Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 939 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 939 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/01/2025
AVVISO ACCERTAMENTO IRPEF 2007-2008
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 7112/2017 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore protempore, domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ex lege ,
-ricorrente –
contro
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in calce al controricorso, -controricorrente – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio n. 5335/17/2016, depositata il 20 settembre 2016; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3 ottobre 2024 dal consigliere dott. NOME COGNOME
dato atto che il Pubblico Ministero ha concluso chiedendo l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con assorbimento del resto;
FATTI DI CAUSA
A seguito di verifica fiscale e di processo verbale di constatazione da parte della G.d.F., l’Agenzia delle Entrate Direzione provinciale I di Roma emetteva nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE avvisi di accertamento n. TK3036201052/2013 e n. TK3036201054/2013, con i quali accertava, ai sensi dell’art. 39, comma 2, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, maggiori redditi d’impresa per gli anni 2007 e 2008, con conseguente rideterminazione delle imposte IRES, IRAP ed IVA, ed applicazioni di sanzioni ed interessi.
Gli avvisi in questione venivano notificato a NOME COGNOME ritenuto amministratore di fatto della società medesima.
Successivamente , l’Agenzia delle Entrate notificava a NOMECOGNOME come persona fisica, gli avvisi di accertamento n. TK3018201731/2013 (per l’anno 2007) e n. TK3018201732/2013 (per l’anno 2008), per mezzo dei quali, in forza dell’art. 37, comma 3, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (interposizione soggettiva), imputava al predetto contribuente, in qualità di reale percettore, i redditi accertati nei confronti della società (€ 35.050,00 per il 2007 ed € 1.247.003,00 per il 2008).
Avverso tali avvisi di accertamento NOME NOME proponeva separati ricorsi dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, eccependo la carenza della qualità di amministratore di fatto (come già riconosciuta da altra sentenza della C.T.P. per altra annualità -la n. 191/01/2013
depositata il 26 marzo 2013 – passata in giudicato) e l’inapplicabilità dell’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973 .
Con sentenza n. 14646/48/2015, depositata il 1° luglio 2015, la C.T.P. di Roma, riuniti i ricorsi, li accoglieva, ritenendo che, in base alla sentenza n. 191/01/2013 della stessa Commissione, passata in giudicato e relativa all’anno d’imposta 2006, il Leone non potesse essere considerato amministratore di fatto della società RAGIONE_SOCIALE
Interposto gravame dall’Agenzia delle Entrate , la Commissione Tributaria Regionale del Lazio, con sentenza n. 5335/17/2016, pronunciata il 13 luglio 2016 e depositata in segreteria il 20 settembre 2016, rigettava l’appello, confermando la sentenza di primo grado e condannando l’Ufficio alla rifusione delle spese di lite.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate , sulla base di due motivi (ricorso notificato il 23 febbraio 2017).
NOME resiste con controricorso, e con successiva memoria.
Con decreto presidenziale del 6 giugno 2024 è stata fissata per la trattazione e discussione l’udienza pubblica del 3 ottobre 2024.
Il controricorrente ha depositato memoria.
Alla suddetta udienza pubblica sono comparsi i procuratori delle parti che hanno concluso come da verbale in atti.
Il Pubblico Ministero ha concluso chiedendo l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il resto.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso in esame, come si è detto, è affidato a due motivi.
1.1. Con il primo motivo di ricorso, l’ Agenzia delle Entrate eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., nonché dell’art. 324 c.p.c. e dell’art. 62 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 4), c.p.c.
Deduce, in particolare, l’Ufficio che, pur essendo stata esclusa la qualità di amministratore di fatto del Leone per l’anno 2006 (sulla base della sentenza della C.T.P. di Roma n. 191/01/2013, passata in giudicato), non potevano essere invocate, sulla stessa qualifica, le sentenze nn. 5694/14/2015 e 5695/14/2015 della C.T.R. di Roma, depositate il 29 ottobre 2015, che non erano passate in giudicato, né le sentenze n. 5696/14/2015 e 5697/14/2015, depositate in pari data, che avevano rigettato gli appelli proposti dall’Ufficio, e quindi limitandosi a confermare la legittimità degli avvisi di accertamento nei confronti della società.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso si eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 37, comma 3, del d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Deduce l’Ufficio che erroneamente la C.T.R. aveva ritenuto inapplicabile l’art. 37, comma 3, cit., nell’ipotesi di interposizione reale, in quanto tale norma, con riferimento alla nozione di ‘possessore’ del reddito, si riferisce tanto ai casi di interposizione fittizia, quanto ai casi di interposizione reale di persona.
Così delineati i motivi di ricorso, osserva la Corte quanto segue.
2.1. Il primo motivo è fondato.
Nella fattispecie in esame, invero, non può prospettarsi un giudicato opponibile a NOME, inteso come persona fisica.
Le sentenze richiamate dalla C.T.R. riguardano, infatti, gli avvisi di accertamento nei confronti della società, ed i relativi giudizi riguardano la validità di tali accertamenti, e non direttamente la qualità di amministratore di fatto di NOMECOGNOME
Più in particolare, la sentenza n. 191/01/2013, depositata il 26 marzo 2013, della C.T.P. di Roma, passata in giudicato, riguarda l’annualità 2006, e, pur affermandosi in essa l’assenza della qualità di amministratore di fatto in capo a NOME Massimo, tale affermazione non è estensibile agli anni 2007 e 2008, oggetto degli accertamenti odiernamente impugnati.
Sul punto, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che l’invocato giudicato esterno ex art. 2909 c.c., relativo a precedente anno di imposta, non spiega automaticamente effetto per gli anni successivi, salvo per quanto attiene a quegli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi di imposta, assumano carattere tendenzialmente permanente, mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando l’accertamento relativo ai diversi anni si fondi su presupposti di fatto relativi a tributi differenti ed a diverse annualità (Cass. 13 ottobre 2022, n. 29992; Cass. 7 dicembre 2021, n. 38950; Cass. 13 dicembre 2018, n. 32254).
Nella fattispecie in esame, vertendosi in tema di sussistenza della qualifica di amministratore di fatto, le condizioni per l’affermazione di tali qualità, essendo mutevoli nel tempo, non
possono automaticamente estendersi per più anni d’imposta, per cui l’affermazione con sentenza passata in giudicato della sussistenza di tale qualità per una determinata annualità non si estende, di per sé solo, ad altre annualità d’imposta.
Per quel che riguarda, invece, le sentenze n. 5694/14/2015 e n. 5695/14/2014, depositate il 29 ottobre 2015 della C.T.R. del Lazio, queste, innanzitutto, non sono passate in giudicato, perché impugnate dall’Agenzia delle Entrate; inoltre, tali sentenze attengono alla legittimità degli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE, e non riguardano quindi gli avvisi di accertamento emessi nei confronti del Leone come persona fisica.
Parimenti, per quel che riguarda le sentenze della C.T.R. del Lazio n. 5696/14/2015 e 5697/14/2015, sempre depositate il 29 ottobre 2015, passate in giudicato, con essere la C.T.R. si è limitata a rigettare gli appelli proposti dall’Agenzia delle Entrate avverso le decisioni di primo grado che rigettavano il ricorso del Leone. Tali appelli erano stati proposti in via cautelativa, ritenendosi ambigua la formula utilizzata dalla C.T.P. per motivare il rigetto del ricorso originario; in particolare, nei suoi atti di appello l’Ufficio sostiene che il giudicato formatosi per l’anno 2006, con la sentenza della C.T.P. di Roma n. 191/01/2013, riguardava l’anno 2006, e non poteva riguardare le altre annualità; inoltre, la sentenza suddetta si basava sull’assunto che il procedimento penale instaurato nei confronti di NOME Massimo si fosse concluso con decreto di archiviazione reso in data 7 giugno 2012, mentre risultava che lo stesso era stato rinviato a giudizio con decreto del G.I.P. presso il Tribunale di Civitavecchia del 5 giugno 2013. Nei suoi atti di
appello, pertanto, l’Agenzia delle Entrate chiedeva che fosse riconosciuta la legittimazione passiva di NOME Massimo dinanzi alle pretese erariali, e che comunque fosse confermato il rigetto dei ricorsi proposti in primo grado da NOME Massimo, sia pure con motivazioni differenti.
In pratica, pertanto, le sentenze n. 5696/14/2015 e n. 5697/14/2015 R.G. riguardano un petitum ed una causa petendi differenti da quello oggetto del presente giudizio, ragion per cui la loro efficacia di giudicato non può essere opposta in questa sede.
2.2. Anche il secondo motivo è fondato.
La C.T.R. ha ritenuto che la disposizione di cui all’art. 37, comma 3, d.P.R. n. 600/1973, nel caso di specie non sarebbe applicabile, in quanto si verterebbe in un’ipotesi di interposizione reale, e non di interposizione fittizia.
Orbene, la norma in questione testualmente recita: «in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordati, che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona».
La giurisprudenza più recente di questa Corte è orientata nel senso di ritenere pacificamente applicabile la disposizione suddetta non solo ai casi di interposizione fittizia di persona (e quindi quando i redditi vengano imputati direttamente all’interpo nente), ma anche ai casi di interposizione reale, e quindi quando il soggetto interposto sia il reale percettore dei redditi, e questi vengano ritrasferiti all’interponente (Cass. 17
febbraio 2022, n. 5276; Cass. 30 ottobre 2018, n. 27625; Cass. 29 luglio 2016, n. 15830.
Invero, la funzione della norma appare essere quella di evitare che il contribuente, che venga accertato come effettivo possessore del reddito altrui, si sottragga al prelievo nascondendo all’Amministrazione finanziaria la propria identità di contribuente, ricorrendo a interposizioni negoziali tali da attribuire a terzi il possesso del reddito.
Il possesso del reddito “per interposta persona” costituisce il fatto ignoto oggetto della prova logica a carico dell’Amministrazione finanziaria, quale elemento che lega il reddito prodotto dal soggetto interposto al titolare effettivo. La rilevanza dell’effettivo possesso del reddito rispetto alla sua titolarità formale sancisce la prevalenza della sostanza (possesso del reddito) sulla forma (titolarità effettiva del reddito) e della realtà sull’apparenza, dovendosi individuare non la natura fittizia o ingannevole della titolarità del reddito, bensì l’effettività dell’esercizio del possesso del reddito a dispetto di chi ne sia il formale titolare.
La relazione di fatto tra contribuente e reddito, di cui alla locuzione “effettivo possessore per interposta persona”, va ricercata in relazione alla tipologia di reddito oggetto di accertamento (nella specie, reddito di impresa), al fine di operare la traslazione del reddito prodotto all’effettivo titolare accertato. In caso di reddito di impresa diviene rilevante (come osservatosi anche in dottrina) la figura dell’amministratore di fatto del soggetto imprenditoriale formalmente titolare del reddito. Tale ruolo deve, tuttavia, assumere una particolare pregnanza al fine di integrare la presunzione del possesso del
reddito perché deve essere tale da comportare la traslazione del reddito realizzato dall’ente collettivo percettore interposto nel suo complesso (e, quindi, anche ai fini IRAP e IVA) al soggetto persona fisica interponente, come se fosse stato prodotto da quest’ultimo.
L’interponente non deve, pertanto, costituire un mero gestore dell’ente collettivo – la cui qualifica rileverebbe ai fini reddituali solo in caso di società di persone interposte, ovvero, in caso di socio, quale maggior reddito da partecipazione e solo ai fini IRPEF – dovendo accertarsi che l’interponente disponga delle risorse del soggetto interposto uti dominus . Si configura, pertanto, in relazione all’interponente, una fattispecie simile a quella della holding unipersonale , ossia di chi eserciti professionalmente, con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società (Cass. 6 marzo 2017, n. 5520; Cass. 3 giugno 2020, n. 10495). In caso di reddito di impresa deve, quindi, trattarsi di una prova alquanto rigorosa, che dimostri il totale asservimento della società interposta all’interponente, tale da dimostrare la relazione di fatto tra l’interponente e la fonte di reddito del soggetto imprenditoriale interposto.
E’, quindi, nella prova della relazione dell’interponente con la fonte di reddito del soggetto interposto che si risolve la prova del “possesso” del reddito, la quale prescinde dalla natura dell’interposizione (ossia, se l’interposizione possa ricomprendere anche quella reale), atteso che la norma in oggetto imputa al contribuente i redditi formalmente intestati a un altro soggetto laddove, in base a presunzioni, egli ne risulti l’effettivo possessore, senza distinguere tra
interposizione fittizia e reale (Cass. 27 aprile 2021, n. 11055; Cass. 22 giugno 2021, n. 17743). Si condivide, sotto questo profilo, quanto osservato da parte della dottrina, ove afferma che il legislatore tributario avrebbe codificato un principio di maggiore estensione rispetto alla dicotomia civilistica incentrata su titolarità effettiva – titolarità apparente, perché ciò che rileva ai fini tributari è il possesso del reddito formalmente attribuito a terzi (“effettivo possessore per interposta persona”), in luogo e in sostituzione del formale titolare dei redditi, fattispecie che si configura sia in caso di coinvolgimento di soggetti diversi, sia in caso di coinvolgimento di un unico soggetto. Trattandosi, pertanto, di possesso come situazione di fatto tale da comportare l’individuazione di un titolare effettivo del reddito complessivo diverso e divergente dal titolare formale (Cass. 19 ottobre 2018, n. 26414; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26057), esso appare coerente con il fatto che la prova è affidata anche a circostanze di carattere indiziario.
Il ricorso deve quindi essere accolto.
La sentenza impugnata deve quindi essere cassata, con rinvio, per nuovo giudizio, alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, per nuovo giudizio, alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2024.