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IVA e operazioni inesistenti: onere della prova

Una società si è vista negare la detrazione IVA per fatture relative a operazioni soggettivamente inesistenti. I giudici di merito le avevano dato ragione, valorizzando la consegna della merce e i pagamenti tracciabili. La Corte di Cassazione ha annullato tale decisione, stabilendo che il giudice deve prima valutare tutti gli indizi di frode forniti dall’Agenzia delle Entrate e solo dopo considerare la prova contraria dell’impresa. Elementi formali come il pagamento non bastano a provare la buona fede se ci sono gravi indizi di una frode fiscale.

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Pubblicato il 3 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

IVA e Operazioni Inesistenti: L’Onere della Prova per l’Impresa

L’acquisto di beni da un fornitore che si rivela essere una società fittizia può avere conseguenze fiscali devastanti per un’impresa in buona fede. La questione centrale riguarda la detraibilità dell’IVA assolta su fatture relative a operazioni inesistenti dal punto di vista soggettivo. Con l’ordinanza n. 5345 del 2024, la Corte di Cassazione ribadisce i principi cardine sull’onere della prova, chiarendo che la semplice apparenza di regolarità formale non è sufficiente a salvare l’imprenditore da contestazioni, se sono presenti gravi indizi di frode.

I Fatti di Causa: una Fornitura Sospetta

Il caso nasce da un avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate a una società agricola, con cui veniva contestata l’indebita detrazione dell’IVA per l’anno d’imposta 2007. L’accertamento riguardava tre fatture emesse da un fornitore per la cessione di mosto d’uva. Secondo l’Amministrazione Finanziaria, tali operazioni erano soggettivamente inesistenti, in quanto il fornitore era in realtà un mero soggetto interposto, una cosiddetta “società cartiera”, che non aveva una reale struttura aziendale e operava all’interno di un meccanismo fraudolento.

Nonostante le prove portate dall’Agenzia (tra cui dichiarazioni di autisti che non conoscevano il fornitore, assenza di personale e beni strumentali, incongruenze nei documenti di trasporto), sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale avevano dato ragione alla società contribuente. I giudici di merito avevano ritenuto sufficienti, a dimostrazione della buona fede, elementi come l’effettiva consegna della merce, l’uso di strumenti di pagamento tracciabili e la congruità del prezzo pagato rispetto a quello di mercato.

L’Onere della Prova in caso di Operazioni Inesistenti

La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ha ribaltato la prospettiva. In materia di operazioni inesistenti, la giurisprudenza consolidata stabilisce una precisa ripartizione dell’onere probatorio.

In primo luogo, spetta all’Amministrazione Finanziaria dimostrare, anche tramite presunzioni semplici (purché gravi, precise e concordanti), non solo la natura fittizia del fornitore, ma anche la consapevolezza o la colpevole negligenza dell’acquirente. Quest’ultimo, infatti, ha l’obbligo di adottare l’ordinaria diligenza richiesta a un operatore professionale per evitare di essere coinvolto in una frode fiscale.

In secondo luogo, solo se l’Amministrazione ha fornito un quadro indiziario solido, l’onere si sposta sul contribuente. A quel punto, egli deve fornire la prova contraria, dimostrando di aver agito con la massima diligenza e di non essere stato in grado, nonostante ciò, di riconoscere la frode.

L’Errore del Giudice di Merito secondo la Cassazione

La Suprema Corte ha censurato la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per non aver seguito questo iter logico-giuridico. I giudici di secondo grado si erano limitati a valorizzare gli elementi formali portati dalla società (pagamento, consegna, prezzo), senza però prendere minimamente in considerazione il robusto castello di indizi presentato dall’Agenzia delle Entrate.

Secondo la Cassazione, il giudice tributario ha il dovere di esaminare in primo luogo tutti gli elementi presuntivi offerti dal Fisco, valutandoli singolarmente e nel loro complesso. Solo dopo aver concluso che tali indizi sono gravi, precisi e concordanti, può passare a esaminare la prova contraria offerta dal contribuente.

Le Motivazioni della Decisione

Nelle motivazioni, la Corte chiarisce che elementi quali le visure camerali, i pagamenti con bonifico o la congruità del prezzo non possono, da soli, costituire una prova decisiva della buona fede. Essi, infatti, non sono logicamente sufficienti a scardinare un compendio probatorio che suggerisce un coinvolgimento, anche solo per negligenza, in un’operazione fraudolenta. L’imprenditore accorto, di fronte a segnali di anomalia (come l’operare con un fornitore occasionale e privo di struttura per acquisti ingenti in un settore a rischio), è tenuto a un grado di diligenza superiore.

La decisione impugnata è stata quindi cassata perché il giudice di merito, non considerando affatto gli indizi portati dall’Agenzia, ha violato le regole sulla ripartizione dell’onere della prova. Non ha effettuato quella valutazione critica e complessiva degli elementi che è preliminare e indispensabile per un corretto giudizio.

Le Conclusioni

La Corte di Cassazione ha rinviato la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado in diversa composizione, che dovrà riesaminare il caso attenendosi ai principi espressi. Le implicazioni pratiche di questa ordinanza sono significative. Viene ribadito con forza che la lotta alle frodi IVA richiede un approccio sostanziale e non meramente formale. Le imprese sono chiamate a esercitare una vigilanza attiva e una diligenza qualificata nella scelta dei propri partner commerciali. Ignorare i “campanelli d’allarme” e affidarsi unicamente alla regolarità formale delle transazioni espone al concreto rischio di vedersi contestare la detrazione dell’IVA, con gravi conseguenze economiche e legali.

In caso di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, chi deve provare la frode?
L’onere della prova spetta all’Amministrazione Finanziaria, la quale deve dimostrare sia la natura fittizia del fornitore (che è una società “cartiera”), sia la consapevolezza o la colpevole ignoranza dell’acquirente riguardo alla frode. Questa prova può essere fornita anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti.

Il pagamento tracciabile e la consegna della merce sono sufficienti a dimostrare la buona fede dell’acquirente?
No. Secondo la Corte di Cassazione, elementi formali come i pagamenti tracciabili (bonifici, assegni) o l’effettiva consegna della merce non sono di per sé sufficienti a dimostrare la buona fede, specialmente in presenza di un quadro indiziario di segno contrario fornito dall’Amministrazione Finanziaria. Essi devono essere valutati insieme a tutti gli altri elementi del caso.

Cosa deve fare un giudice quando l’Agenzia delle Entrate presenta indizi di una frode?
Il giudice tributario deve, in primo luogo, sottoporre a un vaglio critico, sia singolarmente che nel loro complesso, tutti gli elementi presuntivi offerti dal Fisco. Soltanto se ritiene che tali indizi siano gravi, precisi e concordanti, potrà passare, in un secondo momento, a valutare la prova contraria eventualmente fornita dal contribuente per dimostrare la sua buona fede e la sua diligenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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