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Interposizione fittizia: le regole sulla prova

La Corte di Cassazione ha analizzato un caso di presunta elusione fiscale tramite interposizione fittizia di una società estera per la vendita di azioni. Il ricorso del contribuente è stato accolto, in quanto il giudice di merito non ha valutato adeguatamente le prove presuntive fornite dal Fisco, limitandosi a definire la ricostruzione ‘plausibile’. La Corte ha cassato la sentenza e rinviato il caso per un nuovo esame, sottolineando la necessità di un’analisi rigorosa degli indizi, che devono essere gravi, precisi e concordanti per dimostrare che il contribuente fosse l’effettivo possessore del reddito.

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Pubblicato il 16 settembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Interposizione Fittizia: La Cassazione detta le regole sulla prova a carico del Fisco

L’interposizione fittizia è uno degli strumenti più utilizzati per realizzare complesse operazioni di elusione fiscale. Si verifica quando un contribuente utilizza una società di comodo, spesso con sede all’estero, come schermo per nascondere la reale titolarità di redditi e patrimoni. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sui poteri del Fisco e, soprattutto, sui doveri del giudice nel valutare le prove in questi casi.

I Fatti del Caso: La Società Estera come Schermo

Il caso esaminato riguarda un contribuente, amministratore delegato di una nota società italiana, a cui l’Agenzia delle Entrate aveva notificato un avviso di accertamento. L’Amministrazione contestava maggiori redditi derivanti da una plusvalenza realizzata con la vendita di azioni della società italiana.

Secondo la ricostruzione del Fisco, sebbene le azioni fossero formalmente intestate a una società di capitali portoghese, localizzata nella zona franca di Madeira e interamente controllata dal contribuente, quest’ultimo ne era l’effettivo possessore. L’intera operazione era stata preordinata per evadere le imposte in Italia: costituzione della società estera nel 2004, conferimento e acquisto di azioni della società italiana, successiva vendita delle stesse dopo la quotazione in borsa e, infine, liquidazione della società portoghese con accredito degli utili su un conto svizzero del contribuente.

La controversia sull’interposizione fittizia e la decisione della Corte

La controversia è giunta fino alla Corte di Cassazione, dopo che la Commissione Tributaria Regionale aveva dato ragione all’Agenzia delle Entrate. Il contribuente lamentava, tra le altre cose, che i giudici di merito avessero erroneamente ritenuto provata l’interposizione e, di conseguenza, la sua titolarità effettiva del reddito.

La Suprema Corte ha accolto i motivi del ricorso incentrati sulla violazione delle norme in materia di prova presuntiva (art. 37 del d.P.R. 600/1973 e art. 2729 cod. civ.). Il punto centrale della decisione risiede nella critica al metodo seguito dalla Commissione Tributaria Regionale. Quest’ultima, infatti, si era limitata a considerare ‘plausibile’ la ricostruzione operata dagli organi di controllo e a rilevare che la plusvalenza aveva arricchito il patrimonio personale del contribuente, senza però condurre un’analisi critica e approfondita degli elementi indiziari.

Le motivazioni della Corte

La Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: l’art. 37, terzo comma, del d.P.R. n. 600/1973 consente al Fisco di imputare al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti, a condizione che sia dimostrato, anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti, che egli ne sia l’effettivo possessore. Questo vale sia per i casi di simulazione (interposizione fittizia) sia per le operazioni elusive reali (interposizione reale).

Tuttavia, il ruolo del giudice non è quello di un mero ratificatore dell’operato dell’Amministrazione. Il giudice di merito ha il dovere di valutare autonomamente se gli elementi indiziari presentati dal Fisco possiedano realmente i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge.

Nel caso di specie, la sentenza di appello è stata ritenuta carente perché non aveva esaminato adeguatamente l’insieme degli elementi presuntivi che potevano corroborare la tesi della preordinazione dell’operazione, come il profilo cronologico e teleologico (lo scopo) degli atti posti in essere dal contribuente. Affermare che una ricostruzione è ‘plausibile’ non equivale a ritenerla provata secondo i rigorosi criteri della prova presuntiva.

Conclusioni: Le Implicazioni Pratiche della Sentenza

La sentenza rappresenta un importante monito per i giudici tributari. Non è sufficiente che l’accertamento del Fisco appaia logico o verosimile. È necessario che il giudice svolga un’indagine autonoma e approfondita, verificando che gli indizi raccolti, nel loro complesso, conducano in modo ragionevolmente certo a dimostrare il fatto ignoto (in questo caso, l’effettivo possesso del reddito). Di conseguenza, la Corte ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado, che dovrà riesaminare il caso attenendosi a questi principi, fornendo una motivazione congrua sulla valutazione delle prove.

Quando il reddito di una società estera può essere imputato a un contribuente italiano?
Il reddito di una società estera può essere imputato a un contribuente italiano quando l’Amministrazione Finanziaria dimostra, attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti, che il contribuente è l’effettivo possessore di tale reddito e che la società estera agisce solo come un soggetto interposto, cioè uno schermo.

È sufficiente che la ricostruzione del Fisco sia ‘plausibile’ per provare l’interposizione fittizia?
No. La Corte di Cassazione ha chiarito che il giudice non può limitarsi a ritenere ‘plausibile’ la ricostruzione del Fisco. Deve, invece, valutare in modo autonomo e rigoroso se gli elementi indiziari presentati rispettano i requisiti di gravità, precisione e concordanza previsti dalla legge per costituire una prova presuntiva.

Qual è la differenza tra interposizione fittizia e interposizione reale ai fini dell’accertamento?
A fini fiscali, l’art. 37, terzo comma, del d.P.R. 600/1973 non distingue tra interposizione fittizia (simulazione) e interposizione reale (operazioni effettive ma elusive). In entrambi i casi, ciò che rileva è la dimostrazione che il contribuente è il possessore effettivo del reddito, indipendentemente dalla natura, reale o simulata, delle operazioni utilizzate per occultarlo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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