Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 8535 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 8535 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 01/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20324/2016 R.G. proposto da RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore pro tempore , domiciliata in Roma alla INDIRIZZO presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale è rappresentata e difesa «ope legis»
-ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in Roma alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME dal quale è rappresentato e difeso
-controricorrente – avverso la SENTENZA della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA LOMBARDIA n. 2797/2016 depositata il 12 maggio 2016
Udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 16 gennaio 2025 dal Consigliere COGNOME NOME
FATTI DI CAUSA
In data 15 marzo 2012 NOME COGNOME presentava al Direttore Regionale della Lombardia dell’Agenzia delle Entrate, ai sensi dell’art. 37 -bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973, istanza di disapplicazione delle disposizioni normative in tema di fondi comuni d’investimento immobiliare recate dall’art. 32, commi 3 -bis e 4bis ,
del D.L. n. 78 del 2010, convertito in L. n. 122 del 2010, laddove stabiliscono che, al fine di verificare se un investitore diverso da quelli (cd. ) indicati nel precedente comma 3 possieda una quota di percentuale di partecipazione (cd. ) superiore al 5 per cento, si debba tener conto delle partecipazioni detenute direttamente o indirettamente per il tramite di società controllate o di società fiduciarie o per interposta persona, nonché di quelle imputate ai familiari elencati nell’art. 5, comma 5, del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR).
A fondamento dell’avanzata richiesta esponeva: -di partecipare, insieme ad alcuni suoi familiari, al fondo immobiliare chiuso denominato , istituito e gestito dalla Valore Reale RAGIONE_SOCIALE.G.R. s.p.a.; – che la sua quota di partecipazione era inferiore al 5 per cento del patrimonio del fondo, mentre quelle complessivamente detenute dall’intero gruppo familiare superavano la detta percentuale; – che la previsione contenuta nel quinto periodo del comma 3bis dell’art. 32 del D.L. n. 78 del 2010, richiamata dal successivo comma 4bis , è ispirata alla «ratio» di impedire l’artificioso frazionamento in àmbito familiare delle partecipazioni ai fondi comuni d’investimento immobiliare, allo scopo di sottrarsi al nuovo regime fiscale delle partecipazioni superiori al 5 per cento, più oneroso di quello ordinario, altrimenti applicabile, fissato dall’art. 7 del D.L. n. 351 del 2001, convertito in L. n. 410 del 2001; – che, nel caso di specie, non si era verificato alcun artificioso frazionamento nel senso dianzi esplicitato, essendovi piena corrispondenza fra la titolarità giuridica e la riferibilità economica delle partecipazioni facenti capo ai singoli familiari; -che doveva, pertanto, escludersi l’operatività della disciplina antielusiva dettata dalle norme invocate.
La formulata istanza veniva dichiarata «inammissibile» con
provvedimento del 2 agosto 2012, in base al rilievo che le disposizioni di cui il contribuente aveva chiesto la disapplicazione non perseguivano finalità antielusiva.
Il COGNOME impugnava tale provvedimento davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano, la quale, pronunciando nel contraddittorio della Direzione Regionale della Lombardia e della Direzione Provinciale I di Milano dell’Agenzia delle Entrate, ritenuta la fondatezza del ricorso, statuiva che: – non era dovuta dal contribuente l’imposta sostitutiva «una tantum» di cui al comma 4bis dell’art. 32 del D.L. n. 78 del 2010 (fissata «nella misura del 5 per cento del valore medio delle quote possedute nel periodo d’imposta risultante dai prospetti periodici redatti nel periodo d’imposta 2010»); – non era applicabile nei suoi confronti l’imposizione per trasparenza prevista dal comma 3 -bis dello stesso articolo.
La decisione veniva successivamente confermata dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che con sentenza n. 2797/2016 del 12 maggio 2016 rigettava l’appello dell’Amministrazione Finanziaria.
Avverso tale sentenza l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
Il COGNOME ha resistito con controricorso.
La causa è stata avviata alla trattazione in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 380 -bis .1 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., è denunciata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 54, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 37 -bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 1 del D.M. 19 giugno 1998, n. 259.
1.1 Si censura l’impugnata sentenza per aver omesso di pronunciare sull’eccezione di difetto di legittimazione passiva
sollevata in prime cure dalla Direzione Provinciale I di Milano dell’Agenzia delle Entrate e dalla stessa ribadita con apposito motivo di appello incidentale nel susseguente grado di merito.
Con il secondo motivo la violazione e/o falsa applicazione dei citati artt. 54, comma 2, del D. Lgs. n. 546 del 1992, 37bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973 e 1 del D.M. 19 giugno 1998, n. 259 viene lamentata, in subordine, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c..
2.1 Si deduce, al riguardo, che la legittimazione passiva rispetto all’azione esperita dal COGNOME spettava esclusivamente alla Direzione Regionale della Lombardia dell’Agenzia delle Entrate, che aveva emanato il provvedimento impugnato, e non anche alla Direzione Provinciale I di Milano della predetta agenzia fiscale.
2.2 I due motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto intimamente connessi.
2.3 La censura che essi veicolano, prospettata sotto due distinte angolazioni -in via principale come «error in procedendo» , in subordine come «error in iudicando» -, è inammissibile per difetto di autosufficienza, non avendo la difesa erariale dimostrato, mediante la trascrizione del libello introduttivo della lite, quantomeno nella parte contenente (ex art. 18, comma 2, lettera c], del D. Lgs. n. 546 del 1992) l’indicazione dell’ufficio destinatario della domanda giudiziale, che il ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale fosse stato proposto dal COGNOME anche nei confronti della Direzione Provinciale I di Milano dell’Agenzia delle Entrate.
2.4 Nella descritta situazione, risulta impossibile verificare dalla sola lettura del ricorso per cassazione se la predetta Direzione Provinciale fosse stata evocata in causa dal contribuente in qualità di controparte o se invece la notificazione dell’atto incoativo del giudizio fosse stata eseguita nei suoi riguardi a fini di mera conoscenza.
2.5 Fermo quanto precede, il rigetto dell’eccezione in parola, da ritenersi implicito nella pronuncia di integrale accoglimento del ricorso contribuente adottata dalla CTP e confermata in appello, appare giuridicamente corretta.
2.6 Invero, per costante giurisprudenza di legittimità, gli uffici periferici non hanno autonoma soggettività rispetto all’Agenzia fiscale nella cui struttura sono organicamente inseriti, sicchè le sentenze emesse nelle controversie tributarie producono i loro effetti direttamente nella sfera giuridica dell’Agenzia e non dell’ufficio presente in giudizio.
Di conseguenza, tutto ciò che concerne l’articolazione interna è processualmente irrilevante, giacché l’attività difensiva è sempre e comunque riferibile all’Agenzia fiscale, quale persona giuridica di diritto pubblico, e non al singolo ufficio periferico, le cui vicende organizzative restano del tutto indifferenti (cfr. Cass. n. 19828/2016, Cass. n. 22000/2013).
2.7 Nella stessa prospettiva è stato affermato che, in ragione del carattere unitario dell’Agenzia delle Entrate, la notifica del ricorso del contribuente presso un ufficio locale incompetente non comporta la nullità dell’atto, nè la decadenza dall’impugnazione (cfr. Cass. n. 21593/2015, Cass. n. 15229/2012, Cass. n. 30753/2011; vedasi pure Cass. n. 9405/2010, in cui si precisa che, «in ossequio al principio costituzionale di imparzialità e buon andamento e di leale collaborazione e buona fede sanciti dallo Statuto dei diritti del contribuente, le articolazioni degli uffici e l’intera organizzazione dell’Amministrazione Finanziaria sono tenute a trasmettere agli uffici competenti le impugnazioni formulate dai privati ricevute da uffici non competenti» ), e che, in termini speculari, deve ritenersi ammissibile l’appello proposto da un ufficio diverso da quello nei cui confronti è stata emessa la sentenza di primo grado (cfr. Cass. n. 4862/2015).
2.8 Per quanto qui particolarmente interessa, è stato inoltre precisato che in relazione agli atti emessi dalla Direzione Regionale dell’Agenzia delle Dogane -ma il discorso è estensibile, per identità di «ratio» , a quella delle Entratesussiste la legittimazione processuale della Direzione Provinciale, in quanto ufficio al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso, ferma restando la legittimazione della Direzione Regionale a partecipare al processo ove destinataria della notifica del ricorso del contribuente (cfr. Cass. n. 19795/2019, in cui viene sottolineato che, accedendo a una diversa interpretazione, si verrebbe a creare «un’abnorme distorsione del sistema, poiché la Direzione regionale sarebbe la sola legittimata nel processo in relazione a tutti i provvedimenti dalla medesima emessi, determinandosi l’accentramento delle controversie presso la Commissione Provinciale di primo grado della Regione nella quale ha sede la Direzione regionale» ; in termini si veda pure Cass. n. 26977/2020).
2.9 Sulla scorta delle esposte considerazioni, a prescindere dalla sua rilevata inammissibilità, il motivo è comunque privo di fondamento.
Con il terzo mezzo, introdotto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4) c.p.c., è prospettata la violazione dell’art. 100 c.p.c., dell’art. 19 del D. Lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 37 -bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 32, commi 3 -bis e 4bis , del D.L. n. 78 del 2010, convertito in L. n. 122 del 2010.
3.1 Si sostiene che avrebbe errato la CTR nel ritenere ammissibile l’impugnazione della risposta data dal Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate all’interpello disapplicativo ex art. 37-bis, comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973, trattandosi non già di un provvedimento bensì di un semplice non vincolante, solo potenzialmente lesivo della sfera giuridica del contribuente.
Secondo la tesi del ricorrente, ammettere l’autonoma e immediata impugnabilità di un atto del genere .
3.2 Viene, in ogni caso, obiettato che, quand’anche si volesse ammettere, in linea di principio, l’impugnabilità dinanzi al giudice tributario del provvedimento di definitivo diniego dell’invocata disapplicazione, una siffatta regola non potrebbe comunque operare nella fattispecie concreta, essendosi il Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate limitato a dichiarare inammissibile l’interpello del COGNOME .
Con il quarto motivo, ricondotto al paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., la medesima censura veicolata con il precedente mezzo di gravame viene riproposta, in via subordinata, sotto il diverso profilo della violazione di legge, e dunque non come «error in procedendo» bensì come «error in iudicando» .
4.1 Il terzo e il quarto motivo possono essere scrutinati congiuntamente, stante la loro stretta connessione.
4.2 Essi sono privi di fondamento.
4.3 Giova premettere che alla presente controversia non è applicabile, «ratione temporis» , la disciplina in tema di interpello disapplicativo contenuta nell’art. 11 della L. n. 212 del 2000 (statuto del contribuente), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, D. Lgs. n. 156 del 2015 (poi ulteriormente novellato dall’art. 1, comma 1, lettera n], del D. Lgs. n. 219 del 2023).
4.4 Nel delineato contesto, deve allora farsi riferimento all’art. 37bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973, a mente del quale «le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti
elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi»; «a tal fine», prosegue il testo, «il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione».
4.5 Sull’argomento, la giurisprudenza di questa Corte si è ormai stabilizzata nel senso che il diniego opposto dal Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate all’istanza di disapplicazione di norme antielusive proposta ai sensi dell’art. 37 -bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973 e del D.M. 19 giugno 1998, n. 259, costituendo atto amministrativo recettizio, con immediata rilevanza esterna ed espressamente qualificato come definitivo, è suscettibile di autonoma e immediata impugnazione dinanzi al giudice tributario.
4.6 Inizialmente si era sostenuto che l’atto in questione fosse assimilabile a quello di diniego di agevolazione e come tale impugnabile ai sensi dell’art. 19, comma 1, lettera h), del D. Lgs. n. 546 del 1992 (cfr. Cass. n. 8663/2011, Cass. n. 5843/2012).
4.7 Nella successiva evoluzione nomofilattica, pur escludendosi l’equiparabilità dell’«agevolazione fiscale» alla «disapplicazione di norma antielusiva», si è però ritenuto che la natura tassativa degli atti indicati nell’art. 19 summenzionato consenta un’interpretazione estensiva del «catalogo» ivi contenuto, fino a ricomprendervi tutti gli atti adottati dell’ente impositore che, con l’esplicitazione delle concrete ragioni che li sorreggono, portino a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria.
4.8 Su questa scia si è giunti ad affermare che l’istanza di disapplicazione di norme antielusive rientra nel novero degli atti impugnabili per varie ragioni, e precisamente perchè: è
obbligatoria per il privato; deve contenere la descrizione compiuta della fattispecie concreta; deve essere corredata della documentazione rilevante; è soggetta a richieste istruttorie; è volta ad ottenere l’emissione di un atto dell’amministrazione; le determinazioni ad essa inerenti sono assunte dal Direttore Regionale con provvedimento «da ritenersi definitivo» (ex art. 1, comma 6, del D.M. 19 giugno 1998, n. 259, emanato ai sensi dell’art. 37 -bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973) e vengono comunicate al richiedente a mezzo del servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento.
4.9 È stato, altresì, rimarcato che la risposta all’interpello, positiva o negativa che sia, costituisce il primo atto con cui l’Amministrazione Finanziaria, a sèguito di una fase istruttoria e di una valutazione tecnica e nel rispetto di particolari garanzie procedimentali, porta a conoscenza del contribuente, in via preventiva, il proprio convincimento in ordine a una specifica richiesta relativa a un determinato rapporto tributario, con l’immediato effetto di incidere comunque sulla condotta che il soggetto istante è tenuto ad osservare al momento della presentazione della dichiarazione dei redditi.
4.10 Di qui la sussistenza dell’interesse del contribuente ad impugnare l’atto, ai fini del controllo giurisdizionale sulla sua legittimità (cfr. Cass. n. 17010/2012, Cass. n. 16183/2014, Cass. n. 11929/2014, Cass. n. 12150/2019).
4.11 Resta, peraltro, fermo, che:
-l’omessa impugnazione del diniego non pregiudica la posizione del contribuente che ad esso non ritenga di adeguarsi;
-la risposta negativa all’interpello non impedisce alla stessa Amministrazione di rivalutare, in sede di esame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso, l’orientamento in precedenza espresso, nè preclude al contribuente la possibilità di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale avverso l’avviso di accertamento
eventualmente emesso in relazione alla denuncia dei redditi presentata in difformità dalla risposta;
la risposta positiva del Direttore Regionale delle Entrate priva, invece, l’Amministrazione del potere di applicare la norma antielusiva oggetto di interpello, in virtù del principio di tutela dell’affidamento, il quale trova diretto fondamento nella Carta costituzionale e riveste carattere generale anche nell’ordinamento tributario, in cui è espressamente sancito dall’art. 10 della L. n. 212 del 2000 (cfr. Cass. n. 26977/2020).
4.12 Si è, inoltre, chiarito che, anche in base alla disciplina anteriore all’entrata in vigore dell’art. 6, comma 1, del D. Lgs. n. 156 del 2015 (poi abrogato dall’art. 2, comma 4, lettera e], del D Lgs. n. 219 del 2023) -il quale prevede che avverso le risposte alle istanze di interpello disapplicativo di cui all’art. 11, comma 2, della L. n. 212 del 2000, come modificato dallo stesso D. Lgs. n. 156, «può essere proposto ricorso unitamente all’atto impositivo» -, deve ammettersi la possibilità di impugnare tali risposte in sede giurisdizionale, in quanto contenenti una compiuta pretesa tributaria.
4.13 Una simile soluzione ermeneutica si fonda sul rilievo che, mentre la risposta all’ordinario interpello interpretativo (o consultivo) previsto dall’art. 11 della L. n. 212 del 2000 è qualificabile come semplice parere non vincolante, inidoneo a incidere direttamente sulla sfera giuridica del contribuente, per contro, quella all’interpello disapplicativo ha natura provvedimentale (cfr. Cass. Sez. Un. n. 2147/2024, Cass. n. 32962/2018).
4.14 Alla stregua del richiamato insegnamento giurisprudenziale di legittimità, le lagnanze mosse dalla ricorrente si appalesano infondate, avendo la CTR rettamente riconosciuto l’autonoma e immediata impugnabilità del diniego dell’interpello disapplicativo.
4.15 Manca di pregio anche l’assunto secondo cui, nel caso di specie, non sarebbe comunque configurabile un provvedimento di definitivo diniego della chiesta disapplicazione.
4.16 Dal tenore della risposta data dal Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate, trascritta nel corpo del ricorso (pagg. 5 -6), emerge chiaramente che, a prescindere dalla formula conclusiva utilizzata ( ), la richiesta del contribuente è stata esaminata e respinta nel merito, in base al decisivo rilievo che le disposizioni di cui ai commi 3bis e 4bis del D.L. n. 78 del 2010 .
4.17 Si è trattato, quindi, non già di un atto sostanzialmente interlocutorio giustificato da riscontrate carenze attinenti alla forma o al contenuto dell’istanza (come nei casi esaminati in alcuni precedenti di questa Corte: cfr. Cass. n. 26977/2020, Cass. n. 5843/2012), bensì di un provvedimento di definitivo diniego fondato sulla ritenuta natura non antielusiva delle norme di cui era stata invocata la disapplicazione.
4.18 Del resto, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del menzionato D.M. 19 giugno 1998, n. 259, i soli requisiti prescritti a pena di inammissibilità dell’istanza di disapplicazione sono: «a)i dati identificativi del contribuente e del suo legale rappresentante; b)l’indicazione dell’eventuale domiciliatario presso il quale sono effettuate le comunicazioni; c)la sottoscrizione del contribuente o del suo legale rappresentante».
4.19 Analoga sanzione non è, invece, prevista dal successivo comma 3, a tenore del quale il contribuente deve, nella medesima istanza, «descrive(re) compiutamente la fattispecie concreta per la quale ritiene non applicabili le disposizioni normative che limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammessi dall’ordinamento tributario» e «allega(re) copia
della documentazione, con relativo elenco, rilevante ai fini della individuazione e della qualificazione della fattispecie prospettata».
4.20 Ne discende che, al di fuori delle ipotesi di inammissibilità tassativamente contemplate dalla norma, il provvedimento con il quale il Direttore Regionale ravvisi l’esistenza di una diversa ragione di fatto o di diritto ostativa alla chiesta disapplicazione deve essere interpretato come un sostanziale rigetto dell’interpello.
Con il quinto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c., è denunciata la violazione dell’art. 12 delle preleggi, degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 37 -bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973, e dell’art. 32, commi 3 -bis e 4bis , del D.L. n. 78 del 2010, convertito in L. n. 122 del 2010.
5.1 Si rimprovera alla Commissione regionale di aver a torto ritenuto che le disposizioni recate dai commi 3bis e 4bis dell’art. 32 del D.L. n. 78 del 2010 perseguano finalità antielusive, laddove, a mente dell’art. 37 -bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973, una simile finalità può essere attribuita solamente alle .
5.2 Viene, in proposito, evidenziato che le anzidette previsioni non pongono alcuna limitazione a , ma introducono una nuova e diversa disciplina delle modalità di tassazione dei proventi derivanti dalla partecipazione ai fondi comuni d’investimento immobiliare, sostituendo al più favorevole regime impositivo di cui all’art. 7 del D.L. n. 350 del 2001, convertito in L. n. 410 del 2001 -basato sull’applicazione di una ritenuta alla fonte del 20 (ora 26) per cento sull’ammontare dei proventi riferibili a ciascuna quota distribuiti in costanza di partecipazione, nonché sulla differenza fra
il valore di riscatto o di liquidazione delle quote e il costo medio ponderato di sottoscrizione o acquisto- uno , in forza del quale i redditi conseguiti dal fondo e rilevati nei rendiconti di gestione sono proporzionalmente imputati per trasparenza, indipendentemente dalla percezione, ai partecipanti non istituzionali che possiedono quote superiori al cinque per cento del patrimonio del fondo e concorrono alla formazione del reddito complessivo.
5.3 Il motivo è infondato.
5.4 I commi 3bis e 4bis dell’art. 32 del D.L. n. 78 del 2010 così recitano:
« 3bis . Ferma restando l’applicazione degli articoli 6, 8 e 9 del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 410, ai fondi diversi da quelli di cui al comma 3, i redditi conseguiti dal fondo e rilevati nei rendiconti di gestione sono imputati per trasparenza ai partecipanti, diversi dai soggetti indicati nel comma 3, che possiedono quote di partecipazione in misura superiore al 5 per cento del patrimonio del fondo. La percentuale di partecipazione al fondo è rilevata al termine del periodo d’imposta o, se inferiore, al termine del periodo di gestione del fondo, in proporzione alle quote di partecipazione da essi detenute. Ai fini della verifica della percentuale di partecipazione nel fondo si tiene conto delle partecipazioni detenute direttamente o indirettamente per il tramite di società controllate, di società fiduciarie o per interposta persona. Il controllo societario è individuato ai sensi dell’articolo 2359, commi primo e secondo, del codice civile anche per le partecipazioni possedute da soggetti diversi dalle società. Si tiene altresì conto delle partecipazioni imputate ai familiari indicati nell’articolo 5, comma 5, del Testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. Il partecipante è tenuto ad attestare alla società di gestione
del risparmio la percentuale di possesso di quote di partecipazioni detenute ai sensi del presente comma. Per i soggetti che possiedono quote di partecipazione in misura non superiore al 5 per cento, individuate con i criteri di cui al presente comma, nonché per i soggetti elencati nel comma 3, resta fermo il regime di imposizione dei proventi di cui all’articolo 7 del decreto -legge 25 settembre 2001, n. 351 convertito, con modificazioni, dalla legge
23 novembre 2001, n. 410.327 334 335.
(…)
4bis . I partecipanti, diversi da quelli indicati nel comma 3, che alla data del 31 dicembre 2010 detenevano una quota di partecipazione al fondo superiore al 5 per cento, determinata con i criteri di cui al comma 3bis , sono tenuti a corrispondere un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi nella misura del 5 per cento del valore medio delle quote possedute nel periodo d’imposta risultante dai prospetti periodici redatti nel periodo d’imposta 2010. Il costo di sottoscrizione o di acquisto delle quote è riconosciuto fino a concorrenza dei valori che hanno concorso alla formazione della base imponibile per l’applicazione dell’imposta sostitutiva. Eventuali minusvalenze realizzate non sono fiscalmente rilevanti. L’imposta è versata dal partecipante con le modalità e nei termini previsti per il versamento a saldo delle imposte risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 2011. L’imposta può essere versata a cura della società di gestione del risparmio o dell’intermediario depositario delle quote in due rate di pari importo, rispettivamente, entro il 16 dicembre 2011 ed entro il 16 giugno 2012. A tal fine il partecipante è tenuto a fornire la provvista. In mancanza, la società di gestione del risparmio può effettuare la liquidazione parziale della quota per l’ammontare necessario al versamento dell’imposta».
5.5 Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, tali norme hanno finalità antielusiva.
Esse, infatti, pongono a carico degli investitori, diversi da quelli cd. indicati nel comma 3 dello stesso art. 32, che possiedano quote di partecipazione a fondi comuni d’investimento immobiliare superiori al 5 per cento, una presunzione legale relativa di elusione fiscale collegata alla possibilità di detenzione per interposta persona delle quote intestate ai familiari; presunzione superabile laddove risulti dimostrata l’assenza di una finalità elusiva (cfr. Cass. n. 19739/2022, Cass. n. 32384/2024).
Anche la Corte Costituzionale, nel dichiarare inammissibile, con sentenza n. 231/2015, la sollevata questione di legittimità dell’art. 32, comma 3bis , del D.L. n. 78 del 2010, ha sottolineato che la norma intende scongiurare, a fini antielusivi, il rischio che i fondi immobiliari vengano utilizzati, previa intesa fra familiari, non più come strumento di gestione collettiva del risparmio, ma come mezzo per interposta intestazione o amministrazione dei beni, godendo così impropriamente di un regime fiscale di favore.
5.6 È quindi fuor di dubbio che, così come richiesto dall’art. 37 -bis , comma 8, del D.P.R. n. 600 del 1973, l’interpello disapplicativo presentato dal COGNOME riguardasse norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano una posizione soggettiva ammessa dall’ordinamento tributario, privando il contribuente della possibilità di avvalersi del più favorevole regime impositivo stabilito dall’art. 7 del D.L. n. 351 del 2001, altrimenti applicabile nei confronti dei partecipanti non istituzionali a fondi comuni d’investimento immobiliare titolari di una quota non superiore al 5 per cento.
Per le ragioni illustrate, il ricorso deve essere respinto.
Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Non deve farsi luogo all’attestazione di cui all’art. 13, comma 1quater , del D.P.R. n. 115 del 2002, essendo applicabile
all’Agenzia delle Entrate -in virtù del rinvio contenuto nell’art. 12, comma 5, del D.L. n. 16 del 2012, convertito in L. n. 44 del 2012la disposizione recata dall’art. 158, comma 1, lettera a), dello stesso D.P.R., prevedente la prenotazione a debito del contributo unificato in favore delle amministrazioni pubbliche.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore , a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi 6.200 euro (di cui 200 per esborsi), oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione