Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 14570 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 14570 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21135/2022 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO (NUMERO_DOCUMENTO) che lo rappresenta e difende ex lege
-controricorrente-
avverso SENTENZA della C.T.R. della CAMPANIA n. 1391/2022 depositata il 04/02/2022 08/04/2025
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del l’ dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Intesa Sanpaolo s.p.a. impugna la sentenza della C.T.R. della Campania che ha rigettato l’appello dalla medesima proposto avverso la sentenza della C.T.P di Salerno, di rigetto del ricorso per l’annullamento dell’avviso di liquidazione dell’imposta di registro, nella misura di euro 13.458,00, relativo alla registrazione della sentenza della Corte di Appello di Salerno n. 515 del 2017.
La C.T.R., dato atto che la società destinataria aveva partecipato al giudizio conclusosi con la sentenza assoggettata a tassazione, ciò implicando la sicura conoscenza da parte della contribuente del suo contenuto, ha ritenuto adeguatamente motivato l’avviso di liquidazione. Indi ha affermato la legittimità dell’applicazione della tassazione proporzionale nella misura del 3%, ai sensi dell’art. 8, comma 1 lett. b) della Prima parte della Tariffa allegata al d.P.R. 131 del 1986, contenendo la decisione della Corte di appello di Salerno la condanna dell’istituto bancario alla restituzione dell’indebito nei confronti dell’attore, titolare di conto corrente. Su questa base la C.T.R. ha, ulteriormente, escluso l’applicabilità del principio di alternatività fra imposta di registro ed IVA, di cui all’art. 40 del d.P.R. 131 del 1986, esso riguardando le cessioni di beni e prestazioni e non obblighi di natura restitutoria. Infine, ha sottolineato che le somme a titolo di interessi moratori, di cui alla sentenza oggetto
di imposizione, non concorrono a formare la base imponibile IVA, ai sensi dell’art. 15 d.P.R. 633 del 1972.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Con memoria ex art. 380 bis.1 cod. proc. civ., la società ricorrente ribadisce le conclusioni assunte, formulando eccezione di inammissibilità del controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Intesa San Paolo s.p.a. formula cinque motivi di ricorso.
Con il primo fa valere, ex art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della l. 212 del 2000, per avere la C.T.R. ritenuto correttamente motivato l’avviso di liquidazione, in assenza dell’allegazione del provvedimento giudiziario oggetto di registrazione.
Con il secondo motivo deduce, ex art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ. la violazione e falsa applicazione della nota II dell’art. 8 della Prima Parte della Tariffa allegata al d.P.R. 131 del 1986, per avere la C.T.R. ritenuto non applicabile il principio di alternatività di cui all’art. 40 del d.P.R. 131 del 1986 alle sentenze di condanna alla restituzione di somme addebitate al correntista in conseguenza dell’accertata nullità delle clausole contrattuali. Osserva che la disposizione si applica per tutti gli atti soggetti ad IVA, ancorché esenti, ivi comprese le operazioni di conto corrente o di finanziamento bancario, come chiarito in più occasioni dalla giurisprudenza di legittimità. Richiama l’art. 90 della Direttiva 112/2006/CE e l’art. 26 d.P.R. 633 del 1972, nonché la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea C-63/92 (Lubbok), da cui si evince che debbono ritenersi compresi nel campo di applicazione dell’IVA tanto le somme pagate in dipendenza del contratto di conto corrente bancario,
quanto quelle restituite in conseguenza della rideterminazione della misura delle prime.
Con il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 8, comma 1 lett. e) della Tariffa, Prima parte allegata al d.P.R. 131 del 1986. Sottolinea che la C.T.R., nel respingere l’impostazione della ricorrente, si è limitata ad affermare che l’inquadramento nell’art. 8 lett. b) delle sentenze di condanna alla restituzione di somme è conforme alla giurisprudenza di legittimità, dovendo considerarsi la disposizione di cui alla lett. e) di stretta interpretazione. Osserva che le domande proposte dalla RAGIONE_SOCIALE definita con la sentenza della Corte di appello di Salernoriguardavano la declaratoria di nullità delle clausole contrattuali relative alla capitalizzazione infrannuale degli interessi, alla commissione di massimo scoperto, nonché la condanna dell’istituto bancario alla restituzione delle somme indebitamente percepite in forza delle clausole nulle. Sicché la ‘condanna dell’appellante al pagamento, in favore della RAGIONE_SOCIALE della somma di euro 343.959,43, con gli interessi nella misura legale, dalla domanda sino al soddisfo’, è frutto della declaratoria di nullità delle clausole contrattuali, cui consegue la condanna alla ripetizione delle somme. La sentenza della Corte, invero, si è limitata a ristabilire l’originaria situazione patrimoniale esistente fra le parti, sicché la decisione non può che ricadere nel disposto della lett. e) dell’art. 8 cit., che assoggetta ad imposta fissa le pronunce che ‘dichiarano la nullità o pronunciano l’annullamento di un atto, ancorché portanti una condanna alla restituzione di denaro o la risoluzione di un contratto’.
Con il quarto motivo lamenta ex art. 360, comma 1 n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 cod. civ., nonché degli artt. 15 del d.P.R. 633 del 1972, 8,
comma 1 lett.re b) ed e) della Parte prima della Tariffa allegata al d.P.R. 131 del 1986 e dell’art. 40 del d.P.R. 131 del 1986. Ricorda che con l’impugnazione dell’avviso di liquidazione la banca ricorrente aveva contestato l’applicazione dell’imposta in misura proporzionale, anziché fissa, anche in relazione agli interessi al cui pagamento era stata condannata in sede civile, in quanto accessori dell’obbligazione per capitale, non potendo essi, pertanto, essere assoggettati ad una tassazione separata. Sottolinea che la C.T.R. ha ritenuto, del tutto erroneamente che gli interessi liquidati dalla sentenza della Corte di appello di Salerno fossero di natura moratoria, nonostante il dispositivo faccia espresso riferimento agli interessi legali, così come lo stesso avviso di liquidazione dell’Ufficio, e benché la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito che agli interessi conseguenti alla condanna di restituzione in casi di indebito oggettivo debba attribuirsi natura corrispettiva. Evidenzia l’inconferenza del richiamo operato dalla C.T.R. all’art. 15 del d.P.R. 633 del 1972, inerente alla determinazione della base imponibile IVA e non all’identificazione delle operazioni assoggettabili alla medesima imposta. Tanto è vero che il pagamento degli interessi moratori correlati ad un’operazione imponibile ai fini IVA, non forma base imponibile ai sensi dell’art. 15 cit..
Con il quinto motivo censura, ai sensi dell’art. 360, comma 1 n. 4) cod. proc. civ., la nullità della sentenza impugnata per violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, ex art. 112 cod. proc. civ.. Osserva che la C.T.R. ha del tutto omesso di pronunciare sul motivo di appello inerente alla violazione dell’art. 6 d.P.R. 131 del 1986 con il quale si denunciava l’inapplicabilità della disposizione non ricorrendo ‘caso d’uso’ nell’ipotesi di un atto presso la cancelleria del giudice in assolvimento dell’onere probatorio.
Il primo motivo è per un verso inammissibile e, per altro verso, infondato.
Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte ‘In tema di imposta di registro su atti giudiziari, l’obbligo di motivazione dell’avviso di liquidazione, gravante sull’Amministrazione, è assolto con l’indicazione della data e del numero della sentenza civile o del decreto ingiuntivo, senza necessità di allegazione dell’atto, purché i riferimenti forniti lo rendano agevolmente individuabile, e conseguentemente conoscibile senza la necessità di un’attività di ricerca complessa, realizzandosi in tal caso un adeguato bilanciamento tra le esigenze di economia dell’azione amministrativa ed il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente’ (Cass. Sez. 5, 07/04/2022, n. 11283; Cass. Sez. 5, 29/09/2021, n. 26340; Cass. Sez. 6, 26/10/2021, n. 30084; Cass. Sez. 6, 07/04/2021, n. 9344; Cass. Sez. 5, 12/01/2021, n. 239).
Ora, da un lato, non è stato allegato dalla ricorrente che l’avviso di liquidazione non contenesse i dati identificativi del provvedimento giurisdizionale assoggettato a tassazione, dall’altro, la medesima parte non indica quali siano gli elementi omessi dall’atto, che hanno reso così complessa la sua conoscibilità, tanto da comportare un sacrificio dell’esercizio della difesa in giudiziodi qui il profilo di l’inammissibilità della censuramentre la sua infondatezza è ricavabile dall’orientamento giurisprudenziale supra richiamato.
Il terzo motivo è fondato ed il suo accoglimento comporta il sostanziale assorbimento del secondo.
La decisione qui impugnata, nel disattendere la tesi, propugnata dalla banca ricorrente, dell’applicabilità della tassazione in misura fissa alla sentenza assoggettata all’imposta di registro, testualmente afferma che ‘ circa l’asserita illegittimità della sentenza -della C.T.P.- per violazione e falsa applicazione
dell’art. 8 comma 1 lettere b) ed e) della tariffa -parte prima allegata al d.P.R. 131 del 1986 e dell’art. 40 del TUIR, va detto che è costante in giurisprudenza (cfr. ex multis Cass. n. 23128/13; n. 8545/14; n. 1342/18) la tesi della corretta applicazione della lettera b) di esso art. 8 alle sentenze di condanna di restituzione di somme, considerando la lettera e) quale norma speciale di stretta interpretazione’ .
12. Per dare soluzione al quesito posto con la doglianza, occorre muovere dall’esame del contenuto della sentenza pronunciata nella controversia intentata dalla RAGIONE_SOCIALE nei confronti del Banco di Napoli (successivamente incorporato da Intesa Sanpaolo s.p.a), quantomeno per quanto riportato dalle difese delle parti, non essendo stata prodotta in questa sede, la decisione della Corte di appello. Non è contestato che con le domande introdotte la parte attrice avesse chiesto l’accertamento e la declaratoria di nullità delle clausole contrattuali contra legem , riguardanti la previsione di interessi anatocistici con capitalizzazione infrannuale e la previsione di commissioni di massimo scoperto, nonché la condanna dell’istituto di credito alla ripetizione dell’indebito. Né è efficacemente contestato che la condanna al pagamento della somma di cui al dispositivo sia derivata dall’accertamento della nullità delle clausole contrattuali impugnate. L’Agenzia delle Entrate, invero, afferma che ‘non si tratta di somme dovute in base al contratto intercorrente tra il Banco di Napoli ed il correntista, ma di indebite azioni di addebito compiute dalla Banca stessa’. Ma è ovvio che siffatti illegittimi addebiti dipendessero dall’applicazione di clausole contrattuali rivelatesi nulle, e che proprio la declaratoria di nullità parziale del contratto -e la conseguente sostituzione delle clausole nulle con la disciplina legale- siano sottese dalla Corte di merito alla
condanna alla restituzione delle somme indebitamente addebitate sul conto corrente.
E’ necessario, allora, comprendere se una simile pronuncia di condanna possa configurarsi, ai sensi dell’art. 8 della Parte prima della Tariffa allegata al d.P.R. 131 del 1986, quale provvedimento recante ‘condanna al pagamento di somme o valori’ di cui alla lett. b), o, se invece vada inscritta fra i provvedimenti ‘che dichiarano la nullità o pronunciano l’annullamento di un atto, ancorché portanti condanna alla restituzione in denaro o beni’ di cui alla lett. e).
Va, innanzitutto, ribadito il recente orientamento di legittimità, secondo il quale ‘I provvedimenti giudiziari che dichiarano la nullità o pronunciano l’annullamento di un atto, ancorché di condanna alla restituzione di denaro o beni, o di risoluzione di un contratto, anche quando la dichiarazione di nullità riguardi singole clausole ex art. 1419, comma 2, c.c., e non l’intero contratto che sopravvive tra le parti con la sostituzione della disciplina legale alle clausole nulle (nella specie, clausole di capitalizzazione trimestrale di interessi debitori relativi a contratti bancari con condanna della banca alla restituzione di somme indebitamente riscosse), sono soggetti ad imposta di registro in misura fissa, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. e), della tariffa – parte prima – allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, essendo irrilevante che essi riguardino corrispettivi o prestazioni soggetti ad IVA, non trovando applicazione alla ripetizione di indebito oggettivo il principio di alternatività di cui all’art. 40 del d.P.R. citato, né l’art. 8, comma 1, lett. b), della suddetta tariffa, il quale postula la fisiologica validità ( in toto et in qualibet parte ) del contratto originante le obbligazioni per le quali si chiede al giudice di pronunciare la condanna al pagamento o alla consegna’ (Cass. Sez. 5, del 31/08/2022, n.
25610; conf. Cass. Sez. 5, del 26/09/2024 n. 32476, richiamate anche dalla parte ricorrente).
15. Con la sentenza testé richiamata (Cass. Sez. 5, del 31/08/2022, n. 25610), questa Sezione si è pronunciata su un’ipotesi analoga a quella in esame. In quel caso, proprio come in questo, infatti, la parte aveva formulato, oltre alla domanda di declaratoria di nullità delle clausole contrattuali contra legem , anche la domanda di condanna alla restituzione delle somme indebitamente percepite in forza delle clausole nulle. In particolare, l’allora ricorrente Agenzia delle Entrate dubitava che ‘la mera affermazione in motivazione della nullità di una clausola contrattuale’ consentisse la sussunzione della fattispecie nell’art. 8 lett. e) della Tariffa, trattandosi di una disposizione applicabile soltanto in caso di nullità dell’intero contratto e non anche di singole clausole. La Corte ha ritenuto, in quella occasione, che ‘la previsione dell’art. 8, comma 1, lett. e), della tariffa – parte prima allegata al D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 non possa essere limitata alla sola fattispecie della dichiarazione di nullità totale del contratto (art. 1418 cod. civ.), per quanto si tratti dell’ipotesi più frequente nella prassi, ma debba comprendere anche – per l’assoluta identità di ratio, che renderebbe illogica una difforme regolamentazione, in assenza di una differenza qualitativa tra le due pronunzie – la fattispecie della dichiarazione di nullità parziale del contratto (art. 1419 cod. civ.), allorquando la ripetizione delle prestazioni eseguite contra legem postula la ulteriore sopravvivenza del contratto adeguato mediante la sostituzione automatica delle clausole nulle con la disciplina legale (art. 1419, comma 2, cod. civ.)’. Infatti, prosegue la Corte ‘non vi è alcuna differenza tra l’azione di nullità parziale e l’azione di nullità totale del contratto sul piano della giustificazione e dell’efficacia delle pronuncia giudiziale, essendo comune la funzione di conformare secundum legem la
regolamentazione dei rapporti fra le parti mediante la reciproca restituzione delle prestazioni o delle attribuzioni sine titulo ‘ ( ibidem ).
Da quanto sin qui osservato emerge che, diversamente da quanto ritenuto dalla C.T.R. e dalla controricorrente, la pronuncia oggetto di imposizione, riveste funzione restitutoria perché la condanna passa attraverso il ripristino delle prestazioni adempiute e non dovute, per effetto della nullità delle clausole e dell’applicazione della relativa disciplina legale (art. 1419, secondo comma cod. civ.).
16. Ora, secondo la giurisprudenza di questa Sezione in tema di imposta di registro, i provvedimenti dell’autorità giudiziaria recanti condanna al pagamento di somme o valori o alla restituzione di denaro devono essere assoggettati, ai sensi dell’art. 8, comma 1, lett. b), della tariffa – parte prima allegata al D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131, ad imposta proporzionale, a meno che, oltre alla condanna al pagamento di una somma di denaro o all’imposizione di un obbligo restitutorio, non abbiano ad oggetto anche l’annullamento o la declaratoria di nullità di un atto: in quest’ultimo caso, infatti, l’imposta dovrà essere determinata in misura fissa, in applicazione dell’art. 8, comma 1, lett. e), della tariffa – parte prima allegata al D.P.R. 26 aprile 1986 n. 131 (in questo senso: Cass., Sez. 5^, 7/07/2017, n. 16814; Cass., Sez. 6^-5, 23/08/2017, n. 20315; Cass., Sez. 5^, 20/12/2018, n. 32969; Cass., Sez. 5^, 8/101/2020, n. 21702; ed ancora Cass. Cass. Sez. 5, 31/08/2022, n. 25610; Cass. Sez. 5, 32476 del 26/09/2024).
La ratio di una simile impostazione, che esclude ogni proporzionalità dell’imposta assoggettando la pronuncia a misura fissa, sta proprio nell’assenza di trasferimento di ricchezza che connota l’effetto restitutorio dell’indebito conseguente alla declaratoria di nullità del contratto (o della sua
parziale nullità) o al suo annullamento o alla sua risoluzione, perché, in siffatti casi, la decisione altro non fa che ripristinare lo status quo ante dei rispettivi patrimoni delle parti, in quanto le prestazioni adempiute sono private ab origine di titolo giustificativo, ciò legittimando di per sé la ripetizione di quanto corrisposto.
Tirando le fila di quanto detto finora, va affermato che, nel caso in cui il pronunciamento del giudice di merito avente ad oggetto la condanna al pagamento di somme indebitamente addebitate sul conto corrente derivi dall’accertamento della nullità del contratto o delle sue clausole, con il conseguente ripristino della legalità del contratto, in forza della sostituzione automatica delle clausole nulle con la disciplina legale, allora la decisione rientra del disposto dell’art. 8 lett. e) della Prima parte della Tariffa allegata al d.P.R. 131 del 1986. .
L’accoglimento del terzo motivo esonera dalla trattazione del secondo, benché appaia opportuno ribadire quanto già affermato da questa Corte secondo cui il principio dell’alternatività fra imposta di registro ed IVA di cui all’art. 40 del d.P.R. 131 del 1986 è irrilevante in relazione alle ipotesi di nullità delle clausole e sostituzione delle medesime con la disciplina legale, con conseguente applicazione della disciplina dell’indebito oggettivo, ciò in quanto l’alternatività opera solo nei casi di cui all’art. 8 lett. c) cit., cui unicamente fa riferimento la nota II, siffatta ipotesi presupponendo la validità del contratto.
Il quarto motivo di ricorso è fondato.
Esclusa l’applicazione del principio di alternatività, cade la questione circa il significato da attribuire all’art. 15 del d.P.R. 633 del 1972, ma resta da risolvere la questione della qualificazione degli interessi connessi all’ipotesi di indebito oggettivo, definiti dalla C.T.R. moratori, a fronte della dizione della sentenza della Corte di appello che condanna la banca al
pagamento, in favore della RAGIONE_SOCIALE della somma di euro 343.959,43 con gli interessi nella misura legale dalla domanda sino al soddisfo’.
Ora, come già detto nell’ipotesi di dichiarazione di nullità di un contratto la disciplina degli obblighi restitutori tra le parti è mutuata da quella dell’indebito oggettivo, poiché viene a mancare la causa giustificativa delle rispettive attribuzioni patrimoniali eseguite in forza del contratto nullo. In coerenza con la previsione di cui all’art. 2033 c.c., dunque, colui che ha ricevuto un pagamento non dovuto in base ad un contratto dichiarato nullo è tenuto a restituire al solvens la somma percepita, con frutti ed interessi dal giorno del pagamento della somma indebitamente corrisposta, qualora l’ accipiens era in mala fede, ovvero dal giorno della domanda, qualora invece quegli era in buona fede.
Le Sezioni Unite, affrontando (Cass. Sez. U., 13/06/2019, n. 15895) la questione della decorrenza degli interessi in casi di ripetizione di indebito oggettivo, dopo avere chiarito che l’espressione dal giorno della “domanda”, contenuta nell’art. 2033 c.c., non va intesa come riferita esclusivamente alla domanda giudiziale, ma comprende anche gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora ai sensi dell’art. 1219 cod. civ., hanno affermato che la disposizione di cui all’art. 2033, ‘è norma parzialmente derogatoria rispetto all’art. 1282 c.c., costituendo eccezione -che la disposizione in esame, appunto, ammette- al principio secondo cui i crediti liquidi ed esigibili di una somma di danaro producono interessi (corrispettivi) di pieno diritto, e ciò in ragione del fatto che la legge considera legittima l’utilizzazione del denaro da parte dell’ accipiens in buona fede prima della “domanda” nel senso (…) specificato’.
Chiarito che gli interessi conseguenti l’indebito oggettivo hanno natura corrispettiva e non moratoria, deve osservarsi che
la sentenza della Corte di appello, riconoscendo gli interessi al tasso legale dalla data della domanda pare non solo avere ritenuto – indipendentemente dalla correttezza della decisione sul punto che non può in questa sede esaminarsi- la buona fede dell’ accipiens , ma, altresì aver ritenuto come corrispettivi gli interessi riconosciuti, in modo del tutto conforme alla pronuncia del Supremo Collegio, nulla potendosi ricavare dal testo, per come riportato, che autorizzi a credere che la decisione abbia adottato un orientamento difforme a quello nomofilattico appena richiamato.
Al di là, tuttavia, di quanto fin qui detto, vi è che gli interessi integrano parte del credito, posto che sono meri accessori dell’obbligazione per il capitale, e non possono essere assoggettati ad una tassazione separata. Sicché non appare possibile distinguere tra interessi corrispettivi ed interessi di mora dovuti per l’inadempimento dell’obbligazione, ai fini dell’imposta di registro (Cass. Sez. 5, del 18 aprile 2018 n. 9502 in motivazione).
Il quinto motivo è fondato.
La questione non è stata affrontata dalla C.T.R., benché proposta con l’atto di appello (circostanza non contestata dalla controricorrente). Nondimeno, posto che ‘Nel giudizio di legittimità, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto’ (Cass. Sez. 3, 16/06/2023, n. 17416), la doglianza può essere esaminata in questa sede.
Con una recentissima sentenza le Sezioni unite di questa Corte hanno stabilito che ‘Il deposito di un documento a fini probatori nell’ambito di un procedimento giudiziario contenzioso non costituisce “caso d’uso” in relazione all’art. 6 del d.P.R. n. 131 del 1986. (Cass. Sez. U., 16/03/2023, n. 7682). Non resta, pertanto, che conformarsi a detto principio di diritto.
Il ricorso va, dunque, accolto e la sentenza – non essendo necessario alcun ulteriore accertamento- deve essere, cassata senza rinvio, ai sensi dell’art. 384, comma 2 cod. proc. civ., con decisione nel merito di accoglimento dell’originario ricorso, stante l’applicabilità dell’art. 8 lett. e) cit..
Le spese di lite dell’intero giudizio possono essere integralmente compensate, avuto riguardo alla solo recente cristallizzazione degli orientamenti di legittimità sopra richiamati.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso, cassa senza rinvio la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso di parte contribuente . Compensa le spese di lite dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, in data 8 aprile 2025 .