Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 23937 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 23937 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/08/2025
ORDINANZA
n. 1041/2016 R.G.
COGNOME
Rep.
A.C. 12 giugno 2025
sul ricorso (iscritto al n. 1041/2016 R.G.) proposto da:
RAGIONE_SOCIALE con sede in San Benedetto del Tronto (AP), alla INDIRIZZO (Partita IVA: P_IVA, in persona del legale rappresentante pro tempore , elettivamente domiciliato in Roma, al INDIRIZZO, presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME unitamente all’avv. NOME COGNOME che rappresenta e difende la società stessa, giusta procura speciale a margine del ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità (indirizzo p.e.c. del difensore: ‘ avvsergiogabrielli01EMAIL ‘);
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata ‘ ope legis ‘ presso gli uffici di quest’ultima, siti in Roma, alla INDIRIZZO (indirizzo p.e.c.: EMAIL);
-controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale delle Marche (Ancona) n. 178/15/2015, pubblicata il 26 maggio 2015;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 12 giugno 2025, dal Consigliere relatore dott. NOME COGNOME
letta la memoria illustrativa depositata nell’interesse dell a ricorrente, ai sensi dell’art. 380 -bis .1. c.p.c.;
FATTI DI CAUSA
1.- In punto di fatto e limitando l’esposizione alle sole circostanze rilevanti in questa sede, si osserva che la controversia ha ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento relativo ad imposte dirette ed IVA per l’anno d ‘ imposta 2006, emesso a seguito della verifica delle operazioni bancarie registrate sui conti correnti dei soci della società RAGIONE_SOCIALE
La CTP di Ascoli Piceno respingeva il ricorso della società contribuente.
2.- La CTR delle Marche (Ancona), con la sentenza impugnata, rigettava l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE, affermando che: l’avviso di accertamento era congruamente motivato con riferimento alle risultanze della verifica fiscale e, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non era necessario allegare all’atto impositivo la documentazione bancaria oggetto di verifica, in quanto l’atto impositivo conteneva un espresso rinvio al p.v.c. regolarmente consegnato al legale rappresentante della società, il contenuto degli accertamenti bancari era stato riversato nell’atto impositivo e le risultanze di tali accertamenti erano note alla contribuente il cui legale rappresentante aveva dichiarato espressamente di non essere in grado di fornire giustificazioni su quanto emerso dal conto corrente della società e che, invece, le altre movimentazioni bancarie contestate per oltre €. 800.000,00 (euro ottocentomila/00) provenivano da somme nella disponibilità del figlio NOME NOME, titolare della società RAGIONE_SOCIALE operante nel settore dell’edilizia; – la società contribuente non aveva dimostrato la riconducibilità delle somme riscontrate sui conti correnti dei soci ad attività della società immobiliare del figlio NOME (che, secondo la società contribuente, era stato destinatario di altro e diverso avviso di accertamento), sicché, da un lato, non era necessario analizzare e giustificare le fonti di reddito di tale società, dall’altro non si era verificata alcuna doppia imposizione; oggetto dell’attività della società contribuente era quello dell’attività di compravendita di immobili e, dunque, si doveva presumere il compimento di compravendite immobiliari tali da produrre
redditi non dimostrati nella loro reale produzione ed i ricavi fittiziamente riversati sui conti dei soci che non potevano averli prodotti in quanto impossidenti; – non poteva riconoscersi la deduzione forfettaria di costi per difetto di prova certa dal loro sostenimento; – dal p.v. di verifica della Guardia di Finanza, sottoscritto da NOME NOME emergeva che i verbalizzanti avevano informato la società contribuente delle ragioni della verifica fiscale ed avevano esibito l’autorizzazione rilasciata dal Comandante della G.d.F. all’esecuzione della verifica fiscale; – non vi era stata alcuna violazione dei termini di permanenza dei verificatori di cui all’art. 12, comma 5, l. n. 212 del 2000 in quanto, « un conto è la verifica presso la sede del contribuente, altra cosa è la verifica eseguita presso gli uffici dell’organo di verifica »; – non ricorrevano le condizioni per la riduzione delle sanzioni applicate.
3.Avverso la menzionata sentenza d’appello, la contribuente società RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi.
4.L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
5.- La contribuente ha depositato memoria illustrativa , ai sensi dell’art. 380bis .1. c.p.c.;
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Deve, preliminarmente, essere esaminata e disattesa, perché infondata, l’eccezione di tardività del ricorso per cassazione, sollevata dall’amministrazione finanziaria controricorrente .
Ed invero, la sentenza impugnata è stata depositata in data 26 maggio 2015 e non è stata notificata, sicché il termine lungo per la proposizione del ricorso per cassazione, ex art. 327 c.p.c., computati i trentuno (31) giorni di sospensione per il periodo feriale, andava a scadere domenica, 27 dicembre 2015, con proroga al giorno feriale successivo (lunedì, 28 dicembre 2015) ex art. 155, comma 4, c.p.c., data in cui il ricorso risulta essere stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica zione, non essendo rilevante né la data in cui quest’ultimo ha poi provveduto alla spedizione dell’atto a mezzo posta, né quella di ricezione dell’atto da parte del destinatario, alla stregua del noto principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio (Corte cost. n. 69 del 1994 e n. 477 del 2002; Cass. civ., Sez. 3, sentenza n. 2565 del 6
febbraio 2007, Rv. 595853-01; Cass. civ., Sez. U, sentenza n. 40543 del 17 dicembre 2021, Rv. 663252-01).
2.- Prima di passare alla disamina del merito relativo ai motivi di ricorso, va fatta un’ulteriore precisazione, ovvero che, diversamente da quanto sostenuto dall ‘amministrazione finanziaria controricorrente, la società contribuente non è cessata, per come risulta dalla visura camerale la cui produzione effettuata dalla ricorrente è ammissibile ex art. 372 c.p.c., in quanto diretta a provare l’ammissibilità del ricorso ( cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. 3, ordinanza n. 6397 del 3 marzo 2023, Rv. 667158-01).
3.- Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la « Violazione o falsa applicazione delle norme di diritto con riferimento alle prescrizioni di cui agli artt. 32 e segg. D.P.R. n. 600/1973 » nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., la « Violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e nullità della sentenza per violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ultrapetizione ».
Sostiene, al riguardo, che l’amministrazione finanziaria non av rebbe né dedotto né provato l’intestazione fittizia dei conti correnti intestati ai soci, e nemmeno che la società avesse svolto effettivamente attività d’impresa. Inoltre, poiché l’avviso di accertamento e il prodromico p.v.c. si fondavano sul presupposto che le somme rinvenute sui conti correnti dei soci appartenessero a questi ultimi, la sentenza impugnata, nell’affermare l’interposizione fittizia nell’intestazione dei predetti conti, avrebbe pronunciato ultrapetita .
4.- Il motivo in esame pone la questione della legittimità delle riprese fiscali operate a carico di una società sulla scorta delle risultanze delle verifiche relative alle movimentazioni dei conti correnti intestati non solo alla società verificata, ma anche ai soci, amministratori o a soggetti legati a questi da particolari e stretti rapporti personali. Questione di cui questa Corte regolatrice si è più volte occupata (cfr., tra le più recenti, Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 7583 del 21 marzo 2025, non massimata; Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 31750 del 10 dicembre 2024, Rv. 673243-01; Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 20816 del 21 luglio 2024, Rv. 672031-01, in motivazione; Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 35856 del 22 dicembre 2023,
non massimata) enucleando i principi che vengono di seguito riportati e che questo Collegio intende ribadire.
Anzitutto, si è affermato che, in tema di accertamenti fiscali, tanto in materia di imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 32, comma 1, n. 2), del d.P.R. n. 600 del 1973, quanto in materia di IVA, ex art. 51, comma 2, n. 2), del d.P.R. n. 633 del 1972, le presunzioni ivi stabilite, secondo cui le movimentazioni sui conti bancari risultanti dai dati acquisiti dall’amministrazione finanziaria si presumono conseguenza di operazioni imponibili, operano anche in relazione alle società di capitali con riferimento alle somme di denaro movimentate sui conti intestati ai soci o ai loro congiunti, conti che debbono ritenersi riferibili alla società contribuente stessa, in presenza di alcuni elementi sintomatici, come la ristretta compagine sociale e il rapporto di stretta contiguità familiare tra l’amministratore, o i soci, e i congiunti intestatari dei conti bancari soggetti a verifica, risultando, in tal caso, particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei soci e dei loro familiari debbano, in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario, ascriversi allo stesso ente sottoposto a verifica (Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 22224 del 12 settembre 2018, non massimata; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 20851 del 14 ottobre 2016, non massimata; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 4788 dell’ 11 marzo 2016, non massimata; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 12276 del 12 giugno 2015, Rv. 63567101; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 428 del 14 gennaio 2015, Rv. 63423401; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 26829 del 18 dicembre 2014, Rv. 633838-01; cfr., altresì, Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 33596 del 18 dicembre 2019, Rv. 656410-02).
Nel senso della riconducibilità delle movimentazioni dei conti correnti dei soci alla società verificata nel caso di ristretta base azionaria, si è espressa Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 30098 del 21 novembre 2018, Rv. 651555-01 secondo cui, « In tema di accertamenti sui redditi di società di persone a ristretta base familiare, l’Ufficio finanziario può legittimamente utilizzare, nell’esercizio dei poteri attribuitigli dall’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, le risultanze di conti correnti bancari intestati ai soci, riferendo alla società le operazioni ivi riscontrate, perché la relazione di parentela tra i soci è idonea a far presumere la sostanziale
sovrapposizione tra interessi personali e societari, identificandosi gli interessi economici in concreto perseguiti dalla società con quelli propri dei soci, salva la facoltà dell’ente di dimostrare l’estraneità delle singole operazioni alla comune attività d’impresa. ».
Tali principi devono, però, confrontarsi con quell’orientamento, anch’esso da tempo presente nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità, che non reputa sufficiente, per acquisire i dati bancari relativi a terzi, estranei alla società, la sola sussistenza del rapporto familiare o della qualità di socio o di amministratore, ma impone che l’Agenzia delle entrate dimostri la sussistenza di indizi valevoli a far presumere la riconducibilità alla società delle somme transitate sui conti correnti personali, cosicché si è affermato il principio in base al quale « le indagini bancarie nei confronti di una società a responsabilità limitata possono essere estese ai conti correnti dei soci della stessa soltanto se sussistano elementi indiziari che inducano a ritenere che gli stessi siano stati utilizzati per occultare operazioni fiscalmente rilevanti » (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 33596 del 18 dicembre 2019, Rv. 656410-02, in cui si richiamano Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 12817 del 12 maggio 2018, non massimata, nonché Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 11145 del 20 maggio 2011, Rv. 617801-01 e, ancora, Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 8826 del 28 giugno 2001, Rv. 547802-01).
Si tratta di un orientamento rinvenibile anche nelle più recenti pronunce già sopra menzionate e che è stato affermato anche con riguardo agli accertamenti in materia di imposte dirette.
In tale materia, questa Corte, pur ribadendo che le verifiche fiscali finalizzate a provare, per presunzioni, la condotta evasiva possono riguardare anche i conti bancari intestati al coniuge o al familiare del contribuente, potendo desumersi la riferibilità a quest’ultimo da elementi sintomatici, quali: il rapporto di stretta familiarità, l’ingiustificata capacità reddituale dei prossimi congiunti nel periodo di imposta considerato, l’infedeltà delle dichiarazioni e l’esercizio di attività da parte del contribuente compatibile con la produzione della maggiore redditività riferita a dette persone (cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. 5; sentenza n. 546 del 15 gennaio 2020, non massimata), si è comunque precisato che la sola sussistenza dello stretto vincolo familiare fra il contribuente e il
terzo non è un dato sufficiente per assurgere a prova presuntiva qualificata delle riferibilità, in tutto o in parte, al contribuente accertato delle movimentazioni del conto corrente intestato al familiare, occorrendo che tale vincolo sia accompagnato dalla indicazioni di altri elementi, il cui onere di allegazione è a carico dell’Ufficio, idonei a dimostrare, in via logico-presuntiva, che la situazione reddituale del soggetto terzo intestatario del conto è incompatibile o comunque non può giustificare le movimentazioni riscontrate sul conto che, per tale ragione, può fondatamente ritenersi nella disponibilità effettiva del contribuente accertato (Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 32974 del 20 dicembre 2018; Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 34747 del 12 dicembre 2023, Rv. 66984301; Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 20816 del 21 luglio 2024, Rv. 67203101, in motivazione).
Orbene, nel caso di specie i giudici di appello si sono attenuti ai suddetti principi avendo rilevato, da un lato, lo stretto vincolo familiare tra l’amministratore della società, Am a dio NOME, e l’altra socia, suo coniuge, e dall’altro che i predetti soci erano impossidenti (circostanza evidenziata a pag. 8 della sentenza impugnata e non contestata), sicché non si giustificavano gli ingenti importi rinvenuti sui conti correnti loro intestati.
La censura in esame è quindi infondata al pari di quella con cui è stata dedotta l’ultrapetizione in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata che muove dall’erroneo presupposto, clamorosamente smentita dal contenuto dell’avviso di accertamento, che « i denari rinvenuti sui conti correnti dei due soci appartenessero agli intestatari dei conti correnti » e che « l’atto tributario non si era fondato affatto sulla simulazione relativa soggettiva nella intestazione dei conti correnti personali dei soci» . Invero, nell’atto impositivo allegato al ricorso emerge, con assoluta evidenza, che tali importi erano riconducibili alla società contribuente e relativi alla « mancata contabilizzazione di elementi positivi di reddito » da parte della stessa. Tutto ciò, in ragione del fatto che i soci erano titolari di redditi personali assai esigui e che quindi non si giustificava, né era stata giustificata, la titolarità delle ingenti somme rinvenute su tali conti correnti.
Il motivo di ricorso dev’essere , pertanto, complessivamente rigettato.
5.- Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c. , l’« Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio », con riferimento all’accertata interposizione fittizia nell’intestazione dei conti correnti bancari, all’esistenza di una società di fatto tra i soci della società contribuente ed il figlio NOME, amministratore di altra società, nonché all’inesistenza di una qualche attività d’impresa svolta da essa ricorrente.
6.Con il terzo motivo la ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., l ‘ « Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio », con riferimento alla questione della riconducibilità delle somme accertate sui conti correnti dei due soci della società contribuente alla società amministrata dal figlio NOME
7.- Innanzitutto, occorre dato atto che la motivazione della sentenza impugnata non è né mancante, né contraddittoria e tanto meno apparente, atteso che essa, per come dato atto nella parte relativa allo svolgimento del processo, esibisce una motivazione congrua, logicamente argomentata ed effettiva sia dal punto di vista grafico che contenutistico (Cass. civ., Sez. U., sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014, Rv. 629830-01), ponendosi ben al di sopra del minimo costituzionale di cui all’art. 111, comma 6, Cost..
Quanto, invece, al profilo di insufficienza della motivazione della sentenza impugnata, deve ricordarsi il principio nomofilattico in base al quale « La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione » (Cass. civ., Sez. U., sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014, Rv. 629830-01, già sopra citata, cui hanno fatto seguito numerose pronunce conformi delle sezioni ordinarie, tra cui Cass. civ., Sez. 1, ordinanza n. 7090 del 3 marzo 2022, Rv. 664120-01, nonché Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 6986 del 9 marzo 2023, Rv. 667340-01, in motivazione).
Inoltre, i motivi sono inammissibili perché formulati in violazione del disposto di cui all’art. 348 -ter c.p.c., ora art. 360, comma 4, c.p.c., vertendosi, nella specie, in ipotesi di doppia pronuncia di merito conforme in relazione alle censure dedotte, peraltro senza che la ricorrente abbia assolto al l’onere di indicare i profili di divergenza tra le ragioni di fatto a base della decisione di primo grado e quelle a base del rigetto dell’appello, com’era invece necessario per dar ingresso alla censura proposta (cfr. Cass. civ., Sez. 1, sentenza n. 26774 del 22 dicembre 2016, Rv. 64324403; Cass. civ., Sez. 2, sentenza n. 5528 del 10 marzo 2014, Rv. 63035901 e, più recentemente, Cass. civ., Sez. 3, ordinanza n. 5947 del 28 febbraio 2023, Rv. 667202-01).
Non v ‘è , poi, evidenza alcuna di precisi fatti storici la cui valutazione sarebbe stata omessa, ma, semmai, di argomentazioni e tesi sviluppate dalla ricorrente, in particolare circa la riconducibilità delle somme riprese a tassazione alla società immobiliare amministrata dal figlio, che, peraltro, diversamente da quanto sostenuto nei motivi in esame, sono state considerate dai giudici di appello ed espressamente ritenute non condivisibili.
Al riguardo, deve soggiungersi che i motivi di cui si tratta incorrono nel vizio di inammissibilità per difetto di specificità, avendo la società contribuente omesso di trascrivere in ricorso e di localizzare, tra gli atti allegati e quelli prodotti nei giudizi di merito, la documentazione che proverebbe quanto lamentato mediante le censure in esame, essendosi limitata semplicemente a riportare « per sintesi », in uno specchietto formato alle pagg. 26 e 27 del ricorso, presunte operazioni di bonifici, peraltro quasi tutte eseguite in anni diversi da quello oggetto di accertamento (anno d’imposta 200 6).
8.- Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., la « Violazione o falsa applicazione del D. Lgs. 31.12.1992 n. 546 (art. 1429) e dell’art. 354 in combinato disposto con l’art. 102 c.p.c., nullità assoluta della sentenza rilevabile in ogni stato e grado del procedimento anche d’ufficio » nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la « Violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR) art. 5 ed inapplicabilità di tale disposizione normativa a società di capitali » e infine, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., l ‘ « Omessa motivazione circa un fatto decisivo della controversia ».
Sostiene, al riguardo, che la sentenza impugnata avrebbe affermato l’esistenza di una società di fatto tra i due soci ed il figlio NOME e quindi avrebbe dovuto disporre l’integrazione del contraddittorio « nei confronti di questo autonomo soggetto giuridico e di tutti i suoi soci, ivi compreso il socio di fatto rappresentato dal figlio dei due soci di diritto della RAGIONE_SOCIALE ».
Ritiene questo Collegio che il motivo in esame sia manifestamente infondato.
Ed invero, l ‘affermazione di cui si tratta, contenuta a pag. 9 della sentenza impugnata, è chiaramente stata fatta al fine di dare atto di quella « promiscuità » di rapporti tra i soci, coniugi tra loro, ed il figlio NOME, che poi i giudici di appello hanno escluso affermando con fermezza (in neretto nella sentenza impugnata) che la tesi difensiva circa la riconducibilità di quelle somme all’attività del figlio NOME « è priva di ogni benché minimo elemento di riscontro ed appare anzi smentita dai fatti ». Affermazione, questa, che è incompatibile con la sussistenza di una società di fatto tra i soci della ricorrente e il figlio degli stessi.
Sicuramente va escluso il litisconsorzio necessario tra società di capitali a ristretta base sociale e i soci. Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, « l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi della società di persone e di quelle dei singoli soci comporta, in linea di principio, la configurabilità di un litisconsorzio necessario, con il conseguente obbligo per il giudice, investito dal ricorso proposto da uno soltanto dei soggetti interessati, di procedere all’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 546 del 1992, pena la nullità assoluta del giudizio stesso,
rilevabile – anche d’ufficio – in ogni stato e grado del processo » (cfr., in tal senso, Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 16730 del 25 giugno 2018, Rv. 649377-01; ma la giurisprudenza della S.C. è pacifica a partire da Cass. civ., Sez. U, sentenza n. 14815 del 4 giugno 2008, Rv. 603330-01; cfr., a mero titolo esemplificativo, anche Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 27603 del 30 ottobre 2018, Rv. 650967-01; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 15116 del l’ 11 giugno 2018, Rv. 649266-01; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 1472 del 22 gennaio 2018, Rv. 647100-01; Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 26648 del 10 novembre 2017, Rv. 646219-01; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 15566 del 27 luglio 2016, Rv. 640634-01; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 25300 del 28 novembre 2014, Rv. 633451-01; litisconsorzio escluso dalla Corte unicamente in caso di controllo automatizzato delle dichiarazioni della società, senza rideterminazione del reddito: cfr. Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 9527 del l’ 11 maggio 2016, Rv. 639771-01).
Un simile orientamento, assolutamente consolidato in tema di società di persone e volto al riconoscimento del litisconsorzio necessario tra società e soci, non è stato, invece, riproposto da questa Corte nel caso di società di capitali, laddove si esclude normalmente il litisconsorzio necessario tra società e soci (Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 31214 del 9 novembre 2023, Rv. 669715-01; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 20507 del 29 agosto 2017, Rv. 645046-01; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 426 del 10 gennaio 2013, Rv. 625086-01; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 2214 del 31 gennaio 2011, Rv. 616479-01 ), fatta salva l’ipotesi in cui la società di capitali abbia optato per l’imputazione del reddito per trasparenza ai sensi dell’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 (cd. TUIR) (Cass. civ., Sez. 65, ordinanza n. 24472 del 1° dicembre 2015, Rv. 637559-01; Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 27278 del 21 ottobre 2024, Rv. 672724-01).
Nel caso di specie, non risulta in alcun modo chela contribuente RAGIONE_SOCIALE abbia optato per il regime cd. di trasparenza di cui all’art. 5 del TUIR, sicché il litisconsorzio necessario tra società e soci deve essere escluso.
Tanto più sotto il profilo della configurabilità di una società familiare, posto il rilievo marginale che deve darsi a tale affermazione della CTR, come in precedenza precisato.
A ciò aggiungasi che la tesi di parte ricorrente contrasta anche con l’indirizzo più volte espresso in materia da questa Corte, che, in caso di separata pendenza dei giudizi di accertamento nei confronti di società di capitali a ristretta base partecipativa e dei soci della stessa, ha individuato un rapporto di dipendenza dell’accertamento riguardante i soci rispetto alla società, tale da legittimare l’eventuale sospensione, ex art. 337 c.p.c. del giudizio relativo all’accertamento riguardante il socio laddove sia impugnata la sentenza pronunciata in tema di accertamento sulla società (cfr., in generale, Cass. civ., Sez. U., sentenza n. 21763 del 29 luglio 2021, Rv. 662227-01, 662227-02, 662227-03 e, specificamente, nel contenzioso tributario, Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 26699 del 12 settembre 2022, non massimata; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 23480 del 6 ottobre 2017, Rv. 646407-01; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 17613 del 5 settembre 2016, Rv. 640959-01; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 16329 del 17 luglio 2014, Rv. 632247-01), potendo comunque il socio, nel giudizio relativo all’accertamento del proprio reddito da partecipazione, oltre a far valere questioni personali, contestare nel merito l’accertamento del maggior reddito d’impresa della società. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio di impugnazione dell’avviso di accertamento emesso nei confronti di socio di società di capitali, avente ad oggetto il maggior reddito da partecipazione derivante dalla presunzione di distribuzione dei maggiori utili accertati a carico della società partecipata, non vi è litisconsorzio necessario tra società e soci, sussistendo unicamente il nesso di pregiudizialità-dipendenza tra l’accertamento sociale e quello dei soci (Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 21644 del 7 luglio 2022, non massimata; Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 92 del 4 gennaio 2022, non massimata; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 21649 dell’ 8 ottobre 2020, non massimata; Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 20507 del 29 agosto 2017, Rv. 645046-01; Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 426 del 10 gennaio 2013, Rv. 625086-01).
La censura, pure formulata nel motivo in esame con riferimento all’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 (cd. TUIR), è invece inammissibile per novità della questione dedotta, che non risulta né dal testo della sentenza impugnata, né dal ricorso, essere stata posta dinanzi al giudice di merito, ovvero nel ricorso originario. Ed in effetti in quest’ultimo, prodotto in
allegato al ricorso per cassazione, non risulta proposto alcun motivo con riferimento al citato art. 5 TUIR.
Al riguardo, giova rammentare che « Qualora una questione giuridica implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa » (Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 3473 del l’11 febbraio 2025, Rv. 674087-01).
9.- Con il quinto motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la « Violazione o falsa applicazione del D.P.R. N. 600/1973 (art. 42) e del D.LGS. N. 546/1992 (art. 7) » nonché, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., l ‘ « Omessa motivazione circa un fatto decisivo della controversia ».
La ricorrente lamenta l’omessa allegazione all’avviso di accertamento della documentazione contabile e bancaria verificata dalla G.d.F. nonché dell’autorizzazione ad effettuare le indagini fiscali e bancarie, nonché l’omessa pronuncia sullo specifico motivo di impugnazione, ave ndo la parte lamentato nel motivo che « La sentenza impugnata ha omesso di esaminare la censura relativa alla omessa allegazione della documentazione bancaria e dell’atto autorizzativo della verifica fiscale al quale veniva fatto rinvio per relationem con ciò integrandosi il vizio di cui all’art . 360 n° 5 cpc ».
10.- Orbene, la censura proposta ai sensi del n. 5) del comma 1 dell’art. 360 c.p.c., è inammissibile per la preclusione di cui all’art. 348 -ter c.p.c., di cui si è già detto esaminando il secondo e terzo motivo.
Peraltro, anche a voler riqualificare la censura di « omessa motivazione », dedotta in rubrica, in quella di omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., il motivo, che non fa riferimento alla nullità della decisione in conseguenza di detta omissione, deve comunque essere dichiarato inammissibile alla stregua del principio giurisprudenziale in
base al quale « Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, c.p.c., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge » (Cass. civ., Sez. 2, ordinanza n. 10862 del 7 maggio 2018, Rv. 648018-01).
In ogni caso, le censure sono infondate e vanno rigettate.
Quanto alla prima censura, i giudici di appello hanno correttamente escluso un obbligo in capo all’amministrazione finanziaria di allegare all’avviso di accertamento o di produrre la documentazione bancaria in originale; hanno dato atto che il contenuto essenziale degli accertamenti bancari era stato « riversato » nell’atto impositivo e, « soprattutto le risultanze degli accertamenti bancari, lungi dal non essere note al contribuente, gli sono state spiegate e contestate, tanto che costui si è difeso specificamente sul punto a fol. 41 del p.v.c. » ( cfr., all’uopo, la sentenza impugnata, a pag. 4).
A ciò aggiungasi che nel p.v.c. – allegato al ricorso, che venne consegnato alla parte contribuente e a cui l’atto impositivo ri nvia -, risultano indicate, una per una, le movimentazioni bancarie riprese a tassazione, sicché risulta pienamente soddisfatto l’onere motivazionale dell’atto impositivo e nessun ulteriore onere, quale quello di allegazione allo stesso « degli assegni bancari e degli originali degli estratti dei conti correnti bancari dei singoli soci » ( cfr., all’uopo, il ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità, a pag. 36), peraltro nella disponibilità delle banche, gravava sull’amministrazione finanziaria.
Anche la seconda censura è infondata, giacché sulla questione dedotta, ovvero « l’omessa allegazione della autorizzazione ad effettuare le indagini fiscali e bancarie » all’avviso di accertamento, nella sentenza impugnata si dà espressamente atto, così come già avevano fatto i giudici di primo grado, che il p.v. di verifica sottoscritto da NOME NOME riportava, a pag. 2, l’annotazione della G.d.F. di aver reso edotto la parte contribuente dei motivi dell’intervento e di aver esibito l’ordine di esecuzione della verifica fiscale, da ciò derivando l’assoluta superfluità dell’allegazione di quell’autorizzazione all’atto impo sitivo, neppure richiesto ai fini di completezza motivazionale dello stesso.
Quanto all’autorizzazione alle indagini bancarie, la questione va esaminata unitamente al sesto motivo di ricorso con cui la ricorrente denunciando , ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la « Violazione o falsa applicazione del D.P.R. N. 600/1973 (art. 33) e L. N. 212/2000 (art. 12) e D.P.R. N. 633/1972 (art. 52) », torna a lamentare l’inesistenza e l’omessa esibizione dell’autorizzazione alla G.d.F. all’espletamento delle indagini bancarie, che non era mai stata allegata al p.v.c. o all’avviso di accertamento e nemmeno prodotta in giudizio.
La ricorrente sostiene che « la sentenza impugnata ha equivocato la portata del motivo di ricorso ritenendo che la sottoscrizione del p.v.c. da parte di NOME NOME legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e la informativa circa i motivi della verifica fiscale potesse costituire prova, o meglio un surrogato, dell’atto autorizzativo alle indagini finanziarie che, invece, non risulta fosse preesistito e tanto meno che fosse portato a conoscenza del soggetto passivo della verifica » ( cfr., all’uopo, sempre il ricorso introduttivo del presente giudizio di legittimità, alla pag. 39).
Il motivo, anche a voler prescindere dalla sua inammissibilità perché la ricorrente deduce un vizio di violazione di legge pur sostanzialmente lamentando un’omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., da dedursi ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., su un motivo che è, peraltro, anche nuovo, non risultando essere stato proposto nei gradi di merito e nemmeno trattato nella sentenza impugnata (cfr. Cass. civ., Sez. T, ordinanza n. 3473 dell’11 febbraio 2025, Rv. 674087 -01), è manifestamente infondato posto che, alla pag. 8 del processo verbale di constatazione, regolarmente consegnato e sottoscritto dal legale
rappresentante della società contribuente, si legge testualmente: « Ulteriore attività ispettiva ha riguardato il riscontro della documentazione bancaria acquisita previa autorizzazione dell’A.G. competente. (vds. all. n. 3) ». Pertanto, non solo l’autorizzazione preesisteva alla verifica, ma era stata anche allegata al p.v.c. consegnato alla parte contribuente, che non risulta aver mai lamentato alcunché al riguardo.
Deve, inoltre, osservarsi che, diversamente da quanto si sostiene nella memoria, nel caso di specie, avendo la ricorrente lamentato – peraltro infondatamente, per come si è detto sopra, nel quinto motivo di ricorso -« l’omessa allegazione all’avviso di accertamento della autorizzazione ad effettuare le indagini bancarie » nonché, nel sesto motivo, « la omessa esibizione e l’inesistenza di apposita autorizzazione della comandante della compagnia della RAGIONE_SOCIALE », nessuna incidenza ha nella fattispecie la recente pronuncia della Corte Europea del Diritti dell’Uomo (CEDU) del 6 febbraio 2025, in causa n. 36617/2018 e altre, RAGIONE_SOCIALE ed altri, in materia di garanzie spettanti ai contribuenti in sede di verifiche fiscali effettuate presso la sede dove viene svolta l’attività.
Con tale sentenza la CEDU ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sul presupposto che l’ordinamento interno non fornisce garanzie adeguate in relazione agli accessi, ispezioni e verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate presso i locali adibiti ad attività commerciali o professionali dei contribuenti, intesi in senso ampio e quindi comprensive sia delle sedi legali che di eventuali succursali.
Ciò precisato, va osservato che, nella memoria, con riferimento alla citata sentenza della CEDU, la ricorrente sostiene di aver dedotto già con il ricorso originario: « (i) Difetto di motivazione (ii) Omessa indicazione dello scopo della verifica e dell’autorizzazione alla verifica (iii) Violazione del termine massimo di trenta giorni per l’espletamento delle operazioni di verifica (iv) Inosservanza dell’obbligo di produrre in originale la documentazione bancaria (v) Violazione degli artt. 32, 37, 39, 40 e 41 bis del D.P.R. n. 600/73 (cioè di alcune delle norme indicate a sospetto dalla Corte Europea) (vi) Mancato riconoscimento dei costi afferenti ai maggiori ricavi accertati ».
Al riguardo, però, deve osservarsi che sulle questioni indicate dalla ricorrente alcuna incidenza può attribuirsi alla sentenza della Corte EDU, sicuramente non con riferimento alle questioni indicate ai punti (i), (iv), (v) e (vi), né la stessa ha allegato o dedotto alcunché con riferimento all’accesso operato dalla RAGIONE_SOCIALE presso la sede della società.
Quanto alla questione relativa alla « Omessa indicazione dello scopo della verifica e dell’autorizzazione alla verifica » , si è già ampiamente argomentato, esaminando il quinto e sesto motivo di ricorso, sull’infondatezza di quanto dedotto al riguardo dal ricorrente.
Con riguardo alla violazione del termine massimo di trenta giorni per l’espletamento delle operazioni di verifica, la sentenza impugnata si è espressamente pronunciata, sostenendo di condividere la pronuncia di primo grado che aveva osservato che « un conto è la verifica presso la sede del contribuente, altra cosa è la verifica eseguita presso gli uffici dell’organo di verifica, fattispecie che ricorre nel caso in esame ». Tale statuizione, che esclude la sussistenza di detta violazione, non è stata fatta oggetto di specifico motivo di impugnazione, con conseguente formazione, sul punto, del giudicato interno.
Da ultimo, con riguardo alla questione posta nella memoria in ordine all’art. 21 -bis del d.lgs. n. 74 del 2000, deve osservarsi che tale disposizione è inapplicabile nella fattispecie, posto che è la stessa ricorrente a riconoscere che « nonostante la consistenza delle accuse desumibili dal PVC contestato non risulta alcuna condanna penale né alcuna imputazione a carico della società e del suo amministratore » (cfr., all’uopo, la memoria illustrativa, al paragrafo 3.9).
11.- In conclusione, alla stregua delle considerazioni finora sviluppate il ricorso deve essere respinto e la ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.
12.- Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione , se dovuto.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente
giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi €. 5.900,00 (euro cinquemilanovecento/00), oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria,