Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 18254 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 18254 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/07/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 10787/2024 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende ex lege
-ricorrente-
contro
COGNOME rappresentato e difeso da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE -domicilio digitale PEC EMAIL
avverso la SENTENZA di CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA II GRADO LOMBARDIA n. 802/2024 depositata il 15/03/2024.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Uditi difensori delle parti che hanno concluso come da rispettivi atti. Sentito il P.G. il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
L’ Agenzia delle entrate ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 802/17/2024, emessa dalla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia in data 15 marzo 2024 che, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, limitatamente alla pronuncia sulle spese di lite, confermando la sentenza appellata nel resto, conseguentemente ritenendo dovuta dal contribuente NOME COGNOME l’impos ta di successione nella misura di euro 1.545.780,00 relativa alla eredità della signora NOME COGNOME.
1.2. Per quello che rileva in questa sede, i giudici di appello ritenevano che il contribuente avesse offerto la prova contraria richiesta dall’art. 9, comma 2, d.lgs. 346/1990, superando la presunzione legale ivi prevista in punto di liquidazione del valore dei beni mobili della de cuius, ritenendo che era stato correttamente redatto l’inventario in combinato disposto con l’art. 769 ss. c.p.c. e con l’art. 192 disp. att. c.p.c.
Il contribuente NOME COGNOME resiste con controricorso e successiva memoria.
Il P.G. ha depositato conclusioni scritte.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con un unico motivo l’ufficio lamenta, ai sensi dell’art. 360, primo comma n.3. c.p.c., erronea interpretazione e applicazione dell’art. 9,
comma 2, d.lgs. 346/1990, in combinato disposto con gli artt. 769 ss. c.p.c. e con l’art. 192 disp. att. c.p.c.
Rileva che i giudici di appello erano incorsi in un primo error in iudicando ritenendo che, ai fini tributari, la previsione di cui all’art. art. 775 c.p.c. -la quale indica il contenuto del processo verbale di inventario, da ritenersi imprescindibile, senza che rilevi la finalità per cui l’inventario viene svolto – sostanzialmente non dovesse trovare applicazione nella sua completezza, non essendo necessario che il verbale recasse tutti gli elementi ivi previsti e, in particolare, che non fossero di alcuna utilità i requisiti di cui ai nn. 4) e 5) dello stesso riguardanti :’ n. 4) l’indicazione delle altre attività e passività; n. 5) la descrizione delle carte, scritture e note relative allo stato attivo e passivo, le quali debbono essere firmate in principio e in fine dall’ufficiale procedente. Lo stesso ufficiale deve accertare sommariamente lo stato dei libri e dei registri di commercio, firmarne i fogli, e lineare gli intervalli. ‘..
Deduce che, proprio in considerazione del formalismo che contraddistingue la materia de qua , tale tesi non appariva condivisibile in quanto finiva per operare una interpretazione contra legem , travalicando il dato testuale e la ratio della previsione di cui all’art. 9 cit., che rinvia, senza alcuna eccezione e senza richiedere alcun adattamento, alle disposizioni del codice di procedura civile, fra cui rientra anche il citato art. 775 c.p.c.
Osserva che poiché non costituiva oggetto di contestazione che, nel caso di specie, il verbale di inventario non era conforme al modello legale, conseguentemente, lo stesso non poteva essere ritenuto idoneo a costituire la prova contraria richiesta dall’ar t. 9, comma 2, d.lgs. 346/1990.
Assume, altresì, che la decisione di secondo grado era incorsa nella erronea interpretazione e applicazione dell’art. 192 disp. att. c.p.c., ritenendo il verbale d’inventario idoneo a comprovare l’inesistenza di altri beni mobili presso gli ulteriori immobili di proprietà della de
cuius , in quanto gli stessi sarebbero stati oggetto di locazione o comodato a terzi, senza che vi fosse prova che ivi fossero collocati detti beni e, anzi, essendovi prova in senso contrario per come offerta dal contribuente omettendo di considerare che, in ossequio al formalismo che connota la procedura di compilazione dell’inventario ai sensi degli artt. 769 ss. c.p.c., si deve, in primo luogo, ritenere che alcun requisito ivi indicato possa essere surrogato in forza di elementi di segno diverso mentre ai sensi del richiamato art. 192 disp. att. c.p.c.: ‘L’ufficiale che procede all’inventario deve, prima di chiuderlo, interrogare coloro che avevano la custodia dei mobili o abitavano la casa in cui questi erano posti, se siano a conoscenza che esistano altri oggetti da comprendere nell’inventario’. Rileva che il giudice di secondo grado aveva escluso che tale previsione trovasse applicazione nel caso di specie, in quanto non vi sarebbe prova -come detto -che alcuni beni mobili di proprietà del de cuius si trovassero negli immobili, sempre di sua proprietà, ma affidati alla detenzione di soggetti terzi (in forza di contratti di locazione o comodato). Osserva che al fine di garantire una ricostruzione il più possibile verosimile del patrimonio mobiliare del de cuius , occorra necessariamente verificare l’esistenza di beni mobili allo stesso riferibili presso tutti gli immobili dello stesso, senza che assuma rilievo, a tal fine, la circostanza che alcuni di questi siano stati oggetto di locazione o comodato a terzi, non potendosi escludere, a priori, che in tali contratti sia comunque ricompreso, ad esempio, il mobilio. Tale accertamento deve, chiaramente, essere svolto dal pubblico ufficiale che redige l’inventario e non è suscettibile di essere surrogato da eventuali prove dedotte in un secondo momento dal contribuente in sede giurisdizionale.
Il ricorso deve essere respinto per le ragioni appresso specificate.
La norma che viene in rilievo nella fattispecie in esame è l’art. 9, comma 2, d.lgs. 346/1990 che così dispone: ‘si considerano compresi nell’attivo ereditario denaro, gioielli e mobilia per un
importo pari al dieci per cento del valore globale netto imponibile dell’asse ereditario anche se non dichiarati o dichiarati per un importo minore, salvo che da inventario analitico redatto a norma degli articoli 769 e seguenti del codice di procedura civile non ne risulti l’esistenza per un importo diverso.’
Osserva il Collegio che i giudici di appello, oltre a precisare che il testo dell’art. 9 d.lgs. 346/1990 non fa alcun riferimento alla necessità che l’inventario sia preceduto da un’accettazione dell’eredità con beneficio d’inventario, hanno rilevato ch e:
-nel redigere l’inventario era da escludere che fosse richiesto l’inserimento di beni diversi da denaro, mobilia o gioielli, ‘e comunque l’inserimento di passività, partecipazioni societarie e crediti, tenuto conto che, avendo essi natura astratta, non potevano certo afferire ad una presunzione avente palesemente ad oggetto beni materiali/corporali di natura mobiliare’;
-l’inventario risultava correttamente redatto posto che andava escluso pacificamente, nella specie, che i detentori a titolo di locazione o comodato di immobili della de cuius fossero custodi di specifici beni mobili (essendolo semmai degli immobili) e che avendo il ricorrente ‘ampiamente provato in primo grado’ che in detti immobili – siti in Torino, Bologna e Milano – non era comunque allocata alcuna mobilia appartenente alla defunta, nessun obbligo sussisteva a carico del notaio di accedere presso immobili per interrogare sull’eventuale esistenza di altri beni mobili da includere nell’inventario chi non risultava né essere custode di beni mobili della defunta, né abitante in case in cui fosse stata allocata mobilia di quest’ultima.
Deve, in primo luogo, rilevarsi che dalla disamina del motivo è evidente che l’ufficio sebbene appare denunciare l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalla norma di legge richiamata, nel prospettare che il verbale di inventario non sarebbe stata conforme
al modello legale, finisce per allegare, in prevalenza, un’erronea ricognizione, da parte del giudice a quo , della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, operazione che non attiene all’esatta interpretazione della norma di legge, inerendo, bensì, alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l’aspetto del vizio di motivazione (cfr., ex plurimis , Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica di parte ricorrente, l’eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell’erronea sussunzione giuridica di un fatto in sé incontroverso, insistendo propriamente nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice di appello. Risulta, dunque, chiaro che nel caso di specie, al di là del formale richiamo, contenuto nell’epigrafe del motivo d’impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l’ ubi consistam delle censure sollevate dalle ricorrenti deve, piuttosto, individuarsi nella negata congruità dell’interpretazione fornita dai giudici territoriali del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti, dei fatti di causa o delle circostanze ritenute rilevanti. Si tratta, come appare manifesto, di un’argomentazione critica con evidenza diretta a censurare una erronea ricognizione della fattispecie concreta necessariamente mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa e, pertanto, di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione.
Invero l’Agenzia delle Entrate, nel lamentare che il giudice di secondo grado non avrebbe considerato una serie di elementi idonei a comprovare l’incompletezza del verbale di inventario – come, tra gli altri, il contenuto dei contratti di locazione e comodato, la dichiarazione resa dall’erede/esecutore nel verbale notarile – sotto l’apparente deduzione di una violazione di legge sollecita un apprezzamento di merito del tutto precluso in questa sede: accertare
in che modo sia stato predisposto l’inventario del Not. Ferro; interpretare il contenuto dello stesso e le dichiarazioni ivi contenute; valutare la sussistenza di altri beni mobili rispetto a quelli inventariati.
Per altro verso va osservato che non coglie nel segno la tesi dell’ufficio secondo cui i giudici di appello sarebbero incorsi un error in iudicando ritenendo che, ai fini tributari, la previsione di cui all’art. art. 775 c.p.c. -la quale indica il contenuto del processo verbale di inventario, da ritenersi imprescindibile, senza che rilevi la finalità per cui l’inventario viene svolto – non dovesse trovare applicazione ‘nella sua completezza, non essendo necessario che il verbale recasse tutti gli elementi ivi previsti e, in particolare, che non fossero di alcuna utilità i requisiti di cui ai nn. 4) e 5) assumendo che i giudici delle CGT-2 avevano finito per operare una interpretazione contra legem , travalicando il dato testuale e la ratio della previsione di cui all’art. 9 cit., che rinvia, senza alcuna eccezione e senza richiedere alcun adattamento, alle disposizioni del codice di procedura civile, fra cui rientra anche il citato art. 775 c.p.c.
7.1. Orbene come rilevato da Cass. n. 22181/2020: ‘È stato già affermato che la disposizione in esame costituisce una norma speciale perché riferita a specifici beni, e che la norma è stata dettata solo con riguardo a questi ultimi in quanto, in ragione della connaturata facilità di occultamento degli stessi (vedi Cass. n. 8345 del 2006 e n. 12935 del 2013), in assenza di inventario se ne presume l’esistenza e la consistenza, in termini d’incremento dell’imponibile in misura fissa. Non è un caso che per tali beni, operando la presunzione anche in assenza di dichiarazione, a differenza che per le altre componenti del compendio, non sono previsti dei criteri per la determinazione della relativa base imponibile, avendo il legislatore ritenuto sufficiente l’inclusione nella presunzione. Ebbene tale esigenza non è certamente configurabile rispetto alle quote di un Fondo di investimento mobiliare, che al pari
di azioni, obbligazioni e altre forme di partecipazione azionaria, risultano al contrario agevolmente tracciabili, e quindi non si caratterizzano per quella naturale occultabilità che giustifica l’applicazione della presunzione. Tanto è confermato dal fatto che per esse, come per le azioni, obbligazioni ed altri titoli e quote sociali comprese nell’attivo ereditario, sono previsti dall’art. 16, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 346 del 1990 dei precisi criteri per determinarne il valore ai fini della determinazione della base imponibile, criteri che sarebbero inutiliter data se per tali quote fosse sufficiente applicare la presunzione, anche se non dichiarate’.
7.1. Muovendo da detti principi deve ritenersi che l’inosservanza della disposizione in questione non può discendere, tout court, dalla omessa indicazione di: ‘passività’, ‘partecipazioni societarie’ e ‘crediti’ caduti in successione.
Posto che l’obbligo di inventario ex art. 9, comma 2, TUS assume la finalità di fissare un sistema probatorio speciale per la ricostruzione della consistenza di gioielli, denaro e mobilia, sulla base della regola di esperienza che si tratta di beni, di norma, presenti nel patrimonio di chiunque, che possono rinvenirsi nei locali nella disponibilità del defunto la disposizione normativa in esame, la previsione della redazione dell’inventario nel rispetto delle formalità di cui all’art. 769 c.c. va letta rispetto alla possibilità di dare prova contraria rispetto alla consistenza di denaro, mobilia e gioielli nell’asse ereditario in misura diversa rispetto alla percentuale del 10%, sicchè non può ritenersi sussistente uno specifico onere di inventariare, ai fini che occupano, ‘passività, partecipazioni societarie e crediti’ trattandosi di beni immateriali del tutto differenti da ‘gioielli, mobilia e denaro’. Correttamente i giudici di appello hanno rilevato che trattasi di beni che hanno ‘natura astratta’, non potendo quindi ragionevolmente ‘afferire ad una presunzione avente palesemente ad oggetto beni materiali/corporali di natura mobiliare’.
Appare, dunque, condivisibile la tesi di parte controricorrente secondo cui il rinvio disposto dall’art. 9, comma 2, TUS è da intendersi come esclusivamente rivolto alle regole di ordine formale e procedimentale del codice di procedura civile che sovraintendono alla formazione del verbale d’inventario ma per quanto at tiene lo specifico contenuto dell’inventario occorre avere riguardo alle finalità di tipo fiscale. Né del resto appare indefettibile una analitica ricerca degli stessi (pena la presunzione del 10%) nei locali di cui il de cuius aveva la disponibilità atteso che partecipazioni e diritti di credito vanno integralmente elencati nella denuncia di successione.
7.2. Ragioni di ordine logico-sistematico inducono, quindi, a ritenere non sostenibile la tesi formalistica propugnata dall’ufficio sia in relazione alla necessaria elencazione dei suindicati beni sia con riferimento alla necessaria indicazione di cui al n . 5) (‘ descrizione delle carte, scritture e note relative allo stato attivo e passivo, le quali debbono essere firmate in principio e in fine dall’ufficiale procedente. Lo stesso ufficiale deve accertare sommariamente lo stato dei libri e dei registri di commercio, firmarne i fogli, e lineare gli intervalli )’, trattandosi di aspetti del tutto estranei ai beni: ‘gioielli, mobilia e denaro’ rispetto ai quali vige la citata presunzione.
8. In questa sede deve allora essere affermato il seguente principio di diritto: «L’obbligo di inventario ex art. 9, comma 2, TUS assume la finalità di fissare un sistema probatorio speciale per la ricostruzione della consistenza di gioielli, denaro e mobilia. La previsione della redazione dell’inventario nel rispetto delle formalità di cui all’art. 769 c.c., conseguentemente, va letta non in modo eccessivamente formalistico ma in relazione alla possibilità di dare prova contraria relativamente alla consistenza di denaro, mobilia e gioielli nell’asse ereditario in misura diversa rispetto alla percentuale del 10%, sicchè non può ritenersi sussistente uno specifico onere di inventariare ‘passività, partecipazioni societarie e crediti’ e di
specificare quanto indicato al n. 5) del menzionato art. 769 c.c. (‘ descrizione delle carte, scritture e note relative allo stato attivo e passivo )’, trattandosi di beni del tutto differenti da ‘gioielli, mobilia e denaro’».
Al contempo, come osservato dal P.G. nelle proprie conclusioni scritte, la sentenza appare corretta nella parte in cui ha escluso la dedotta violazione dell’art. 9 cit. in relazione all’art. 192 disp. att. cod. proc. civ., per il mancato accesso del notaio presso gli immobili locali o concessi in comodato dalla de cuius , avendo i giudici di merito accertato, nella riscontrata insussistenza di elementi di segno, che in detti immobili – siti in Torino, Bologna e Milano -‘non era comunque allocata alcuna m obilia appartenente alla defunta’.
In conclusione l’odierno ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità liquidate in euro 7.500,00 oltre ad euro 200,00 per esborsi ed oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% ed altri accessori di legge.
Così deciso nella camera di consiglio della sezione tributaria, in data