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Incarico a dipendente pubblico: l’errore è scusabile?

Una società edile viene sanzionata dall’Agenzia Fiscale per aver affidato un incarico a un dipendente pubblico senza la prescritta autorizzazione. La società si difende invocando l’errore incolpevole, dato che il professionista aveva Partita IVA ed emetteva fatture. La Corte di Cassazione, pur confermando l’onere di diligenza del committente nel verificare lo status del professionista, annulla parzialmente la sanzione poiché una delle norme applicate è stata dichiarata incostituzionale. Il caso è stato rinviato alla Corte d’Appello per la rideterminazione della sanzione e delle spese legali.

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Pubblicato il 16 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Incarico a dipendente pubblico: quali cautele per evitare sanzioni?

Affidare un incarico professionale a un collaboratore esterno è una prassi comune per molte aziende. Tuttavia, sorgono complicazioni quando il professionista scelto è anche un dipendente pubblico. La normativa vigente impone regole stringenti per prevenire conflitti di interesse e garantire la trasparenza della Pubblica Amministrazione. Un’impresa che assegna un incarico a dipendente pubblico senza le dovute cautele rischia pesanti sanzioni. Una recente sentenza della Corte di Cassazione fa luce sui doveri di diligenza del committente e sui limiti dell’errore scusabile.

I fatti del caso

Una società edile conferiva a un professionista l’incarico di coordinatore per la sicurezza in un cantiere. Successivamente, l’Agenzia Fiscale notificava alla società un’ordinanza-ingiunzione, contestando la violazione della normativa sul pubblico impiego. Il professionista, infatti, era un dipendente di un Ente locale e l’incarico era stato conferito senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza e senza la successiva comunicazione dei compensi.

La società si opponeva alla sanzione, sostenendo di aver agito in buona fede. A suo avviso, diversi elementi la inducevano a credere che il collaboratore fosse un libero professionista a tutti gli effetti: egli era titolare di Partita IVA, emetteva regolari fatture con ritenuta d’acconto ed era iscritto all’ente di previdenza dei periti industriali. La società riteneva quindi di trovarsi in una situazione di errore incolpevole.

Il percorso giudiziario

Il Tribunale di primo grado accoglieva il ricorso della società, ritenendo sussistente l’esimente della buona fede. Secondo il giudice, gli elementi forniti dal professionista (Partita IVA e fatture) erano sufficienti a escludere la colpa del committente.

Di parere opposto la Corte d’Appello che, accogliendo il gravame dell’Agenzia Fiscale, riformava la sentenza. La Corte territoriale sosteneva che la mera titolarità di una Partita IVA non fosse un elemento decisivo, poiché anche i dipendenti pubblici part-time possono possederla. Il committente, per agire con la dovuta diligenza, avrebbe dovuto richiedere al professionista un’autocertificazione che attestasse il suo status e l’assenza di incompatibilità.

Incarico a dipendente pubblico: l’analisi della Cassazione

La società ricorreva in Cassazione, sollevando diverse questioni procedurali e di merito. La Suprema Corte ha analizzato i vari motivi, giungendo a una decisione complessa.

L’onere di diligenza del committente

La Corte ha confermato l’orientamento della Corte d’Appello riguardo all’onere di diligenza. Gli Ermellini hanno stabilito che gli indizi come la Partita IVA o l’emissione di fatture non sono sufficienti a esonerare il committente dalla responsabilità. L’impresa che affida un incarico ha il dovere di porre in essere tutte le cautele necessarie per assicurarsi che il professionista non sia un dipendente pubblico o, se lo è, che sia debitamente autorizzato. La richiesta di un’autocertificazione è stata indicata come lo strumento minimo per adempiere a tale obbligo. L’attività di ristrutturazione edilizia svolta dall’impresa, inoltre, presuppone una conoscenza specifica degli obblighi di comunicazione verso la pubblica amministrazione.

L’intervento d’ufficio della Corte e la norma incostituzionale

Il punto di svolta della sentenza risiede in un rilievo d’ufficio della Corte. I giudici hanno notato che la sanzione irrogata si basava su due distinte violazioni: la prima per il conferimento dell’incarico senza autorizzazione (art. 53, comma 9, D.Lgs. 165/2001) e la seconda per la mancata comunicazione dei compensi (art. 53, comma 11, D.Lgs. 165/2001).

Tuttavia, quest’ultima norma era stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 98 del 2015. In applicazione del principio del favor rei, secondo cui va applicata la norma più favorevole al sanzionato, la Cassazione ha stabilito che la sanzione relativa alla mancata comunicazione dei compensi dovesse essere annullata.

La questione delle spese legali

La Corte ha anche accolto il motivo di ricorso relativo alla condanna alle spese legali. Nel giudizio di primo grado, l’Agenzia Fiscale si era difesa in proprio, senza l’ausilio di un avvocato. In questi casi, l’amministrazione non ha diritto al pagamento degli onorari professionali, ma solo al rimborso delle spese vive effettivamente sostenute e documentate. La Corte d’Appello aveva erroneamente condannato la società a pagare le spese legali per entrambi i gradi di giudizio, inclusi gli onorari per il primo grado. La Cassazione ha quindi ritenuto fondata questa censura.

Le motivazioni

La decisione della Suprema Corte si fonda su principi consolidati. Da un lato, viene riaffermato il rigoroso onere di diligenza che grava sul privato che entra in rapporto con un soggetto che potrebbe essere un dipendente pubblico. L’obiettivo è tutelare l’imparzialità e il buon andamento della Pubblica Amministrazione, consentendole di verificare preventivamente eventuali conflitti di interesse. Dall’altro lato, la Corte applica il principio del favor rei e della retroattività della legge più favorevole in materia di sanzioni amministrative. Una sanzione basata su una norma dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale non può sopravvivere e deve essere eliminata, anche d’ufficio in sede di legittimità. Infine, viene ribadito il principio secondo cui la condanna alle spese legali presuppone che la parte vittoriosa si sia avvalsa della difesa tecnica di un avvocato.

Le conclusioni

La Corte di Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso. Ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello in diversa composizione. Il nuovo giudice dovrà ricalcolare l’importo della sanzione, escludendo la parte relativa alla violazione della norma dichiarata incostituzionale. Dovrà, inoltre, provvedere a una nuova e corretta liquidazione delle spese di lite, escludendo gli onorari di avvocato per il primo grado di giudizio. La sentenza rappresenta un importante monito per le imprese: prima di affidare un incarico professionale, è fondamentale accertare lo status del collaboratore attraverso strumenti idonei, come un’autocertificazione, per non incorrere in responsabilità.

Possedere la Partita IVA è sufficiente per escludere che un professionista sia anche un dipendente pubblico?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la titolarità di una Partita IVA non è un elemento sufficiente a escludere la qualifica di dipendente pubblico, poiché anche i dipendenti pubblici in regime di part-time possono averla. Il committente ha un onere di diligenza che va oltre questa semplice verifica.

Quali obblighi ha un’impresa che affida un incarico per evitare sanzioni legate al pubblico impiego?
L’impresa ha l’obbligo di usare l’ordinaria diligenza per accertarsi che il professionista non sia un dipendente pubblico incompatibile con l’incarico. La Corte suggerisce che una misura idonea per adempiere a tale obbligo è richiedere al professionista un’apposita autocertificazione che chiarisca la sua posizione lavorativa.

Cosa succede se una sanzione si basa su una norma dichiarata incostituzionale dopo l’emissione del provvedimento?
La sanzione deve essere annullata. In base al principio del favor rei (la legge più favorevole), se una norma sanzionatoria viene dichiarata incostituzionale, i suoi effetti cessano e la sanzione non può più essere applicata. La Corte di Cassazione può rilevare d’ufficio tale questione e annullare la sanzione corrispondente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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