Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 32249 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 32249 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 13/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 5825/2017 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che l a rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della LOMBARDIA n. 7154/2016 depositata il 20/12/2016. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 07/11/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
1. In punto di fatto, dalla sentenza epigrafata emerge quanto segue:
La società era stata sottoposta, per l’anno d’imposta 2007, ad una verifica fiscale . Sulla scorta del PV veniva emesso avviso di accertamento con il quale si determinava un maggior reddito d’impresa di € 108.497,00, una maggiore IVA dovuta di € 88.673,00. Conseguentemente, considerato che il Sig. NOME NOME detiene una quota di partecipazione del 100%, l’Ufficio con avviso di accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO, ai sensi dell’art. 5 D.P.R. 600/73, rettificava il reddito di partecipazione dichiarato in € 66.357 determinandolo in € 174.854,00.
Avverso tali atti impositivi, la società e il socio proponevano distinti ricorsi .
Con sentenza n. 272/24/2013, depositata il 27 giugno 2013, la CTP respingeva i ricorsi riuniti condannando le controparti al pagamento delle spese processuali nella misura di € 2.000,00.
Avverso detta sentenza sia società che socio proponevano appello Innanzi alla CTR, la quale, con sentenza n. 4976/14/2014 depositata in data 25.09.2014, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva il ricorso limitatamente alla ripresa per € 875,00 più IVA alla fattura n. 6 del 20.12.2007, per € 633,64 alla fattura n. 213.2007, € 583.33 di cui alla fattura n. 1.2007, € 65.070,66 di cui alle fatture RAGIONE_SOCIALE Accoglieva, inoltre il ricorso relativamente alla misura delle sanzioni, stabilendole nella misura del 3%.
Sulla scorta di tale sentenza ed in ottemperanza alla medesima l’Agenzia delle Entrate provvedeva ad emettere conseguente intimazione di pagamento n. T951PRN000191/2014, riliquidando gli importi .
Più precisamente a fronte di importi determinati con l’avviso di accertamento pari a € 88.673 per IVA, € 4.611 per IRAP e € 1333.009
per sanzioni come risultanti dal cumulo giuridico effettuato prendendo a base le due sanzioni IVA di € 88.673, ex art. 5 D.Lgs 471/97 ed € 88.673 ex art 6 D.lgs 471/97’Ufficio liquidava la sentenza della CTR nel seguente modo: € 88.546 per IVA, € 2.691 per IRAP e € 96.676 per sanzioni risultanti dal cumulo materiale di € 88.546 ex art 5 D.Lgs 471/97 e di € 2.656,38 ex art. 6 D.Lgs 471/97.
L’intimazione era stata emessa fino a concorrenza degli importi innanzi indicati, al netto di quanto già intimato della sentenza di primo grado.
La società RAGIONE_SOCIALE e il socio unico NOME Giovanni proponevano ricorso avverso detta intimazione di pagamento ritenendo errata la liquidazione effettuata dall’Ufficio.
Più precisamente lamentavano una richiesta di IRAP superiore al dovuto di € 383,00 ed una determinazione della sanzione superiore a quanto stabilito dalla CTR.
La Commissione Tributaria Provinciale di Milano con sentenza n. 4521/29/15 depositata il 18.05.2015 respingeva i ricorsi riuniti.
Le parti appellano la suddetta sentenza 2. in via subordinata nella denegata ipotesi dovesse venire accolta la tesi dell’Ufficio in merito alla ripresa dell’IVA in riferimento al meccanismo del reverse charge applicare la sanzione del 3% e non quella del 100% come effettuato dall’Ufficio.
L’Ufficio costituitosi in giudizio chiede la conferma della legittimità del proprio operato in quanto dal tenore letterale della motivazione a cui si fa riferimento è la sola sanzione relativa all’applicazione del reverse change ad essere ridotta al 3%, più precisamente la sanzione di cui all’art. 6 D.Lgs. 471/97. Rimasta inalterata, invece, la sanzione dì cui all’art. 5 del D.lgs. 471/97.
2. La CTR della Lombardia, con la sentenza epigrafata, accoglieva l’appello, sulla base della seguente motivazione:
Da un attento esame della sentenza 4976/2014 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano, divenuta definitiva, si legge “accoglie il ricorso relativamente alla misura delle sanzioni, che si stabiliscono nel 3%”. Ne consegue che, per quanto sopra, dietro le ben precise le indicazioni relative alle sanzioni, conseguentemente, l’Ufficio
avrebbe dovuto attenersi tali chiare prescrizioni applicando solamente le sanzioni del 3% senza applicarne altre in quanto indicato nella sentenza divenuta definitiva.
Si ritiene che esistno validi motivi per la compensazione delle spese .
Propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate con un motivo. La contribuente resiste con controricorso, ulteriormente illustrato mediante memoria ex art. 380-bis cod. proc. civ. addì 22 settembre 2024.
Considerato che:
Con l’unico motivo di ricorso: ‘ Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. in relazione al motivo di cui all’art. 360, c. I. n. 4 c.p.c.’.
1.1. ‘ a CTR ha ritenuto che il giudicato formatosi sulla sentenza della CTR n. 4976/2014 imponesse all’Amministrazione di ridurre al 3% l’aliquota relativa all’applicazione di tutte le sanzioni irrogate con l’avviso di accertamento oggetto dell’originario giudizio e non soltanto quella di cui all’art. 6 D.Lgs. 471/97, concernente la ripresa relativa al ‘reverse charge’. Ciò ha ritenuto analizzando esclusivamente il dispositivo della pronuncia, senza analizzare né la motivazione della sentenza, dalla quale emergeva con chiarezza a quali sanzioni si riferiva la riduzione al 3%, né, tantomeno, i motivi di ricorso della controparte . l Giudice d’appello ha palesemente errato nell’individuare la ‘regula iuris’ nascente dal giudicato, avendo omesso di considerare la portata precettiva della motivazione che, nel caso di specie, chiaramente individuava nella sola sanzione prevista dall’art. 6, c. 9-bis, D.Lgs. 471/97 quella oggetto di riduzione . Letto il dispositivo unitamente alla motivazione, appare chiaro che la riduzione al 3% riguardava esclusivamente la sanzione relativa al meccanismo del ‘reverse charge’, anche tenuto
conto del fatto che, solo per tale sanzione era stato formulato, in via subordinata, il motivo di ricorso tendente alla riduzione della relativa aliquota dalla controparte, come emerge dalla lettura del ricorso in appello . Le altre condotte illecite sanzionate dall’Ufficio con l’avviso di liquidazione originario (il n. T950SB20S288/2012) riguardano le infrazioni previste dagli artt. 5 e 9 del D.Lgs. 471/97 che non prevedono alcuna sanzione con aliquota del 3%. Non può esservi dubbio, pertanto, che l’unica sanzione oggetto di riduzione da parte della CTR di Milano nella sentenza n. 4974/2014, fosse quella relativa all’art. 6. Orbene, il Giudice d’appello ha violato l’art. 2909 c.c. ‘.
1.2. Il motivo è fondato e merita accoglimento.
In base ai principi enunciati da questa Suprema Corte sull’interpretazione del giudicato e sul controllo che su di esso può esercitare il Giudice di legittimità, il giudicato viene assimilato agli elementi normativi, dovendosene trarre che la sua interpretazione debba essere effettuata ‘alla stregua dell’esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici, essendo sindacabili sotto il profilo della violazione di legge gli eventuali errori interpretativi’ (Cass., Sez. U., n. 24664 del 2017). Inoltre, l’interpretazione della portata del giudicato, sia esso interno od esterno, va effettuata alla stregua di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, potendo farsi riferimento, in funzione interpretativa, alla domanda della parte solo in via residuale qualora, all’esito dell’esame degli elementi dispositivi ed argomentativi di diretta emanazione giudiziale, persista un’obiettiva incertezza sul contenuto della statuizione (Cass., n. 21165 del 2019; n. 12572 del 2018; n. 24749 del 2014; n. 769 del 2014). Più specificamente, la portata del giudicato (in particolare) esterno (ma, per identità di ‘ratio’, anche interno) va definita dal giudice del merito anzitutto sulla base di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza ed eventualmente nella motivazione che la
sorregge, mentre il ricorso, in funzione interpretativa, alla domanda di parte si legittima residualmente, qualora cioè all’esito dell’esame degli elementi dispositivi ed argomentativi di diretta emanazione giudiziale persista un’obiettiva incertezza sul contenuto della statuizione (Cass., n. 24749 del 2014).
La superiore giurisprudenza, riguardante specificamente, il giudicato si compenetra con quella in tema di p ortata precettiva della sentenza. In termini analoghi, infatti, anche con riferimento a quest’ultima, che in effetti riempie di contenuto il giudicato, suole affermare che essa deve essere individuata tenendo conto del tenore letterale, non soltanto del dispositivo, ma altresì della motivazione, cosicché, in assenza di un evidente contrasto letterale tra dispositivo e motivazione, deve ritenersi prevalente la statuizione contenuta in una di tali parti del provvedimento, da interpretare in base all’unico precetto che, in realtà, esso contiene (Cass., n. 15088 2015; n. 15585 del 2007; n. 9244 del 2007).
Tale insegnamento, che riceve ampia testimonianza nell’ordinario giudizio di cognizione, è esportabile anche in ambiti processuali peculiari, pur sempre su di esso modellati: come quello lavoristico (Cass. n. 12841 del 2016), ma parimenti – v’è da aggiungere – tributario, che invero non disciplina autonomamente il ‘thema’ del giudicato e della portata precettiva della sentenza (valendo dunque il generale rinvio alle norme del Codice di procedura civile contenuto nell’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 546 del 1992).
Ora, con riferimento al caso di specie, la motivazione della sentenza (divenuta definitiva per mancata impugnazione) della CTR della Lombardia n. 4976/14 -in funzione della quale l’Agenzia delle entrate ha rimodulato le sanzioni originariamente previste dall’avviso di accertamento così (alla luce della riproduzione ‘in
parte qua’ contenuta nel ricorso a fini di autosufficienza; cfr. identicamente p. 3 controric.) recita:
Lamentano i ricorrenti il mancato riconoscimento dell’applicabilità del meccanismo del ‘reverse charge’. Sul punto il Collegio fa osservare che ai sensi dell’art. 17, c. 6, dpr 633/1972 il meccanismo del “reverse charge” si applica nei rapporti di subappalto quali non risultano essere quelli di cui trattasi, che invece sono regolati da un’ATI . Ne consegue che corretto è l’operato dell’Ufficio e non fondato il motivo di doglianza. Lamentano i ricorrenti l’errata applicazione delle sanzioni per la violazione del meccanismo ‘reverse charge’ nella misura del 100% invece della misura del 3%. Nella fattispecie nonè stato danno per l’erario e quindi il Collegio ritiene debba applicarsi la sanzione nella misura ridotta del 3%.
Intrinseche chiarezza ed esaustività di siffatta motivazione -che riassume la doglianza dei ricorrenti sulla ‘sanzioni per la violazione del meccanismo ‘reverse charge” e subito in appresso la accoglie tal quale, esplicitando ‘expressis verbis’ che deve ‘applicarsi la sanzione’, donde riferita alla sola ‘violazione del meccanismo ‘reverse charge’, ‘nella misura ridotta del 3%’ non sono revocabili in dubbio neppure alla luce della sentenza quivi impugnata: invero, identico riferimento alla ‘sanzione’, da applicarsi nella misura ridotta del 3% anziché in quella del 10%, per il caso in cui ‘dovesse venire accolta la tesi dell’Ufficio in merito alla ripresa dell’IVA in riferimento al meccanismo del reverse charge’, è contenuto anche nella parte della sentenza quivi impugnata dedicata alla svolgimento del processo laddove è riassunto il motivo di appello subordinato proposto dai contribuenti avverso la sentenza n. 4521/29/15 della CTP di Milano: motivo, come visto, accolto dalla sentenza n. 4976/14 nei pedissequi termini della sua formulazione.
La sentenza quivi impugnata -nel dare esclusivo rilievo al tenore strettamente letterale del dispositivo della sentenza n. 4976/14 onde stabilire il contenimento al 3% delle (ossia di tutte le) ‘sanzioni’ genericamente intese, siccome irrogate in avviso –
pertanto, non solo di quella ‘per la violazione del meccanismo ‘reverse charge”, ma anche di quelle di cui agli artt. 5 e 9 D.Lgs. n. 471 del 1997 -non ha prestato ossequio ai ricordati principi, omettendo di raccordare il dispositivo alla motivazione e di enucleare, in tal modo, l’unico effettivo contenuto precettivo rassegnato nella predetta sentenza n. 4976/14.
Né, in contrario, coglie nel segno la deduzione dei contribuenti, formulata a più riprese in controricorso e ribadita ancora in memoria, a tenore della quale la sentenza quivi impugnata non farebbe che confermare la sentenza n. 4976/14, che, a sua volta, prendendo atto della mancanza di un danno per l’erario, riconoscerebbe l’applicabilità della sola sanzione, al 3%, di cui all’art. 6, comma 9 -bis, D.Lgs. n. 471 del 1997, escluse per l’effetto le altre (cfr. in part. p. 4 controric., ove leggesi: ‘È chiaro il ragionamento della Commissione Tributaria Regionale: al caso di specie non può essere riconosciut l’applicazione del ‘reverse charge’ e, di conseguenza, il ricorso su questo punto specifico va respinto. Tuttavia, nella fattispecie, non vi è stato danno per l’erario (di conseguenza, se non vi è stato danno per l’erario non vi è IVA da versare e se non vi è IVA da versare, la dichiarazione IVA presentata per il periodo di imposta 2007 da RAGIONE_SOCIALE è corretta e non è infedele come ritenuto dall’Ufficio e, di conseguenza, nessuna sanzione per infedele dichiarazione può essere richiesta dall’Amministrazione’).
Siffatta deduzione mira a far dire alla sentenza n. 4976/14 ciò che essa -pacificamente, senza che i contribuenti, ancora in memoria, offrano dimostrazione del contrario -non dice: ovvero che le sanzioni ex artt. 5 e 9 D.Lgs. n. 471 del 1997 sarebbero poste nel nulla -perché escluse o ‘in limine’ assorbite o rese irrilevanti per effetto della mancanza di ‘danno per l’erario’ dalla conferma della sanzione ex art. 6, comma 9-bis, del medesimo testo, di per sé ridotta al 3%.
In nessun luogo della sentenza n. 4976/14, né in motivazione né in dispositivo, trovasi il benché minimo cenno a ritenuti esclusione od assorbimento od irrilevanza delle sanzioni ex artt. 5 e 9 D.Lgs. n. 471 del 1997, ciò che costituisce un puro e semplice argomento difensivo (oltretutto, come visto, ipotetico: ‘ se non vi è stato danno per l’erario non vi è IVA da versare ) introdotto dai contribuenti solo nel presente giudizio, ma in realtà giammai oggetto di valutazione e viepiù di decisione da parte della sentenza n. 4976/14.
A riprova di ciò, sovviene la considerazione che, nel passaggio motivazionale della sentenza n. 4976/14 in cui si fa riferimento alla mancanza di ‘danno per l’erario’ (‘Nella fattispecie nonè stato danno per l’erario e quindi il Collegio ritiene debba applicarsi la sanzione nella misura ridotta del 3%’), siffatta mancanza è addotta a presupposto della riduzione della ‘sanzione’ al 3% in condivisione di un’espressa doglianza circa ‘l’errata applicazione delle sanzioni per la violazione del meccanismo ‘reverse charge’ nella misura del 100% invece della misura del 3%’, le ulteriori e diverse sanzioni (ex artt. 5 e 9 D.Lgs. n. 471 del 1997) non essendo menzionate affatto.
In conclusione, la sentenza impugnata va cassata con rinvio, per nuovo esame e per le spese, ivi comprese quelle del presente grado di giudizio.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, per nuovo esame e per le spese.
Così deciso a Roma, lì 7 novembre 2024.