Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 3868 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 3868 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17129 -20 18 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in liquidazione , in persona del liquidatore e legale rappresentante, NOME COGNOME rappresentata e difesa per procura speciale a margine dell ‘atto di costituzione di nuovo difensore del 09/01/2025, dall’avv. NOME COGNOME (pec:
Oggetto : TRIBUTI -interpello disapplicativo ex art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 -provvedimento di diniego – impugnabilità ammissibilità
EMAIL e dall’avv. NOME COGNOME (pec: EMAIL;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 10155/10/2017 della Commissione tributaria regionale della CAMPANIA, depositata in data 29/11/2017; udita la relazione svolta nella camera di consiglio non partecipata del 29/01/2025 dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
1. In controversia avente ad oggetto l’impugnazione, da parte della RAGIONE_SOCIALE, del provvedimento di diniego di disapplicazione di norme antielusive di cui all’art. 30 della legge n. 724 del 1994, che la contribuente aveva avanzato con riferimento all’anno d’imposta 201 3, la CTR (ora Corte di giustizia tributaria di secondo grado) della Campania con la sentenza in epigrafe indicata rigettava l’appello dell ‘Agenzia delle entrate avverso la sfavorevole sentenza di primo grado ritenendo autonomamente impugnabile il provvedimento di diniego e sostenendo, nel merito, « che le circostanze di fatto esposte da parte resistente, non contestate dall’Ufficio, dimostrano che l’attività di impresa è stata preclusa da gravi ed oggettivi fattori esterni, rappresentati dall’inadempimento agli obblighi assunti con il preliminare di vendita da parte della società consortile ‘RAGIONE_SOCIALE, il cui fallimento non solo aveva impedito che l’acquirente entrasse in possesso dell’immobile ove svolgere l’attività d’impresa, ma aveva di fatto prodotto la mancata restituzione di rilevanti somme versate a titolo di acconto e l’esborso improduttivo di ulteriori ingenti somme impiegate per l’esecuzione di opere necessarie al futuro svolgimento dell’attività medesima. Né a diversa conclusione può condurre il ragionamento svolto dall’Ufficio appellante, secondo cui la stipula del compromesso di vendita prima che le opere fossero state completamente realizzate fosse sintomatico della mancanza di un interesse diretto e immediato della
società allo svolgimento dell’attività imprenditoriale, in quanto si stratta di una procedura che non presenta anomalie di sorta e del tutto idonea a costituire nel promissario acquirente un adeguato margine di affidamento, la cui vanificazione a causa delle vicende familiari del venditore costituiscono un chiaro impedimento di natura oggettiva, non imputabile a responsabilità dell’imprenditore ».
Avverso tale statuizione l ‘Agenzia delle entrate propone ricorso per Cassazione affidato a tre motivi cui replica la società intimata con controricorso.
La causa, trattata dinanzi alla Sesta sezione civile, Sottosezione Tributaria, di questa Corte all’adunanza camerale del 26/02/2020, con ordinanza interlocutoria n. 13642/2020 veniva rinviata alla Sezione Quinta ordinaria ai sensi dell’ultimo comma dell ‘art. 380 -bis cod. proc. civ. ratione temporis vigente.
In data 15/01/2025 la controricorrente ha depositato atto di costituzione di nuovi difensori insistendo nelle richieste formulate con l’originario ricorso.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso la difesa erariale deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione degli artt. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, 6, comma 1, del d.lgs. n. 156 del 2016 e 100 cod. proc. civ., in quanto la risposta dell’Agenzia delle entrate all’interpello proposto dalla società contribuente aveva natura di parere, al quale il contribuente poteva non adeguarsi, sicché il diniego all’interpello non era stato in alcun modo lesivo della posizione della contribuente, la quale avrebbe potuto impugnare gli eventuali atti di applicazione, da parte dell’Agenzia delle entrate, delle disposizioni antielusive, il cui esonero era stato negato; e l’art. 6 comma 1 del d.lgs. n. 156 del 2015 aveva espressamente statuito che le risposte alle istanze di interpello, di cui all’art. 11 della legge n. 212 del 2000, non erano
normalmente impugnabili, sicché il ricorso proposto dalla contribuente avverso detto diniego di interpello sarebbe stato inammissibile per carenza di interesse a ricorrere.
Con il secondo motivo la ricorrente lamenta l’ omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che aveva formato oggetto di discussione fra le parti, ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., in quanto la CTR aveva ritenuto la sussistenza di gravi circostanze, tali da giustificare l’inoperatività della società contribuente, ravvisandole nell’inadempimento, da parte della società consortile “RAGIONE_SOCIALE“, agli obblighi assunti con un preliminare di vendita e nel successivo fallimento di tale ultima società, che avevano impedito alla contribuente non solo di entrare in possesso dell’immobile nel quale svolgere la propria attività produttiva, ma aveva altresì dato luogo alla mancata restituzione alla società contribuente delle rilevanti somme versate a titolo di acconto; l’Agenzia delle entrate aveva al contrario fatto presente che gli eventi valorizzati dalla CTR erano correlati al normale rischio d’impresa, che caratterizzava ogni scelta imprenditoriale e non potevano essere qualificati come causa oggettiva sopravvenuta, tale da impedire l’attività d’impresa; inoltre l’Agenzia delle entrate aveva rilevato come la società contribuente, nel preliminare intercorso con la società consortile “RAGIONE_SOCIALE“, non aveva inserito alcun termine entro il quale avrebbero dovuto esserle consegnati i locali promessi in vendita; né aveva fornito la descrizione del progetto imprenditoriale adottato, facendo intendere che nei 10 anni precedenti la sua sola preoccupazione era stata quella di recuperare le somme anticipate ed ottenere la consegna dei locali nei quali svolgere la propria attività.
Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la motivazione apparente della sentenza impugnata, in violazione dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo
comma, n. 4, cod. proc. civ., in quanto la sentenza impugnata non aveva indicato il percorso logico-giuridico, in esito al quale aveva ritenuto che gli eventi esterni ed oggettivi valorizzati erano tali da giustificare la sostanziale non operatività della società contribuente, non potendosi ritenere che detta non operatività fosse stata determinata dal fallimento della società costruttrice dei locali nei quale svolgere l’attività produttiva, anche perché era mancata la descrizione del progetto imprenditoriale intrapreso.
Va premesso, in fatto, che l’Agenzia delle entrate con il provvedimento impugnato dalla società contribuente ha rigettato l’istanza di interpello di quest’ultima per la disapplicazione delle disposizioni antielusive di cui all’art. 30 della legge n. 794 del 1994, dettato per le società cd. di comodo o non operative, sostenendo, che la «mancata disponibilità di una sede operativa nonché le vicissitudini fallimentari che hanno interessato il RAGIONE_SOCIALE», società costruttrice dei locali che avrebbero dovuto costituire la sede della società contribuente, «sarebbero vicende connaturate al normale rischio d’impresa e, pertanto, non possono essere ricondotte a situazioni oggettive tali da comportare la disapplicazione della disciplina sulle c.d. società di comodo, ed in particolare lo stato di soggetto in perdita nel triennio “2010-2012″» (controricorso, pag. 6).
2.1. Pertanto, il provvedimento dell’amministrazione finanziaria ha indubitabilmente natura e contenuto di diniego definitivo della chiesta disapplicazione, con conseguente ammissibilità della sua impugnabilità giudiziale, come più volte ribadito da questa Corte, con orientamento che questo Collegio condivide, secondo cui «In tema di contenzioso tributario, l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nell’art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi
l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, siccome è possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la legge 28 dicembre 2001, n. 448. Ne consegue che il contribuente ha la facoltà, non l’onere di impugnare il diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive ex art. 37 bis, comma 8, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, atteso che lo stesso non è atto rientrante nelle tipologie elencate dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ma provvedimento con cui l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario» (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 17010 del 05/10/2012, Rv. 623917; conf., Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 23469 del 06/10/2017, Rv. 646406).
2.2. Il principio è stato ribadito da Cass. n. 18604 del 2019, secondo cui «il rigetto dell’interpello ex art. 37 bis, comma 8, d.P.R. n. 600 del 1973 (applicabile “ratione temporis”) è atto definitivo in sede amministrativa, autonomamente impugnabile», nonché da Cass. n. 32425 del 2019 secondo cui, «In tema di processo tributario, la tassatività dell’elencazione degli atti di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 non esclude che il provvedimento agenziale di rigetto dell’istanza di interpello, avendo natura e contenuto di diniego definitivo della disapplicazione di norme antielusive (a differenza di quello interlocutorio), possa essere impugnato giudizialmente dal contribuente, in applicazione estensiva e costituzionalmente orientata delle disposizioni in materia».
2.3. L’orientamento di cui si è dato atto ha trovato ulteriore recente conferma da parte di questa Corte, che ha ribadito che «La risposta negativa del fisco a un interpello disapplicativo è atto impugnabile, anche se non rientra tra quelli elencati dall’art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992: l’ente impositore, infatti, attraverso tale atto porta a conoscenza del contribuente una pretesa tributaria ben individuata e quest’ultimo, senza necessità che la stessa si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal citato art. 19, già al momento della ricezione della notizia, è portatore di un interesse, ex art. 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva» (Cass. n. 2634 del 27/01/2023, Rv. 666761 -01; conf. anche Cass. n. 35816 del 2023, par. 4, non massimata).
2.4. Ad una diversa conclusione non può pervenirsi, come invece sostiene la ricorrente, per il tramite del disposto di cui all’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 156 del 2015 che prevede l’impugnabilità , ma solo unitamente all’atto impositivo , delle risposte alle istanze di interpello di cui all’art. 11, comma 2, della legge n. 212 del 2000, ovvero a quelle inoltrate, come nel caso in esame, per la disapplicazione di disposizioni antielusive.
2.5. Al riguardo, infatti, questa Corte ha osservato che «In tema di contenzioso tributario, l’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 156 del 2015, secondo cui non sono impugnabili le risposte alle istanze di interpello di cui all’articolo 11 della l. n. 212 del 2000, non ha valenza interpretativa né portata di innovazione retroattiva, ridisciplinando per il futuro la materia, e, quindi, non dispone che per l’avvenire. (In applicazione del principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la retroattiva non impugnabilità del diniego di accoglimento di istanza
d’interpello disapplicativo di norme antielusive, ex art. 37 bis, comma 8, del d.P.R. n. 600 del 1973)» (Cass. n. 23469 del 06/10/2017, Rv. 646406 – 02).
2.6. Il primo motivo di ricorso va, pertanto, rigettato.
Il secondo motivo di ricorso, con cui la difesa erariale deduce un vizio motivazionale ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., è inammissibile perché formulato in violazione del disposto di cui all’art. 348 -ter cod. proc. civ., vigente ratione temporis (attualmente previsto dall’art. 360, quarto comma, cod. proc. civ.), vertendosi nella specie in ipotesi di doppia pronuncia di merito conforme in relazione al profilo dedotto, peraltro senza che la ricorrente abbia assolto l’onere di indicare i profili di divergenza tra le ragioni di fatto a base della decisione di primo grado e quelle a base del rigetto dell’appello, com’era invece necessario per dar ingresso alla censura proposta (cfr. Cass. n. 26774 del 2016, n. 5528 del 2014 e, più recentemente, Cass. n. 5947 del 2023).
Il terzo motivo è manifestamente infondato.
4.1. Come questa Corte ha più volte affermato, la motivazione è solo apparente – e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U, n. 22232 del 2016, cit.; Cass. sez. 6- 5, ord. n. 14927 del 15/6/2017 conf. Cass. n. 13977 del 23/05/2019; cass. n. 29124/2021). Invero, si è in presenza di una tipica fattispecie di “motivazione apparente”, allorquando la motivazione della sentenza impugnata, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente e, talora, anche contenutisticamente sovrabbondante, risulta,
tuttavia, essere stata costruita in modo tale da rendere impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio, e quindi tale da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. (tra le tante: Cass., Sez. 1^, 30 giugno 2020, n. 13248; Cass., Sez. 6^-5, 25 marzo 2021, n. 8400; Cass., Sez. 6^-5, 7 aprile 2021, n. 9288; Cass., Sez. 5^, 13 aprile 2021, n. 9627; Cass., sez. 6-5, 28829 del 2021).
4.2. La pronuncia gravata è, invece, ampiamente sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo seguito dai giudici di appello, esprimendo argomentazioni pienamente intellegibili e logicamente correlate all’oggetto del gravame devoluto, come tale funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione, ponendosi ben al di sopra del ‘minimo costituzionale’ di cui all’art. 111, sesto comma, Cost.
4.3. In realtà, dalle argomentazioni svolte nel motivo emerge che non è tanto l’assenza o la mera apparenza della motivazione della sentenza impugnata ad essere censurata, quanto la non condivisibile valutazione operata dai giudici di appello delle specifiche situazioni che avevano reso impossibile il perseguimento del progetto imprenditoriale ed il conseguimento di ricavi da parte della società contribuente. E, al riguardo, va ricordato che «Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di
merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione» (Cass. n. 9097 del 2017; conf., ex multis , Cass. n. 29404 del 2017; Cass. n. 32505 del 2023).
Ad ogni buon fine, non può questo Collegio esimersi dal rilevare che in materia di società di comodo o non operative, la Corte di giustizia dell’unione europea con sentenza 7 marzo 2024 in causa C-341/22, (RAGIONE_SOCIALE, ha dichiarato l’incompatibilità della relativa disciplina con la direttiva 2006/112/CE e i principi generali della neutr alità dell’IVA e di proporzionalità della limitazione del diritto alla detrazione dell’IVA.
5.1. Sulla scia di tale pronuncia, questa Corte nella sentenza n. 22249 del 06/08/2024 ha affermato il seguente principio di diritto: «In tema di società di comodo, l’art. 30 della l. n. 724 del 1994, nell’escludere il diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte per le società i cui introiti siano inferiori ad una determinata soglia (presumendone il carattere non operativo), si pone in contrasto con gli artt. 9, par. 1, e 167 della dir. 2006/112/CE e va, quindi, disapplicato da parte del giudice nazionale, in conformità ai principi espressi dalla sentenza della Corte di giustizia UE n. 341 del 7 marzo 2024, secondo cui le misure adottate dagli Stati membri per la lotta contro frodi, evasione fiscale ed abusi non devono eccedere quanto necessario per raggiungere tale obiettivo ed essere utilizzate in modo da mettere in discussione il principio di neutralità dell’IVA».
5.2. Successivamente, con ordinanza n. 24442 dell’11 settembre 2024 si è affermato che, «In materia di società non operative, alla stregua della pronuncia della Corte di giustizia
dell’Unione europea (CGUE, sent. 7 marzo 2024 in causa C -341/22, RAGIONE_SOCIALE), l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta il cui valore economico non raggiunga la soglia fissata da una normativa nazionale, che corrisponda ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale soggetto dispone, in quanto nessuna disposizione della direttiva subordina il diritto a detrazione al requisito che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA, effettuate a valle da un soggetto passivo nel corso di un determinato periodo, raggiunga una certa soglia. Pertanto, ciò che rileva ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 è esclusivamente il fatto che detto soggetto, in un determinato periodo d’imposta, abbia esercitato effettivamente un’attività economica, ponendosi detta disposizione in contrasto con l’art. 167 della direttiva IVA nella parte in cui, invece, prevede la perdita del diritto a detrazione al mancato raggiungimento di determinate soglie di ricavi».
5.3. È stato, infine, precisato da Cass. n. 33424 del 2024 (conf. Cass. n. 33427 del 2024) che ««in tema di società non operative, anche alle società in perdita fiscale che, ai sensi dei commi 36 decies ed undecies , del d.l. n. 138 del 2011, introdotti in sede di conversione dalla legge n. 148 del 2011, vigente ratione temporis , sono equiparate a quelle di comodo di cui all’art. 30, commi 1 e 2, della legge n. 724 del 1994, va applicato il principio affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nel la sentenza 7 marzo 2024 in causa C-341/22 (RAGIONE_SOCIALE, in base al quale l’art. 9, par. 1, della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, va interpretato nel senso che
esso non può condurre a negare la qualità di soggetto passivo IVA – e quindi il diritto alla detrazione, alla compensazione, alla cessione dell’eccedenza di credito IVA e al rimborso, che non siano invocati in modo fraudolento o abusivo – al soggetto che, nel corso di un determinato periodo d’imposta, effettui operazioni rilevanti ai fini di tale imposta».
6. In estrema sintesi, il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese processuali che liquida in euro 4.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15 per cento dei compensi e agli accessori di legge.
Così deciso in Roma il 29 gennaio 2025