha escluso l’inerenza dei costi rappresentati dal pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per comportamenti illeciti del contribuente (cfr. Cass. n. 7071 del 2000; Cass. n. 7317 del 2003 sulle infrazioni stradali), degli esborsi effettuati per “chiudere” indagini fiscali (Cass. n. 5796 del 2001), del riscatto pagato per la liberazione di un dirigente dell’azienda (Cass. n. 8818 del 1995), di sanzioni pagate dall’imprenditore a titolo di condono edilizio (Cass. n. 1860 del 2007), di sanzioni irrogate dagli organismi della concorrenza e del mercato per aver posto in essere pratiche concordate per falsare in maniera consistente la concorrenza sul mercato (Cass. n. 5050 del 2010), di sanzioni civili per il ritardato pagamento di oneri previdenziali (Cass. n. 30238 del 2018), non ravvisandosi in tali fattispecie un legame funzionale tra il costo e il fattore produttivo dell’impresa. Si tratta, difatti, di esborsi che non concorrono, direttamente od indirettamente, alla formazione del reddito, perché non sono fattori produttivi, e comunque non sono atti della gestione d’impresa, ponendosi su un piano autonomo ed esterno rispetto a questa.
A maggior ragione queste considerazioni valgono per l’IVA, governata dal principio di neutralità, attuato dal sistema delle detrazioni, che è appunto inteso a sollevare interamente l’imprenditore dall’onere dell’IVA dovuta o pagata nell’ambito di tutte le sue attività economiche (tra varie, Corte giust., causa C332/15, punto 29, Astone ). L’IVA, dunque, nella sua fisionomia ordinaria è priva in nuce dell’attitudine ad incidere nelle fasi di commercializzazione, numerose o meno che siano, che precedono
la fase del consumo del bene. Sotto tale profilo, l’IVA non è suscettibile di essere qualificata alla stregua di costo generale di esercizio; essa non è, in altri termini, ontologicamente un costo “incorporato” nel bene acquistato e non rappresenta intrinsecamente per l’impresa un ‘costo’ collegato ad operazioni che producono un ricavo.
Coerentemente, a mente dell’art. 99, co. 1, del Tuir, le imposte sui redditi e quelle per le quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, non sono ammesse in deduzione. Nella categoria delle imposte per le quali è prevista la rivalsa rientra proprio l’IVA. Ed infatti, ai sensi dell’articolo 18, co. 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, il soggetto che effettua la cessione di beni o la prestazione di servizi imponibili deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente.
Ciò detto, il coordinamento sistematico tra l’art. 18 summenzionato e la regola della neutralità, portato a corollario, implica che di norma l’IVA è un’imposta non deducibile dalle imposte sui redditi.
A conclusioni diverse si perviene nel caso di compimento promiscuo di operazioni imponibili ed esenti, in cui il legislatore fissa un criterio di determinazione della percentuale di iva di cui è ammessa la detrazione, con la conseguenza che la percentuale non detraibile rappresenta pur sempre un costo collegato al compimento di operazioni che producono un ricavo (v. Cass. n. 11514 del 2001; Cass. n. 22243 del 2009, nonché Cass. n. 20435 del 2021, secondo cui ‘L’IVA indetraibile per effetto del “pro rata” generale di cui all’art. 19, comma 5, del d.P.R. n. 633 del 1972 è deducibile per cassa nell’anno del pagamento quale componente negativo del reddito di impresa ‘ ; in tema, da ultimo, v. Cass. n. 13573 del 2025).
In definitiva, secondo il meccanismo ‘normale’ dell’imposta, l’iva non è un costo per l’impresa e, quindi, non vi sono problemi di deducibilità dal reddito.
Nel caso in esame, tuttavia, il meccanismo ‘normale’ dell’imposta è stato alterato giustappunto dalla contribuente, che ha determinato l’indetraibilità dell’iva, conclamata dall’accordo raggiunto col Fisco.
L’imposta divenuta indetraibile perché afferente a operazioni soggettivamente inesistenti del carattere fraudolento delle quali la contribuente era consapevole non è suscettibile di dar luogo a un componente reddituale fiscalmente rilevante, non essendo l’onere in parola strettamente rappresentativo di un fattore produttivo dell’attività del contribuente medesimo.
Anzi, al contrario, ne esce rafforzata la valutazione di indeducibilità. La peculiarità che contrassegna il caso di specie è evidente. L’IVA non è detraibile giusta gli accertamenti definiti con adesione. Nello specifico, l’indetraibilità dell’imposta si è consolidata in quanto ad individuarla come debito e a pagarla mediante il meccanismo della compensazione è stata la stessa contribuente. Fisiologicamente se l’importo dell’IVA è stato ex latere debitoris riconosciuto come definitivamente- dovuto e coerentemente saldato, il suo successivo recupero non rientra nel novero delle facoltà del contribuente ex art. 99 TUIR.
In virtù degli accertamenti con adesione, invero, ad essere certificata è la indetraibilità dell’IVA e, quindi, la conseguenza che il relativo peso economico deve essere sopportato dal soggetto che consapevolmente ha utilizzato fatture inerenti a operazioni soggettivamente inesistenti.
Pertanto, la deducibilità di un tale onere diviene avulso ed eccentrico rispetto alla dinamica dell’operazione e alla sua definitiva regolazione. In definitiva, è la contribuente ad aver creato l’indetraibilità, perdipiù nel caso in esame assumendo l’obbligo di assolvere il relativo debito e provvedendovi con gli atti di accertamento con adesione indicati in narrativa, che hanno consacrato definitivamente l’assetto del rapporto d’imposta col
fisco. È quindi corretto, come la stessa contribuente assume in ricorso, che l’art. 99 t.u.i.r. disciplina una questione di fatto e di diritto differente rispetto a quella dedotta in giudizio (vedi ricorso, pag. 12, primo capoverso); ma non è corretto assumere che nel caso in esame l’eccezione al principio di ‘neutralità IVA’ comporterebbe la trasformazione dell’IVA indetraibile assolta in costo di esercizio. La deroga al principio di neutralità è stata determinata difatti, si ribadisce, dalla condotta della contribuente, che ha consapevolmente utilizzato fatture inerenti a operazioni soggettivamente inesistenti (Corte giust., causa C-332/15, cit., punto 58) ; e la contribuente se n’è assunto definitivamente il peso economico con gli atti di accertamento con adesione. E comunque l’IVA sèguita anche in questo caso a non rispondere alla nozione di costo, secondo l’accezione che dinanzi se n’è fornita.
Del tutto irrilevante è poi il richiamo all’art. 14, comma 4 bis, l. 537/93, che si riferisce ai costi e alle spese dei beni o delle prestazioni di servizio, non già all’IVA indebitamente detratta, che non muta natura in ragione dell’indetraibilità.
Da quanto osservato, in punto di indeducibilità dell’IVA indetraibile, discende l’assorbimento del secondo motivo di ricorso, volto a far constare l’omessa pronuncia in merito alla possibilità di considerare l’Iva versata all’Erario e non recuperabile nei confronti delle società cooperative, un credito esigibile atto a generare una sopravvenienza passiva legittima, giustificata e pertanto deducibile. L’affermata indeducibilità tronca alla radice la rilevanza, tanto della doglianza, quanto della correlata indagine.
Il ricorso va, pertanto, rigettato. Le spese sono regolate dalla soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità,
che liquida in euro 7.900,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 29/04/2025.
La Presidente COGNOME–NOME COGNOME