Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 20602 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 20602 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 22/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2668/2023 R.G. proposto da : COGNOME NOMECOGNOME elettivamente domiciliato in VITERBO INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO . (NUMERO_DOCUMENTO) che la rappresenta e difende
-controricorrente-
avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. DEL LAZIO n. 2843/2022 depositata il 20/06/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/05/2025 dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
In data 26/10/2017, l’Agente della riscossione notificava a COGNOME NOME l’avviso di intimazione n. NUMERO_CARTA per la somma complessiva di € 1.102.919,85, stante il mancato pagamento di diverse cartelle esattoriali.
Il contribuente adiva la Commissione Tributaria Provinciale di Viterbo per l’annullamento della citata intimazione esattoriale, lamentando la mancata notificazione delle sottese cartelle di pagamento, nonché la prescrizione del credito.
Con sentenza n. 245/02/2019, la Commissione Tributaria Provinciale di Viterbo, premesso il proprio difetto di giurisdizione in ordine ai crediti extratributari, respingeva il ricorso, attesa la rituale notificazione delle cartelle esattoriali in contestazione, divenute definitive per mancata impugnazione nei termini di legge. Avverso tale pronuncia, il contribuente proponeva appello dinanzi alla CTR della Lazio con sentenza n. 2843/09/2022, dichiarava l’appello inammissibile.
Il contribuente propone ora ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
Resiste l’Ufficio con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si contesta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 342, 348 bis cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 e 5 c.p.c., per aver la CTR omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio relativo alla mancata
valutazione delle memorie illustrative depositate nel fascicolo telematico, erroneamente ritenute non presenti in atti.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 e 4 c.p.c., per aver la CTR omesso di pronunciarsi sulle eccezioni relative all’inesistenza, invalidità, nullità delle notifiche delle cartelle di pagamento sottese all’intimazione, nonché alla prescrizione delle cartelle di pagamento.
Con il terzo motivo si censura testualmente la ‘ Violazione e falsa applicazione… ‘, adducendo che la sentenza di secondo grado risulta altresì viziata da un ‘ duplice errore logico-giuridico ‘, dato dall’aver ‘ ritenuto che la notifica delle cartelle di pagamento fosse avvenuta in via diretta a mezzo servizio postale (quando invece non era così) ‘ e dall’aver ‘ omesso di pronunciarsi sull’eccezione del Barelli circa l’invalidità della notifica a persona diversa dal destinatario o mediante deposito nella casa comunale non corredata dalla prova dell’invio e della ricezione della raccomandata informativa diretta al contribuente ‘ .
Con il quarto motivo di ricorso si lamenta letteralmente la ‘ Violazione e falsa applicazione ……’ , individuata nell’aver l a sentenza di secondo grado ‘ del tutto omesso di pronunciarsi sull’eccezione sollevata dal COGNOME circa l’efficacia probatoria delle copie fotostatiche di relate di notifica disconosciute ‘ .
Il primo motivo non coglie nel segno e va respinto.
La doglianza si risolve nella prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma attualmente vigente ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nonché volta ad una nuova valutazione dei fatti e delle risultanze documentali e istruttorie, non ammissibile in questa sede.
Questa Corte ha, infatti, chiarito che il fatto postulato dal paradigma dell’art. 360, n. 5, c.p.c., deve sostanziarsi imprescindibilmente in un preciso accadimento o in una precisa
circostanza in senso storico-naturalistico, e deve essere decisivo, ovvero per potersi configurare il vizio è necessario che la sua assenza conduca, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione, in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data, vale a dire un fatto che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 14 novembre 2013, n. 25608).
Il denunciato vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. concerne, in altri termini, esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (Cass., Sez. U., sentenza 7 aprile 2014, n. 8053).
Il vizio dedotto, dunque, non può consistere in un apprezzamento di documenti, fatti o prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, avendo questa Corte chiarito che spetta soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24035; Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 23 maggio 2014, n. 11511); né la Corte di cassazione può procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass., 7 gennaio 2014, n. 91; Cass., Sez. U., 25 ottobre 2013, n. 24148).
Nel caso in esame, nell’esposizione del motivo, non si ravvisa alcun riferimento a fatti controversi, nella accezione su indicata, in quanto la censura finisce inammissibilmente per lamentare un supposto ‘errore processuale’, non certo l’obliterazione di un fatto storico-naturalistico. È evidente che, in tal senso, esso traligni dal recinto del vizio invocato di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.
In ogni caso, va soggiunto che i motivi di impugnazione della sentenza di primo grado devono essere immediatamente svolti con l’atto di appello, non già declinati negli scritti successivamente depositati in giudizio. In particolare, la memoria illustrativa non ha valenza suppletiva dell’originario ricorso in appello e non giova a colmarne l’eventuale, riscontrata lacunosità. Questa Corte, d’altronde, ha chiarito che ‘ I motivi di appello, a norma dell’art. 342 cod. proc. civ., devono essere specifici e cioè rivolgere alla sentenza impugnata censure puntuali e precise, al cui esame resta delimitato l’ambito della cognizione in sede di gravame, senza possibilità di ampliamenti successivi, la cui inammissibilità può e deve essere rilevata d’ufficio’ (Cass. n. 7849 del 2001) . La giurisprudenza di legittimità ha soggiunto che ‘In tema di processo di appello, in ossequio al principio del “tantum devolutum quantum appellatum” di cui all’articolo 342 cod. proc. civ., il quale importa non solo la delimitazione del campo del riesame della sentenza impugnata ma anche l’identificazione, attraverso il contenuto e la portata delle censure, dei punti investiti dall’impugnazione e delle ragioni per le quali si invoca la riforma delle decisioni, i motivi debbono essere tutti specificati nell’atto di appello (con cui si consuma il diritto di impugnazione), sicchè restano precluse nel corso dell’ulteriore attività processuale sia la precisazione di censure esposte nell’atto di appello in modo generico, che la possibilità di ampliamenti successivi delle censure originariamente dedotte’ (Cass. n. 6030 del 2006; Cass. n. 11673 del 2008) .
Il secondo motivo è inammissibile.
L’inammissibilità è vistosa in quanto la censura non si confronta in alcun modo con l’effettiva ratio decidendi della CTR che è di natura processuale. A fronte di una decisione d’appello sorretta dalla statuita inammissibilità del gravame per carenza di specificità dei motivi, la parte ricorrente inammissibilmente ambisce a ridiscutere in sede di legittimità il merito della controversia.
In realtà, non consta il vizio di omessa pronuncia denunciato, il quale postula per definizione un reale difetto del momento decisorio, sicché per integrarlo occorre in nuce che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che si verifica quando il giudice non decide su un capo o una questione che sia autonomamente apprezzabile e non interdipendente -come nella specie -da altra questione preliminare in rito.
Invero, l’assorbente profilo della carenza di specificità messo in luce dal giudice di merito escludeva in radice che il giudice stesso, avendo valorizzato come dirimente una questione in rito, potesse contraddittoriamente addentrarsi nel vaglio degli aspetti di merito della controversia, esercitando pure rispetto ad essi la propria potestas judicandi . Né gli aspetti di merito della causa sono ovviamente suscettibili d’essere recuperati in questa sede.
Il terzo motivo e il quarto motivo, suscettibili di trattazione unitaria per omogeneità strutturale, sono manifestamente inammissibili.
Entrambi, invero, presentano una rubrica monca, nella quale manca persino l’indicazione delle norme di legge che assumono violate. Le disposizioni contraddette in parola non sono evocate, ma sostituite da puntini di sospensione.
Ad affliggere ambedue le censure è, in tal senso, un’eclatante genericità, non avendo offerto il ricorrente alcun elemento idoneo a far comprendere quale fosse il paradigma normativo violato e in che cosa consistessero nel dettaglio le divaricazioni rispetto ad esso.
Il ricorrente non indica, in nessuno dei due motivi, con la doverosa precisione, quale delle ipotesi, tra quelle tassativamente indicate dall’art. 360, comma 1, c.p.c., viene dedotta, né -in particolare -quali siano le disposizioni normative delle quali viene lamentata l’inosservanza . Piuttosto richiama, nell’illustrazione de lle due censure, porzioni della motivazione alla base della sentenza
impugnata e svolge contestazioni riguardo ad essa, trascurando di evidenziare in relazione a quale specifico vizio ed a quale specifica norma le contestazioni siano mosse. Manca, in altri termini, persino l’enucleazione delle affermazioni in diritto della sentenza che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità. In questo modo, avendo il ricorrente tralasciato di ricondurre una specifica statuizione della sentenza alla violazione di una determinata norma, viene impedito a questa Corte di adempiere al suo compito di verificare il fondamento delle lamentate violazioni (in tema v. Cass., 9 marzo 2012, n. 3721).
La parte ricorrente si è posta in urto, pertanto, con quanto affermato da questa Corte, secondo cui, nel giudizio per cassazione, che ha ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, c.p.c., il ricorso deve essere articolato in specifici motivi immediatamente ed inequivocabilmente riconducibili ad una delle cinque ragioni di impugnazione previste dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass., sez. U., 24 luglio n.17931; Cass., 7 maggio 2018, n. 10862).
D’altronde, il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorché la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156, secondo comma, cod. proc. civ.) (Cass., 13 marzo 2009, n. 6184).
Tali principi postulano, avuto riguardo al ricorso per cassazione, che ciascun motivo debba necessariamente articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad
evidenziarlo (Cass., 10 marzo 2006, n. 5244; Cass., 4 marzo 2005, n. 4741).
È opportuno soggiungere che con riferimento in particolare al vizio ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., secondo consolidato orientamento di questa Corte, giusta il disposto di cui all’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione della legge deve essere a pena d’inammissibilità dedotta nel ricorso per Cassazione mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Suprema Corte adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., 8 novembre 2005, n. 21659).
Per le riassunte ragioni entrambi i motivi sono inammissibili, risultando enunciati senza la completezza necessaria a renderli idonei ad assolvere allo scopo di configurarsi come valide critiche alla sentenza impugnata.
A questo precipuo profilo di inammissibilità, merita soggiungere -solo ad abundantiam -che se ne somma un altro, il quale travolge in convergenza, una volta di più, ambedue le censure. Ed in effetti, sebbene queste ultime, a vario titolo contestino la ritualità del procedimento notificatorio e dell’apparato documentale che l’ha supportato, trascurano di riportare finanche i passaggi essenziali dell’ iter in parola e tralasciano di rendere evidente quale sia stata la sua precisa declinazione. È noto, tuttavia, che in tema di ricorso per cassazione, ove sia contestata la rituale notifica delle cartelle di pagamento, per il rispetto del principio di autosufficienza, è necessaria la trascrizione integrale delle relate e degli atti relativi al procedimento notificatorio, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza in base alla sola lettura del ricorso,
senza necessità di accedere a fonti esterne allo stesso (Cass., 30 novembre 2018, n. 31038; v. anche Cass., 17 gennaio 2019, n. 1150).
Il ricorso va, in definitiva, rigettato. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 13.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 28/05/2025.