Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 12991 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 12991 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 15/05/2025
Oggetto: accertamento – indagini finanziarie
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22024/2022 R.G. proposto da COGNOME rappresentato e difeso in forza di procura speciale in atti dall’avv. NOME COGNOMEcon indirizzo PEC: EMAIL con domicilio eletto presso il ridetto difensore in Messina, INDIRIZZO/C
-ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del direttore pro tempore rappresentata e difesa come per legge dall’Avvocatura Generale dello Stato (con indirizzo PEC: EMAIL) con domicilio eletto presso il ridetto difensore in Messina, INDIRIZZO
– controricorrente –
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, sez. staccata di Messina, n. 732/02/2022 depositata in data 31/01/2022;
Udita la relazione della causa svolta nell’adunanza camerale del 13/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
–NOME impugnava l’avviso di accertamento relativo all’anno 2012 con il quale l’ufficio ai fini dell’iva e dell’irap sulla base delle risultanze di indagini finanziarie condotte dalla Guardia di finanza accertava maggiori componenti positivi e rideterminava reddito imponibile e volume d’affari;
-il giudice di primo grado accoglieva il ricorso;
-appellava l’Agenzia delle entrate;
-con la sentenza gravata il giudice di secondo grado ha accolto l’impugnazione dell’Ufficio e confermato la legittimità dell’atto impugnato;
-ricorre a questa Corte il contribuente con atto affidato a nove motivi di ricorso;
-l’Amministrazione finanziaria resiste con controricorso;
Considerato che:
-il primo motivo di ricorso censura la sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 36 del d. Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., per avere il giudice di merito erroneamente ritenuto valida la sottoscrizione dell’atto impugnato;
-secondo la prospettazione di parte ricorrente, i giudici di secondo grado avrebbero sia omesso l’esame del documento depositato dall’Ufficio al fine di dar prova dell’esistenza della delega di firma e della qualifica del funzionario sottoscrittore, sia mancato di verificare la motivazione dell ‘atto di delega a sottoscrivere;
-il motivo è inammissibile sotto un primo profilo;
-invero, la doglianza relativa al mancato esame del documento costituisce in realtà, così come articolata nella sua prima
declinazione, denuncia di vizio revocatorio pertanto inammissibile nella sua proposizione di fronte a questa Corte;
-inoltre, dalla lettura della sentenza impugnata si evince come il giudice di appello abbia in realtà puntualmente esaminato l’atto che si assume trascurato, prendendo in esame anche il suo contenuto motivazionale: ciò si evince dal passaggio della sentenza della CTR nel quale si scrive ‘in ogni caso l’appellante, tanto in appello quanto in primo grado, ha prodotto copia della delega di firma, atto che appare adeguato a conferire delega di firma al funzionario settoriale nella specie competente’;
-in ogni caso, quanto al profilo di doglianza relativo alla mancata motivazione della delega, la questione invero non risulta essere stata proposta nei giudizi di merito in questi precisi termini, neppure per quanto risulta in forza della trascrizione dell’eccezione svolta in primo grado come riportata nel ricorso per cassazione alle pagine 7 e 8 dell’atto; da ciò si evince, infatti, come parte ricorrente abbia eccepito il difetto di delega inteso come mancanza assoluta in actis dell’atto di delega -profilo in ordine al quale la CTR ha debitamente verificato la sussistenza della delega stessa, rigettando l’eccezione – ma non abbia fatto eccepito il vizio motivazionale della delega stessa;
-ne consegue che la preposizione di tale eccezione in questa sede di legittimità costituisce questione nuova che, come tale, va dichiarata inammissibile;
-va qui richiamato il principio per cui qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di Legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di specificità e localizzazione del ricorso per cassazione, di indicare in quale
atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (Cass. Sez.6 5, ordinanza n. 32804 del13/12/2019);
-il secondo motivo di ricorso si duole della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 57 c.1 del d. Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. per avere la sentenza impugnata mancato di dichiarare inammissibile la domanda nuova proposta dall’Agenzia delle entrate – che in quanto inammissibile doveva estendere la sua inammissibilità anche alla possibilità di produrre documenti nuovi ex art. 58 del d. Lgs. n. 546 del 1992 -relativa all’esistenza del potere sostitutivo in campo a funzionario che aveva sottoscritto l’avviso di accertamento, esistenza che l’Ufficio ha provato con i documenti prodotti in sede di appello;
-il motivo è infondato;
-in primo luogo, la sentenza impugnata ha verificato come già in primo grado l’Ufficio abbia prodotto la delega in argomento, con ciò contestando direttamente ed espressamente l’eccezione relativa alla sua mancanza;
-in secondo luogo, questa Corte, nella sua giurisprudenza consolidata, costantemente ammette che la delega in oggetto possa prodursi anche in sede di appello, non ostandovi alcuna preclusione processuale (si veda Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 8313 del 04/04/2018), secondo la quale nel processo tributario, la produzione di nuovi documenti in appello è generalmente ammessa ai sensi dell’art. 58, comma 2, del d. Lgs. n. 546 del 1992: tale principio opera anche nell’ipotesi di deposito in sede di gravame dell’atto impositivo notificato, trattandosi di mera difesa, volta a contrastare le ragioni poste a fondamento del ricorso originario, e non di eccezione in senso stretto, per la quale opera la preclusione di
cui all’art. 57 del detto decreto (in argomento Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27774 del 22/11/2017; Cass. Sez. 6 5, Ordinanza n. 22776 del 06/11/2015);
-il terzo motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. per avere la sentenza impugnata mancato di verificare se l’ufficio aveva fornito la prova della legittimità e della fondatezza della pretesa erariale azionata con l’atto impugnato prima di richiedere all’istante la prova del contrario e per avere del tutto ignorato le argomentazioni del contribuente;
-sotto un primo profilo il motivo risulta inammissibile;
-invero l’articolazione dello stesso ripropone, nel concreto, doglianze di merito il cui scrutinio è evidentemente precluso a questo giudice di Legittimità;
-inoltre, la censura risulta infondata alla luce, delle affermazioni svolte dalla pronuncia gravata specialmente a pag. 3, quinto capoverso, e a pag. 3 nelle ultime righe;
-in tali passaggi argomentativi e motivazionali il giudice del merito, in primo luogo, fa applicazione dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, osservando puntualmente i principi espressi da questa Corte secondo i quali ‘in tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle
prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze’ (cfr., ad es., Cass. Sez. 5, n. 13112 del 30/06/2020, Rv. 65839201). In ragione di quanto precede, la presunzione ‘consente all’Amministrazione finanziaria di riferire ‘de plano’ ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente’ (Cass. Sez. 5, n. 10249 del 26/04/2017, Rv. 64409801). Ciò significa che, ‘qualora l’accertamento effettuato dall’Ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova, non generica, ma analitica, per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili’ (in termini, da ultimo, Cass. Sez. 5, n. 15857 del 29/07/2016). Da ciò deriva che ‘poiché il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dagli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, il Giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa in ordine all’efficacia dimostrativa delle prove fornite dallo stesso, rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione’ (Cass. Sez. 6 -5, n. 10480 del 03/05/2018);
-secondariamente, a quanto sopra affermato ha dimostrato di aver aderito la CTR, la quale scrive, dopo aver richiamato proprio l’art. 2729 c.c., che ‘… i versamenti ed i prelevamenti effettuati su conti correnti bancari riferibili all’impresa vanno imputati ricavi conseguiti dal contribuente nella propria attività
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imprenditoriale, salvo che questi non dimostri di averne tenuto conto nella determinazione della base imponibile, oppure la loro estraneità la produzione del reddito’; e ancora ‘… è onere del contribuente, a carico del quale si determina una inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’amministrazione è soddisfatto per legge attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti…’
-pertanto, non è dato rilevare alcuna violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. posto che la violazione dell’art. 115 c.p.c. presuppone che il giudice abbia fondato la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass. civ., 12 aprile 2017, n. 9356) mentre la violazione dell’art. 116 c.p.c. – norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale – presuppone che il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. civ., 10 giugno 2016, n. 11892);
-nessuna delle due circostanze viene qui ad esistenza per le ragioni sopra illustrate;
-il quarto motivo di ricorso si incentra sulla violazione falsa applicazione dell’art. 39 c. 1 lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 55 del d.P.R. n. 633 del 1972 per avere la pronuncia gravata ritenuta applicabile, erroneamente, la procedura di accertamento induttivo;
-il motivo risulta inammissibile, in quanto fuori bersaglio rispetto alla ratio decidendi della pronuncia impugnata;
-in realtà, dalla lettura della pronuncia impugnata e in particolar modo dai passaggi già sopra riportati, si evince con chiarezza
come la pretesa manifestata dall’Ufficio sia fondata sulle risultanze delle indagini finanziarie, e come tale si basi sulle speciali presunzioni sopra descritte, disciplinate da normativa ad hoc e non riconducibili all’art. 39 c. 1 lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973, per quanto in via generale -dal punto di vista concettuale -strumenti di prova presuntiva anch’esse;
-la doglianza presentata risulta così inammissibile poiché si appunta su questioni del tutto estranee all’ ordito motivazionale fornito dalla CTR senza muovere invece alcuna critica alla ratio decidendi posta a base della decisione impugnata (“in tema di ricorso per cassazione è necessario che venga contestata specificamente la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata”; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017). Più precisamente, secondo la giurisprudenza di questa Corte il motivo d’ impugnazione è rappresentato dall’ enunciazione, alla luce dello schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l’ esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’ esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata; queste ultime, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo il motivo che non rispetti questo requisito; in riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’ inammissibilità ai sensi dell’
art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. (Cass. Sez. 3, Sentenza 14/3/2017 n. 6496, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 17330 del 31/08/2015, Rv. 636872, Sez. 3, Sentenza n. 359 del 11/01/2005, Rv. 579564, tutte citate in motivazione da Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 8755 del 10/04/2018);
-il quinto motivo di ricorso si incentra, in relazione all’art. 360 c. 1 n. 4 c.p.c., sulla omessa decisione da parte della CTR in ordine all’eccezione proposta dal contribuente che denunciava la carenza di motivazione dell’avviso di accertamento;
-il motivo è infondato;
-con riguardo all’omessa pronuncia in relazione al difetto di motivazione, non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, non occorrendo specifica argomentazione in proposito; nel qual caso è sufficiente quella motivazione che fornisca una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (Cass., Sez. V, 2 aprile 2020, n. 7662; Cass., Sez. V, 6 dicembre 2017, n. 29191). L’accoglimento nel merito della pretesa dell’Ufficio comporta, nella specie, rigetto implicito delle questioni pregiudiziali, tra cui quella indicata nel motivo in argomento;
-in ogni caso, poi, l’aver il contribuente spiegato ampie difese anche nei gradi di merito fa concludere per l’idoneità della motivazione dell’avviso di accertamento;
-il sesto motivo di ricorso lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 c. 1 e c. 3 del d.P.R. n. 600 del 1973 e la nullità dell’accertamento per omessa motivazione ed omessa allegazione di documenti ignoti al contribuente;
-secondo la parte ricorrente, l’avviso di accertamento impugnato sarebbe difettoso quanto alla motivazione perché ad esso non sono stati allegati i documenti non conosciuti dal contribuente neppure riportati nella parte motiva della rettifica; si tratta in particolare della copia della segnalazione pervenuta dalla Guardia di finanza di Messina – Comando regionale del Corpo, della copia dell’autorizzazione per l’accesso ai rapporti finanziari e della copia del provvedimento di autorizzazione all’accesso a domiciliare;
-con riferimento alla mancata allegazione all’avviso di accertamento degli atti e alle autorizzazioni relative all’accesso da parte dell’Amministrazione Finanziaria ai dati finanziari del contribuente, il motivo è infondato;
-con orientamento ormai da tempo consolidato, tanto con riguardo all’art. 32, comma 7, d.P.R. n. 600 del 1973, in materia di imposte dirette, quanto con riferimento all’art. 51, comma 2, n. 7, d.P.R. n. 633 del 1972, in materia di IVA, questa Corte ha affermato che la mancanza dell’autorizzazione ai fini della richiesta di acquisizione, dagli istituti di credito, di copia delle movimentazioni dei conti bancari, non implica, in assenza di previsioni specifiche, l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, salvo che ne sia derivato un concreto pregiudizio ai contribuente ovvero venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale dello stesso, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio, in quanto detta autorizzazione attiene solo ai rapporti interni ed in materia tributaria non vige il principio, invece sancito dal codice di procedura penale, dell’inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita (Cass., 28 maggio 2018, n. 13353, in materia di imposte dirette; Cass., 1 aprile 2003, n. 4987, in materia di Iva; sulla necessità che l’omissione dell’autorizzazione debba essersi tradotta in un concreto pregiudizio per il contribuente
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cfr. Cass., 14 aprile 2018, n. 9480). La giurisprudenza di legittimità ha anche chiarito che non vi sia neppure obbligo di allegazione della autorizzazione. Si è infatti affermato che l’autorizzazione prescritta dall’art. 51, comma 2, n. 7, cit., ai fini dell’espletamento delle indagini bancarie, esplica una funzione organizzativa, incidente nei rapporti tra uffici, e non richiede alcuna motivazione, sicché la sua mancata allegazione ed esibizione all’interessato non comporta l’illegittimità dell’avviso di accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite, che può derivare solo dalla sua materiale assenza e sempre che ne sia derivato un concreto pregiudizio per il contribuente (Cass., 10 febbraio 2017, n. 3628; 21 luglio 2009, n. 16874; 26 settembre 2014, n. 20420). In particolare, si è avvertito come «…l’esibizione tempestiva di tale autorizzazione non è indispensabile neppure ai fini del controllo della motivazione della stessa, considerato che, in tema di accertamento delle imposte sia dirette che indirette, l’autorizzazione necessaria agli Uffici per l’espletamento di indagini bancarie non deve essere corredata dall’indicazione dei motivi che ne hanno giustificato il rilascio. E ciò per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, perché in relazione a detta autorizzazione la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, a differenza di quanto stabilito, invece, per gli accessi e le perquisizioni domíciliari, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52. Ma poi, anche perché la medesima autorizzazione, ad onta del “nomen iuris” adottato, esplicando una funzione organizzativa, incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici, e avendo natura di atto meramente preparatorio, inserito nella fase di iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, non è nemmeno qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali, rispettivamente, la L. 7 agosto 1990, n. 241,
art. 3, comma 1, e la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, prevedono l’obbligo di motivazione (cfr. Cass. 14026/12; 5849/12).». E si conclude affermando che «per tali ragioni, pertanto, il fatto che l’autorizzazione in parola non sia stata allegata, è da reputarsi del tutto irrilevante ai fini della validità degli atti impositivi emessi dall’Ufficio, non essendo stati addotti dal contribuente motivi di pregiudizio diversi dalla sindacabilità della motivazione di tale autorizzazione, in relazione alla quale,….la legge non prevede obbligo alcuno di motivazione.» (così Cass. n. 3628/2017 cit., in controversia riguardante Irap ed IVA e dunque con riferimento all’art. 32 d.P.R. n. 600 del 1973, e all’art. 51 d.P.R. n. 633/1972). In continuità con i precedenti di questa Corte, che questo Collegio condivide, può affermarsi in conclusione che «in materia di indagini bancarie la mancanza di autorizzazione, prevista dall’art. 32, comma 1, n. 7 del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’accertamento delle imposte dirette, e dall’art. 51, comma 2, n. 7 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di imposta sul valore aggiunto, ai fini della richiesta di acquisizione dagli istituti di credito di copia delle movimentazioni dei conti correnti e di qualsiasi rapporto intrattenuto presso banche o operatori finanziari non implica l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, salvo previsioni specifiche e salvo che ne sia derivato un concreto pregiudizio al contribuente; inoltre, esplicando una funzione organizzativa, incidente nei rapporti tra gli uffici, non richiede alcuna motivazione e la sua mancata allegazione ed esibizione &l’interessato non comporta l’illegittimità dell’avviso d’accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite». Nel caso di specie, va anche rilevato che poiché il contribuente non ha neppure evidenziato quale concreto pregiudizio avrebbe subito dalla mancata allegazione
di una autorizzazione, risulta comunque ulteriormente infondata l’eccepita illegittimità degli atti di verifica successivi;
-con riguardo poi al profilo relativo alla mancata allegazione dell’avviso di accertamento dell’autorizzazione del Pubblico Ministero all’accesso domiciliare, la censura è inammissibile, in quanto non connessa con la ratio decidendi della pronuncia gravata, che non fa riferimento alcuno a elementi di prova -posti a base della decisione -acquisiti a seguito di accesso domiciliare;
-in ultimo, con riguardo alla ventilata mancata allegazione all’avviso di accertamento di ‘altre verifiche eseguite presso altri soggetti e dei successivi processi verbali’ che pure si eccepisce nel motivo, la doglianza è del tutto generica -neppure identificando o descrivendosi nella censura tali elementi di prova -e risulta quindi completamente inammissibile per tale ragione;
-il settimo motivo di ricorso censura la pronuncia impugnata per violazione delle norme che disciplinano la formazione del reddito di impresa, vale a dire gli artt. 55 e seguenti TUIR; secondo il contribuente la pronuncia impugnata avrebbe mancato, in sintesi e in sostanza, di riconoscere i maggiori costi connessi alla produzione dei maggiori ricavi oggetto di accertamento;
-tale motivo risulta fondato;
-va puntualizzato che, secondo l’orientamento espresso tradizionalmente da questa Corte «in tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare
l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario » (Cass., 28 novembre 2022, n. 34996; Cass., 18 ottobre 2021, n. 28580; Cass., 5 ottobre 2018, n. 24422; Cass., 29 settembre 2017, n. 22868). Tuttavia, come affermato di recente da questa Corte, tale opzione interpretativa deve essere rivisitata alla luce della pronuncia della Corte costituzionale n. 10 del 31 gennaio 2023, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nella parte in cui pone la presunzione per la quale i prelevamenti sul conto corrente, se non risultano dalle scritture contabili, sono considerati ricavi dell’imprenditore commerciale, salvo che ne sia indicato il beneficiario, essendo possibile un’interpretazione adeguatrice della norma(cfr. Cass., 23 febbraio 2023, n. 5586). La Corte Costituzionale, in particolare, ha osservato che, in caso di accertamento induttivo in senso stretto (o «puro»), l’impossibilità di una ricostruzione complessiva della contabilità (o, comunque, la generalizzata inattendibilità della stessa) ha da tempo indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare il principio secondo il quale deve riconoscersi la deduzione dei costi di produzione, determinata anche in misura percentuale forfettaria, precisando che è lo stesso ufficio finanziario ad essere onerato di determinare induttivamente non solo i ricavi, ma anche i corrispondenti costi. L’accertamento analitico – contabile (che ha dato origine all’incidente di legittimità costituzionale) si caratterizza -invece – per la rettifica di singole componenti del reddito dichiarato e può derivare dal confronto tra la dichiarazione e le scritture contabili (il bilancio, in particolare) e dall’esame della documentazione posta a fondamento della
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contabilità, come le risultanze delle movimentazioni bancarie. Presupposto dell’utilizzo del metodo analitico o «misto» è l’attendibilità complessiva della contabilità, che consente la rettifica di singole componenti reddituali: in sostanza, la determinazione del reddito è compiuta nell’ambito delle risultanze della contabilità, ma con una ricostruzione induttiva di singoli elementi attivi o passivi, dei quali risulta provata aliunde la mancanza o l’inesattezza. Proprio la presenza di una contabilità generalmente attendibile, e una ripresa a tassazione che si realizza mediante rettifiche di singole «poste» della stessa, implica che, ai fini della deduzione dei costi, operi in generale la regola ritraibile dall’art. 109 TUIR, in forza della quale, se gli stessi non sono presenti nel conto economico, possono essere dedotti solo se risultano da elementi certi e precisi, dei quali l’onere della prova è a carico del contribuente. Da tale sistema, secondo il giudice delle leggi, deriverebbero esiti irragionevoli -quindi contrarsi a Costituzione – perché finirebbe per prevedere un trattamento più severo, quanto al regime della possibile prova contraria rispetto alla presunzione legale in esame, in danno del contribuente che ha tenuto una contabilità complessivamente attendibile (e che può essere destinatario di un accertamento analitico-induttivo), rispetto al regime probatorio di cui si avvale chi, destinatario di un accertamento induttivo, ha omesso qualsiasi contabilità, ovvero ne ha tenuta una complessivamente inattendibile o ha posto in essere gravi condotte, quale l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi. Pertanto, la disposizione censurata , intanto si sottrae alle censure di illegittimità costituzionale, in quanto la si interpreti nel senso che, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi «occulti», scaturente da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore possa sempre, anche in caso di accertamento
analitico- induttivo opporre la prova presuntiva contraria e in particolare possa eccepire la «incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati» (cfr. anche Corte costituzionale 6 giugno 2005, n. 225, espressamente richiamata);
-inoltre, per quanto trattasi ovviamente di affermazione non vincolante per il giudice, la stessa Agenzia delle entrate, con circolare n. 32/E/2006 (capitolo quinto, punto 5.5), aveva già affermato, con riguardo agli accertamenti induttivi «puri», che «il riconoscimento di costi doveva essere livellato – anche in misura percentualistica – in ragione dei maggiori ricavi accertati sulla base del meccanismo presuntivo» di cui all’art. 32, primo comma, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973 e, a seguito della richiamata pronuncia della Corte costituzionale, tale principio deve ritenersi estensibile anche al caso di utilizzo del metodo analitico o «misto»(cfr. Cass., 23 febbraio 2023, n. 5586, in motivazione);
-pertanto, in accoglimento del settimo motivo di ricorso, la sentenza è sul punto cassata con rinvio al giudice del merito per nuovo esame della questione alla luce dei principi sopra enunciati;
-all’esito della decisione che precede, l’ottavo e il nono motivo sono assorbiti;
-i restanti motivi sono rigettati;
p.q.m.
accoglie il settimo motivo di ricorso; dichiara assorbiti l’ottavo e il nono motivo; rigetta i restanti motivi; cassa la sentenza impugnata limitatamente al profilo di cui al motivo oggetto di accoglimento e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Sicilia, in
diversa composizione, che statuirà anche quanto alle spese processuali del presente giudizio di Legittimità. Così deciso in Roma, il 13 marzo 2025.